Lettere dalla caserma: amore e fichi secchi di Giovanni Arpino
Lettere dalla caserma: amore e fichi secchi Lettere dalla caserma: amore e fichi secchi LO confesso con piacere: fui scrivano, segretario galante ma soprattutto obbligato a trasmettere messaggi dove notìzie di buona salute, preoccupazioni economiche, nostalgie, mal di pancia, problemi di parentele, futuri matrimoni, tristezze esistenziali mi attraversavano la penna con secchezza ed essenzialità narrative. Accadde nel '51, ero soldato in una caserma napoletana (quartiere dell'Arenacela). Miei compagni: molti sardi, analfabeti di ritorno, che non sapevano redigere una lettera. Usavano me, ricompensandomi con fichi secchi, piccoli servizi (rifar la branda, portarmi un caffè, evitarmi la «ronda») per la loro corrispondenza, nata amorosa ma tesa ad una finalità totale. Infatti, la fidanzata al paese era testimone di una intera vita lasciata laggiù, e metteva in carta, attraverso il parroco locale, gli umori delle famiglie, le attese, le circostanze createsi nel villaggio, e non solo ì sentimenti privati. Dunque: leggevo le lettere dettate ai parroci dalle fidanzate e dalle madri per i miei compagni, rispondevo sotto dettatura, non potendo sfuggire a un lessico codificato. Invano cercavo di consigliare un piglio più sostenuto. L'espressione mandata a memoria dal soldato che voleva-doveva rispondere alla ragazza o ai genitori non poteva sfuggire a un cifrario ben preciso. L'idea di lingua italiana che un ragazzo di Bini o di Olbia coltivava, vestendo panni militari, era ferma: squallidissima, ma senza scampo. Mi dicevano: professore, scrivi come ti detto io. sennò non ci capiamo, ncn capirebbe neppure il parroco che dovrà leggere. £ io scrivevo. Seduto sulla branda, re¬ digevo comunicati d'affetto, di salute, di indigenze magari fittizie, di promesse non da marinaio però da fante. Il ragazzo di Bitti sillabava i suoi precari congiuntivi in un linguaggio misto, a metà tra il dialetto e certa prosa fumettara, certe espressioni udite al cinematografo. Per queste ragioni mi guardo bene dal condannare i « segretari galanti », umili breviari del vivere quotidiano. Fornivano (forniscono) strumenti di colloquio, capaci di elevare per un attimo, e con un francobollo, la qualità espressiva in gente che non possedeva altra arma verbale. Oggi dei « segretari » si occupano i semiologi, e va beh. Ma bisogna aver fatto una diretta esperienza in materia per giudicarli. Dietro l'ampollosità della frase (era « segretario » anche il parroco, costretto come me ad obbedire alle necessità confidenziali della madre o della fidanzata) l'utente — soldato o fidanzata — sapeva benissimo decifrare i come e i perché. Un aggettivo « genuino » valeva più del giro tornito dettatomi per forza, ma quell'utente, sentendoselo leggere, lo traduceva d'acchito in pregnante realtà. « Adesso due parole di lamenta »,• diceva il ragazzo di Bitti, alla fine della lettera. Ma stai bene, di che cosa vuoi lamentarti, sei persino ingrassato. « Soldato sono? Lamenta ci vogliono », insisteva lui. E giù a descrivere la città assurda, la solitudine della camerata, la lontananza secolare da Bini. « Perché ci si deve spingere a pietà », mi spiegava il soldato. E aveva ragione. Il « segretario galante » che fui ha molta nostalgia, benché rozza. Giovanni Arpino
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