Come finisce un impero

Come finisce un impero A 200 anni dal primo volume del capolavoro di Gibbon Come finisce un impero Accostarsi a un'opera storica presuppone, stimola due operazioni mentali: un interesse verso i fatti e l'epoca di cui si parla e uno verso 10 storico. Perché ha scelto queste le non altre vicende? Di quale più ampio contesto le ritiene sintomatiche o preparatorie? Qual è la sua tesi, 11 suo codice etico, quali le scelte, il criterio di priorità delle notizie? Le operazioni diventano tre quando si assiste a un convegno di storici su uno storico, come quello sul Gibbon indetto dalla rivista Daedalus nella sede dell'Enciclopedia Italiana. Alcuni studiosi, stranieri tutti tranne Arnaldo Momigliano e Giarrizzo, e tutti di altissima fama, hanno sviscerato da varie angolazioni l'autore del Decime and Fall of the Roman Empire, in occasione del secondo centenario della prima edizione (17 febbraio 1776). Nell'opera hanno riconosciuto il frutto della cultura europea settecentesca, l'influsso dell'Illuminismo, 1' originalità rispetto alla storiografia antecedente o il debito verso di essa, i limiti, i meriti. Il pregio fondamentale di questo lavoro monumentale consiste nell'unità e armonia delle proporzioni: si può dire di esso ciò che il Gibbon diceva degli edifici romani, che a guardarli si prova un senso di forza e solidità. Poi, la vastità degli orizzonti, il rigore delie indagini e infine il fatto che esso, pur rispecchiando il pensiero d'un conservatore del XVIII secolo, è tuttora valido; e, benché rifletta un'angolazione soggettiva, non appare vincolato da preconcetti per l'arioso scetticismo, la sottile ironia che lo pervade, l'onesta ricerca delle cause e degli effetti: quali cause, quali effetti? L'opinione corrente fa del Gibbon un razionalista polemico, che attribuì la caduta dell'impero romano al cristianesimo. Tale giudizio dipende dall'episodio riferito dall'autore nell'autobiografia, la specie di rivelazione avuta nell'ottobre del 1764, quando dalla chiesa dell'Aracoeli vi¬ de sciamare sul Campidoglio i frati salmodiami, a guisa di macchia nera che stingeva su i marmi: come tutte le illuminazioni, anche questa non fu che il momento culminante d'un lungo travaglio interiore. Ma la storia per il Gibbon non voleva essere l'esposizione di una tesi; al contrario, fu il tentativo di comprendere l'infinita complessità ' del divenire. Di cause della decadenza ne indicò molte, alcune interne: Tarn- piezza del dominio, il dispotismo degli imperatori, l'anarchia militare, il fiscalismo, il livellamento culturale, il benessere. Altre esterne: la pressione barbarica, i costumi e i culti orientali, il cristianesimo infine, che finì di distogliere il cittadino dai doveri civici. La sua scala di valori era, innegabilmente, la stessa di Sallustio e di Tacito: come loro, poneva l'utopia nel passato; e di conseguenza vedeva nell'ascetismo una forma di fanatismo, non percepiva il valore teoretico delle controversie teologiche, gli sfuggiva il significato del monachesimo, che fu reazione alla contraddizione insita in un messaggio metafisico che diventa sistema di potere. La differenza tra noi e il Gibbon consiste nella molteplicità dei nostri campi di scavo, l'accesso a fonti impensate ai suoi tempi; ma il problema resta lo stesso. E il critico moderno che rileva con asterischi inesorabili le sue omissioni dovrebbe badare alle proprie; quelle del Gibbon, più che da ossequio a una ideologia o a un metodo, più che da insensibilità sua e del suo tempo verso fatti artistici, dottrinali o sociali oggi sottoposti a ingrandimento, derivavano da un lucido schema di ricerca, da una rinuncia consapevole a registrare aspetti del mondo antico che non gli sembravano determinanti nel processo storico da centrare: il disfacimento d'un sistema di istituzioni politiche e giuridiche mirabili, d'un complesso di valori ai quali aderiva con partecipazione emotiva. Ciò che lo interessava e, forse, lo allarmava, era la disgregazione delle certezze etiche e politiche, il cedimento interiore; fra le sue pagine si avverte il fremito d'una coscienza che si interroga e cerca di comprendere le ragioni di quella che per lui era la più grande tragedia della storia. E' appunto questo assiduo porsi problemi, più che risolverli, che fa di Gibbon molto di più che un erudito, uno storico; e se la sua opera è ancora, oltre che affascinante, istruttiva, si deve, diciamolo con una parola sola, alla sua straordinaria intelligenza; che è ciò che distingue un uomo immerso nella cultura del suo secolo, ma Ubero, da un fideista. Lidia Storonl r Due secoli fa, nel febbraio del 1776, Edward Gibbon (Putney-on-Thames, 1737 - Londra, 1794) pubblicava il primo volume delle sua «Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano». Il secondo e il terzo volume sarebbero apparsi due anni dopo, nel 1778. Soltanto nel 1788 gli ultimi tre. Della monumentale opera, tra le più celebri e importanti per la storiografia antica, sono disponibili in italiano due recenti edizioni. Einaudi ne ha pubblicato nel 1967 un'edizione in tre volumi, con prefazione e a cura di Arnaldo Momigliano, prezzo L. 36.000. La Newton Compton Italiana di Roma ha presentato un'edizione preparata con intenti più economici e posta in vendita a 12 mila lire.

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