L'arte in camicia nera di Paolo Fossati

L'arte in camicia nera L'arte in camicia nera "Slogan,, del regime fascista in biennali e triennali dì un ventennio Fernando Tempesti ARTE DELL'ITALIA FASCISTA Feltrinelli, Milano, 261 pagine, 5000 lire. MALGRADO il titolo piuttosto impegnativo, Tempesti si tiene lontano da implicazioni troppo strette con definizioni del' fascismo. Che c'è, è ovvio, ma fa da sfondo. Il fascismo è il contrario del .non conformismo, del dovere culturare. dell'esser se stessi. Pur con ampi dubbi su una" simile struttura del problema, l'ipotesi di lavoro può risultare utile, se accentua un carattere che forse non piace troppo oggi: l'eterogeneità dei giudizi, l'eclettismo delle letture. Che è poi un modo, ingenuo ma non disonesto, per rivelare una mappa discontinua, frantumata, contraddittoria di situazioni, posizioni, proposte. Il libro, oltre a segnalarsi per jl coraggio con cui affronta un* materia complessivamente inesplorata o mal posta, ha il merito di un ordinamento interno estremamente intelligente e perspicace. I capitoli si intitolano ad anni e a città: da Ferrara 1916 a Bergamo 1939, passando, ad esempio, per Torino 1921, Monza 1927, Roma 1951 e così via. Tempesti cioè coglie dei nodi e delle situazioni sopra individuali: e Ferrara 1916 sarà la metafisica, Torino 1921 l'accoppiata Gobetti-Casorati, Monza 1927 le arti applicate, e così via. Ottima idea, che potrebbe servire a individuare tre cose: la persistenza di tradizioni locali, di linguaggi che faticosamente tendono a constatare un'evoluzione societaria nazionale e, nel buono e nel meno buono, ne tentano una lettura. Basti riflettere agli influssi simbolisti, di marca austro-tedesca e di intonazione bretone, che penetrano fra gli artisti veneti attorno agli Anni Dieci: e qui il ritratto di Gino Rossi è almeno insufficiente. Ma giova anche a toccare il discorso di una i risposta concreta, circostanziata e non idealizzarle, a condizioni culturali reali: quei luoghi e quelle date dicono, cioè, come il dare ed avere, mediato indiretto fin che si vuole, con una determinazione di fatto, fosse puntuale, coglibile. esplicito. Infine questo modo di pro¬ cedere tocca della organizzazione non già delle arti (le veline, in merito, sono assai meno di quanto si creda) quanto degli artisti che l'Italia fascista si diede. Triennali, sindacali, biennali, mostre locali, regionali e nazionali, specie con la fine degli Anni Venti, ebbero un regolamento, una struttura, una motivazione sempre più precise. Che non fossero, simili macchine,/produttrici, creatrici di slogan per il partito (anche se una certa tematica del genere vi era percentualmente presente, e i Mussolini di De Chirico, di Conti, o degli anonimi non mancavano) se ne accorgerà Farinacci col premio Cremona, votato alla pubblicità e all'iconografia di partito o ' di regime, con esiti fra il depri¬ mente e l'esilarante che il-li; bro non tralascia di sottolineare. Come si vede, la partita è grossa, gonfia, confusa e complicata, e non si può negare bonomia a Tempesti nel raccapezzarsi in simili traversie. La sua è una passeggiata garbata, cauta ma precisa nell'accogliere e nel descrivere, e se lascia in dubbio è dove si vorrebbe che la motivàzio( ne del parere o del giudizio ' trovasse un respiro storicamente più ampio, più motivato. Su un punto, di fondo, questa motivazione generale la si sente pencolante, e il chiudersi di Tempesti nel'giro del singolo responso giova a poco. La rottura di interesse fra il quadro, la scultura, il lavoro espressivo, e l'udienza pubblica, la rispondenza visiva col fruitore è un dato che si fa sentire drammatico, e non solo fra le due guerre e non solo in Italia: tanto che il crescere di scritti, manifesti, prose e poesie di artisti surroga fino all'utopia, all'esasperazione questa frattura.'(E qui il giudizio sui Taccuini di Birolli è palesemente affrettato). E' vero non son casi solo italiani; ma è anche vero che J'arco fra le due guerre quei casi li vede drammatizzati e accentuati fino alla banalità decorativa di un Funi, da un lato, e alla tensione espressionista che non a caso tocca tutti.i giovani di ingegno nei primi Anni Trenta, i più svariati e Ovunque, dall'altro. Ora, questa situazione spiega il moralismo acidulo, di chi si fa forte dell'esser dei pochi, degli esclusi e quindi, per selezione della specie, dei migliori, di un Longanesi, o, calando, dei Maccari, e spiega il gusto da manganellatore estetico (ma non ci si fermava ai pennelli) degli Uomini del Selvaggio. Spiega il rigurgito .di separazione magniloquente dei De Chirico e Sironi, e compagni, ma pone anche la questione drammatica della rappresentazione, degli « umili » di un Viani, - il problema della' nuova realtà urbana, umilmente diretta,, dei milanesi o stilisticamente operativa degli astratti che creerà più tardi le condizioni di Corrente, -e così via. . Paolo Fossati Mario Sironi, Periferia