l'albereto perduto

l'albereto perduto l'albereto perduto Le pagine che Tuttolibri presenta in anteprima mondiale sono tratte da "L'albereto perduto" di Rafael Alberti. È un'autobiografia di 316 pagine con cui il grande poeta spagnolo, esule in Italia, rivive gli anni diffìcili, aspri, ma per molte ragioni esaltanti, compresi fra il 1902 e il 1931. Il libro è pubblicato dagli Editori Riuniti e sarà messo in vendita verso la fine di maggio al prezzo di due mila lire. La "lunga memoria" che si sdipana in queste pagine non ricupera soltanto l'esperienza umana e intellettuale di Alberti, il suo esordio artistico, la sua attività pittorica che si ribalta improvvisamente in quella letteraria. L'autobiografia fa rivivere soprattutto una certa Spagna, osservata nel momento in cui emergono e stridono le contraddizioni che esploderanno nella guerra civile ; si apre al ricordo affettuoso di quelle persone che Alberti ebbe per maestri o per compagni di strada (Lorca, Jiméhez, Guillén e molti altri ) ; delinea infine quel pittoresco contrasto intellettuale da cui nacque uno dei più vivaci movimenti culturali della Spagna contemporanea, l'ultimo fiorito nel Paese, prima della dittatura franchista. I demoni di Spagna -™- a mia « adenopatia ilare con infiltrazione nel lobulo superiore del polmone destro » miglioraj va. Tanto che mai mi sono senJH—^Itito più forte. Già i miei riposi non coprivano l'intera giornata. Solo dopo d pasti mi buttavo sul letto un'ora, evitando di addormentarmi con la lettura di qualche libro. In tutti i modi, uscivo poco; quelle estenuanti camminate dei primi anni di Madrid si erano ridòtte a brevi passeggiate lungo i terreni aperti del mio quartiere, o nel Retiro e presso la Moncloa, o a qualche visita ai pochi amici che avevo. Tra questi c'era anche Luis Alberti, figlio di zia Lola, la mia prima maestra di pittura, e fratello di José Ignacio, il traduttore anarchicheggiante e repubblicano, amico degli anni boherrriennes di Baroj a. Luis era un uomo tenero, abbastanza solitario, e ora abitava a Madrid, per far compagnia a quelle tre bellezze di Granada, sue sorelle Dolores, Maria, e Gloria - che conducevano come lui un celibato appartato e astioso. Sempre estremamente affettuoso con me, Luis mi riceveva nel suo ufficio della Calpe, la casa editrice dove egli lavorava. Debbo a lui l'incremento della mia cultura letteraria, poiché, sempre generoso, rare erano le volte che non tornassi a casa con un mucchio di libri sotto il braccio. Quella Collezione universale, di carta giallognola, ci iniziò tutti nella conoscenza dei grandi scrittori russi, assai poco diffusi prima che la Calpe li pubblicasse. Gogol, Gonòarov, Korolenko, Dostoevskij, Cechov, Andreev... mi turbarono i giorni e^le notti. Ci fu un romanzo, tra tutti, che impressionò profondamente la gioventù intellettuale spagnola, su cui spiravano forti raffiche di anarchismo: il SaSka Zegulèv di Andreev, che proprio in quegli anni era morto in Finlandia, lontano dalla rivoluzione di Lenin, che non era riuscito a comprendere. Io ero tra quei giovani ai quali la giovinezza eroica e avventurosa di Saska tolse il sonno. I Demoni di Dostoevskij, più che ammirazione mi provocarono, allora, un senso di stranezza. Tutto quel mondo di maniaci, che agiva con tanta naturalezza e per i quali l'anormale appariva come la cosa più corretta, mi lasciò perplesso e pensieroso. A partire da quella lettura, cominciai a rendermi conto che la Spagna, soprattutto nei suoi piccoli centri, e più ancora in quelli del sud, era piena di quella specie di demoni, ai quali appartenevano non pochi esemplari della mia stessa famiglia. Dalla stramba pazzia dei personaggi dostoevskiani, passai alla accattivante melanconia e arguzia di quelli di Cechov. Con mia sorella Pepita rileggevo, fino a piangere, le piccole storie dei suoi poveri cocchieri, contadini, modesti impiegati e professori... La prima cosa che conobbi di Gorkij fu Malva, un racconto meraviglioso, il cui grido finale « Chi ha preso il mio coltello? » mi si andò a inserire, per non so quale strana via, in una canzone del mio Marinerò entierra. Credo che noi spagnoli non abbiamo ancora confessato tutti i nostri debiti verso la sorprendente rivelazione che avemmo quando si apri il sipario del romanzo russo. Garcia Lorca Tutto era maturo ormai perché io conoscessi Federico. L'ora, infine, era suonata. Fu un pomeriggio agli inizi dell' autunno. E fu ancora Gregorio Prieto, cosa recentemente da lui chiarita in una lettera, che me lo presentò. Eravamo nei giardini della Residencia de Estudiantes (Altos del Hipódromo), dove Garcia Lorca - aspirante avvocato - seguiva i corsi da vari anni. Siccome era il mese di ottobre, il poeta era tornato allora dalla sua Granada. Bruno, olivastro, ampia la fronte, su cui si agitava un grosso e folto ciuffo di capelli, color nero fumo; brillanti gli occhi e aperto il sorriso, sempre sul punto di trasformarsi rapidamente in risata; aria non tanto di gitano quanto di contadino, di quel tipo d'uomo, fine e grezzo a un tempo, che producono le terre andaluse. (Cosi vidi quella sera Federico e cosi continuo a vederlo, ogni volta che penso a lui). Mi accolse con allegria, fra abbracci, risate e gesti esagerati. Disse che mi conosceva, e molto bene, come pure certi parenti che io avevo a Granada. Tra le altre cose, mi disse che aveva visitato, alcuni anni prima, una mia mostra all'Ateneo; mi disse che io ero suo « cugino » e che voleva darmi l'incarico

Luoghi citati: Finlandia, Italia, Madrid, Spagna