Molière fuori di scena

Molière fuori di scena // regista Squarzina discute il libro di Garboli Molière fuori di scena II regista* teatrale Luigi Squarzina discute, il volume curato da Cesare Garboli « Molière r>. Einaudi. Torino. 398, pagine. 4800 lire. CHE Monsieur Jourdain meriti piuttosto rammirazione dovuta ai sognatori ignari che non il disprezzo borghese per chi si immola ad ambizioni antiborghesi; che fra Don Giovanni, al qualeci accostiamo con « sazietà », e la Statua del Commendatore la funzirne protagonista e problematica vada restituita al « laconico commensale » di pietra, come dicevano d'altronde tanti titoli di canovacci sei-settecenteschi (si va a vedere il mostro e non il dottor Frankenstein, King Kong e non i suoi scopritori, Dracula e non il suo avversario umano); che la cifra di un Molière « tutto creazione, ma anche tutto "professione" » si possa reperire più che altrove nel crudele sketch di Moronte con l'orso che l'autore-attore si era scritto in coda al primo atto della Principessa d'Elide: che non solo Tartufo e Don Giovanni ma anche il Malato immaginario vadano letti in chiave radicalmente politica; queste e molte altre intuizioni filologicamente ben fondate confermano almeno due cose. Da un canto, che con Garboli, oltre che, s'intende, con i magistrali interventi di Macchia, il livello della molieristica italiana si attesta all'altezza dei maggiori contributi internazionali; dall'altro, che le sue ormai celebri traduzioni non sono state per lui tanto il frutto di una casuale sfida letteraria (la proposta di Einaudi al poeta Garboli di collaborare a un « tutto Molière »: e il Tartufo uscì nella collezioncina di poesia) o di una occasione teatrale (il mio invito a completare il Tartufo in martelliani in vista del progetto MolièreBulgakov per lo Stabile di Genova), quanto la parte visibile di un'affinità profonda, tardivamente scoperta e perciò intensamente coltivata, con il personaggioMolière assai più che con i personaggi del massimo corpus comico del teatro moderno. Sfide e occasioni sono d'altronde continuate: il Terzo Programma Rai, Romolo Valli. E direi che dentro Garboli l'attrazione non si è esaurita con le cinque commedie qui raccolte: basta leggere il suo intervento sull'Acaro ripreso da Peppino de Filippo per cogliervi il nucleo di una prossima traduzione-interpretazione. Quando parlo di fondamenti filologici penso, s'intende, alle scienze dello spettacolo più che a quelle della letteratura. Non è, come si dice, un caso che nel panorama di un nuovo modo di rendere in italiano i grandi drammaturghi si affaccino insieme, alla fine del '76, il Molière di Garboli per Einaudi e lo Shakespeare a più voci curato da Melchiori per Mondadori. La teatrabilità di un parlato viene assunta a criterio di fedeltà, i personaggi sono sciolti dall'involucro delia mera credibilità psicologica per restituirli alla loro natura di presenze sceniche inter-agenti, di corpi correlati, di parti per attori cioè; la condotta letteraria della pagina viene funzionalizzata alle richieste di una spazialità in cui agire. , Sé questo criterio non è nuovo, proprio anzi perché non lo è affatto, è utile riscontrare come esso, in quanto si appoggia a una nuova metodologia, stia dando oggi, e precipuamente nel caso di Garboli, risultati nuovi. Si prenda un buon esempio di oltre vent'anni fa, la più che meritevole traduzione del Borghese gentiluomo fatta da Piero Jahier nel 1953 per la einaudiana « Collezione di teatro » diretta da Grassi e Guerrieri. Anche Jahier dichiarava: «Mi sono studiato di tenere anzitutto e sempre presente che Molière, prima ancora che letterato, è stato un "lavoratore dello spettacolo"... ancora e sempre l'attore che ascolta recitare se stesso e la troupe dei propri collaboratori»; ma se un'interpretazione riduttiva dell'opera a «capolavoro di pura comicità » e & « fatale parabola del vanitoso », attenuandone sia le circostanze cortigiane che la portata po•litica, e trascurandone i meccanismi teatrali nella loro portata conoscitiva, non impedisce a Jahier traduttore di porgerci un Bourgeois assai recitabile, e in alcune didascalie topiche non dissimile da quello di Garboli, questi per il "suo" Monsieur Jourdain si mette al lavoro ben altrimenti corredato di tutto ciò che si sa sia delle circostanze diplomatico-mondane che delle caratteristiche degli interpreti del 1670, da Armande Béjart alla Beauval a Lulli. E' questo che lo aiuta a rendere così felicemente la sua idea di un Monsieur Jourdain quasi colto da un'insoppoinazione della mediocritas culturale borghese incompatibile con gli emergenti compiti storici del suo ceto, il ceto medio francese, secondo quél rapporto fra la missione teatrale di Molière e l'ascesa della borghesia nazionale che per Garboli è centrale e si rovescia nell'« incontro mancato » fra Molière e il pubblico borghese italiano? Credo di sì, e abbiamo un Monsieur Jourdain investito quasi da ima vertigine utopistica di superamento, da un invasamento « semiologico » pari a quello attuale dei nostri ceti universitari. Da pochi mesi la Siae ha cominciato a distribuire la ristampa della grande Enciclopedia dello Spettacolo fondata da Silvio d'Amico; è a quest'opera, del tutto inattesa nella cultura italiana quando fu concepita e messa in cantiere nei tardi Anni 40 e nei primi 50, e alla sua realizzazione