QUANDO L'AUTORE GIUDICA SE STESSO
QUANDO L'AUTORE GIUDICA SE STESSO QUANDO L'AUTORE GIUDICA SE STESSO Lo specchio inclinato Tuttolibri chiede con intransigenza agi' amici e collaboratori di recensire da sé le proprie opere. La stroncatura non è necessaria anche se gradita. E' la volta di Mario Soldati con Lo specchio inclinato (Mondadori, 425 pagine, 6.500 lire), vincitore del Premio Bagutta 1916. Confesserò subito che Lo specchio inclinato, come il precedente Un prato di papaveri, è un falso diario: falso almeno per l'occasione che mi è stata offerta di scriverlo. Da moltissimi anni, ho sempre tenuto, in certi libriccini legati in pelle e confezionati da Frank Smythson 54 New Bond Street, un piccolo, vero diario segreto dove annoto via via le prime idee, i germi di un possibile racconto, e le impressioni, le battute, i nomi di luoghi e di persone, che forse altrimenti dimenticherei. Qualche volta, anche per il Prato di papaveri e per lo Specchio inclinato, ho attinto a quei libriccini. Ma in sostanza le complessive 820 pagine di questi due volumoni non sono che la ristampa, con aggiunte tagli e correzioni, della mia attività giornalistica, soprattutto a partire da quando lasciai Roma per Milano e il cinema per la sola letteratura. Firmai mi contratto col Giorno, e dal 1960 al 1971 scrissi esattamente 550 articoli: erano notes, flash, novelle: una media di un pezzo alla settimana. I notes e i flash molte volte erano spezzati in due, tre, quattro items, entrées o asterischi che dir si voglia. Quando decisi di raccoglierli in volume, mi trovai davanti a più di settecento pezzi. Lì per lì, non mi sentii di scegliere da solo. Domandai aiuto success;vamente a tre gentilissimi amici: prima a Sergio Ferrerò, il quale ne salvò circa trecentocinquanta; poi a Carlo Bonacina, che in parte approvò e in parte rifiutò il giudizio di Ferrerò e finì per scegliere circr quattrocento pezzi. Mi feci allora aiutare da Cesare Gàrboli, e con lui arrivai alla cifra di 245 nel primo volume e 252 nel secondo. Provo un'immensa ammirazione per il Journal di Jules Renard, che comincia senza data, del giorno nel 1887 e finisce il 6 aprile 1910, poco prima della morte (22 maggio). E' uno dei libri al mondo che più amo. L'ho letto e riletto, annotandolo minuziosamente. Un vero diario. Costruito pensando al diario come a un genere letterario ben definito, con le sue leggi e i suoi ritmi. Interessante, entusiasmante come un romanzo. Se penso a Renard, trovo nel mio diario una quantità di difetti. E non mi ci vuol niente a trasformare in critiche poco benevole gli elogi che invece, mi hanno fatto tanto piacere. Per esempio. Sul Corriere, Carlo Bo scrive: «Anche i diari di S. sembrano obbedire a questo metro dell'immediato e dell'illogico per poi adattarsi agli schemi classici di restituzione... Il vero S. nasconde sotto questa festa di luci e di fuochi artificiali la sua vera anima che, se è fin troppo disposta ad accettare le scommesse della prima realtà apparente, in effetti possiede una tenacia, un fondo di resistenza». Trasformo: un fondo causidico, puntiglioso, volontario. Ed Elena Croce, sulla Stampa: «Nella sua straordinaria capacità di spendersi per informare ed istruire non annoiando mai, S. esprime una fiducia nel pubblico veramente liberale nel senso originario della parola». Trasformo: una vena pedagogica segretamente noiosa. Certo, trasformando spero di esagerare, di sbagliarmi. Ma questi difetti, li ho. Avrei dovuto essere più spoglio, più nitido, più lirico. Chissà. Traduco un pensiero di Renard, datato 22 gennaio 1897: «Voi mi considerate vanitoso perché dico che ho del talento. Ma che cosa m'importa di avere del talento? E' del genio che vorrei avere; e la mia modestia consiste nel disperarmi di non avere del genio ». Ecco, la mia modestia, a sua volta, consiste nel disperarmi di non avere il talento di Jules Renard. E tuttavia, non sarei completamente sincero, e forse sarei, come ho detto, lezioso, se non ripetessi: chissà. Mario Soldati
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