durata tre lustri, che serve rifarsi per spiegare il metodo di Garboli; un metodo suo ma che ha come sfondo per l'appunto le istanze metodologiche che gli studiosi italiani di teatro (di spettacolo) si sono riconquistati in quegli Anni Cinquanta dopo la lunga minimizzazione crociana dello specifico (compiuta dallo stesso Croce, che agli inizi del secolo aveva pur lavorato sui teatri di Napoli e sui comici dell'Arte da continuatore della scuola positiva). E' il rapporto sia storico che strutturale fra testo e gesto sul quale dieci anni fa, in un convegno europeo-americano di linguistica a Baltimora (alla John Hopkins, ottobre 1966), Richard Scheehner interpellava Roland Barthes, e proprio con la domanda « Che cosa direbbe di Molière? », per sentirsi rispondere da Barthes « Non sappiamo esattamente come fosse rappresentato Molière. Per quanto mi riguarda non sono particolarmente attratto da Molière, perché trovo in Molière tutti i miti della moderna drammaturgia borghese ». (Su Molière "borghese" Garboli sarebbe d'accordo, sentendone però il fascino discreto...). Fu alla Enciclopedia dello Spettacolo che conobbi Garboli, in certi locali di Palazzo Do^*« con entrata da via del Plebiscito. Era il '52. Lì (e presto in un altro appartamentone dello stesso palazzo, su piazza Grazioli, perché l'amministrazione Doria in qualche modo era socia dei d'Amico, e in seguito, col subentro di Sansoni e della Fondazione Cini, in via Adige) Sandro e Lele d'Amico stavano radunando una redazione rimasta mitologica nella quale compirono i loro Lehrjahre Angelo Maria Ripellino e Paolo Chiarini, Giancarlo Roscioni e Maria Luisa Aguirre, Francesco Savio e Elena Povoledo, e dove lavoravano Niccolò Gallo, Nino Pirrotta, Filippo Maria Pontani e altri. Garboli fu introdotto da Gallo come correttore di bozze, ma subito il fiuto di Sandro d'Amico ne fece un redattore del delicato e terrorizzante settore delle "voci generali", mentre io, appena tornato dagli Stati Uniti dove a Yale avevo seguito i corsi di Theaterwissenschaft tenuti da Alois Nagler, venivo messo a dirigere l'intera Sezione Teatro Drammatico. Queste promozioni sul campo erano necessarie per la mancanza in Italia, allora, di un parco accademico cui attingere, effetto e causa, allora, dell'inesistenza di una qualsiasi didattica delle scienze dello spettacolo (unica eccezione i corsi di Mario Apollonio alla Cattolica di Milano); e la metodologia che venivamo elaborando in collettivo, mentre chiamavamo temerariamente a collaborare i massimi specialisti di paesi in cui queste discipline erano avanzate e fiorenti, sta forse alla base non solo della validità scientifica dell'Enciclopedia, « miracolo italiano » rimasto impresa unica al mondo e finora insostituibile, ma anche della germinazione di studi sul teatrone lo spettacolo che finalmente si è avuta anche qui fino a penetrare nelle università e a proliferarvi. Nessuno di quanti si autoformarono a quella scuola, e il caso di Garboli è indicativo, ha più perso il gusto della ricerca che permette di risalire da una data, da un particolare, da una evanescente indicazione di cronache lontane, alla realtà effimera quanto concreta di un'intera civiltà di spettacolo, e attraverso la comprensione di essa al senso dell'operazione codificante dell'autore e decodificante dell'interprete per una utilizzazione attuale. Che poi tutto questo sia giovevole, magari oggi necessario, ma non basti, è ovvio. L'originalità è quel dono che è. Si segua allora Garboli lungo il piccante « giallo » che è la sua introduzione al Don Giovanni; siamo guidati e depistati di continuo attraverso le fonti scritte, la biografia, gli scandali contemporanei, la tradizione attorica, il nesso scenico padroneservo (cioè La Grange-Molière) la natura di tragédienne della Du Parc-Elvira, la scelta dei luoghi (non più il cimitero, al finale, come nelle fonti, ma una stanza in casa dell'eroe); stiamo sempre per sapere, delia Statua, « chi è costui » e « quale simbolo si nasconda » dietro la spettrale Donna Velata; ma la soluzione è sempre riman- data, come in teatro e nelle detective's stories, seppure una soluzione esiste, tanto che mi darei del guastafeste se la scoprissi ai lettori. Ma Garboli sa farci stare col fiato sospeso anche se ricostruisce le vicende delle nove incisioni per la Principessa d'Elide di Israel Silvestre, « il severo graveur di Luigi XIV che fu anche vedutista romano », e tanto più quando vince, scena dopo scena, la scommessa di un Tartufo in implacabili e inawertibili martelliani senza perdere un'ambiguità e senza mancare un effetto comico. Con lui come con i registi e gli attori che cominciano a rappresentarlo più di frequente, la nostra cultura teatrale da una parte mette lo specchio di Molière in faccia alla « Italia di oggi coi suoi re, le sue truffe, i suoi tartufi, e i suoi malati immaginari », e dall'altra ripara come può il torto che les italiens Lulli e Vigarani (ma soprattutto il primo mascalzone) fecero a Molière tre secoli fa, quando con le loro proposte encomiastiche, sensualistiche e pantaspettacolari gli tolsero brutalmente di sotto la sedia del favore regale sostituendo, da bravi intellettuali nostrani, un teatro tutto evasivo a un teatro tutto critico. Luigi Squarzina

Luoghi citati: Baltimora, Genova, Italia, Milano, Napoli, Sansoni, Stati Uniti, Torino