VIAGGIO VERSO I VICHINGHI E OLTRE di Giorgio Manganelli

Luci del Nord VIAGGIO VERSO I VICHINGHI E OLTRE Luci del Nord ni RITORNO DA REYKJAVIK — Sono a Reykjavik, in Islanda; tuttavia non ho ancora l'animo, il coraggio di parlare dell'Islanda. Nel momento in cui il mio piede toccava per la prima volta la terra islandese, la mia attenzione era attirata dalla singolare luce che mi circondava, una luminescenza chiara, irrequieta, striata di rapidi vapori. Un viaggio per il Nord è un viaggio per cieli diversi, dove un buongustaio uranio può assaggiare diverse luci, nuvole inattese, tramonti impossibili. Nel Nord la luce occupa uno spazio infinitamente più ampio che nel Sud: noi siamo occupati dalla nostra luce violenta, aggressiva, e la sfida tra giorno e notte è ininterrotta, ma per tutto l'anno, in ogni stagione, le tenebre e la luce si spartiscono il possesso del mondo. Ogni giorno ha le ore dei sogni e le ore del reale secco, esatto, misurabile. Non così nel Nord, dove vi sono stagioni in cui il trionfo della luce è totale, ma è trionfo mite, lento, magico di una magia affettuosa. In altre stagioni, la notte tiene compatta cielo e terra. «Si vede una striscia di sole laggiù, per tre mesi, qualche ora al giorno», mi aveva detto un prete olandese, che non sembrava rimpiangere il più equo impero di luce e ombra delle sue terre. Mi è capitato di vedere Stoccolma più volte, ma sempre e solo d'inverno, quando i lampioni si accendono alle due del pomeriggio, e la notte dura venti ore; e Stoccolma non è l'Islanda. A Copenaghen avevo trovato un cielo ammirevole, una sorta di virtuosismo coloristico su di una tavolozza che si fonda sull'idea «italiana» — pittoricamente italiana, veneziana addirittura — del colore. Vi è una squisitezza stremata, una dolcezza irrequieta di vita, un poco acquosa, ma d'acqua marina, o forse di lago; non pingue, ma densa e tenera, e stranamente vasta, come esplosa dalla terra, e in ogni caso terrestre; un colore che certamente è il colore di sempre di Copenaghen, del suo passato e del suo futuro; una sciolta distesa non sai se malinconica o felice, o anche l'una e l'altra condizione del dolore; in ogni caso, una sensazione di freschezza, di alacre velocità. Può esservi una «velocità» del colore? Forse: Piero della Francesca è immobile, il Veronese studiatamente lento, il Tintoretto tutto un precipizio, uno strider di freni all'orlo della parete, sulla lignea cintura del quadro. A Copenaghen ho sospettato per la prima volta che in cieli e colori diversi le nuvole abbiano un senso, un significato diverso. Io vivo a Roma, città che non fa minor conto delle sue grasse nuvolaglie, o della magrezza arguta dei suoi cirri, molto sul civettuolo, che non dei suoi ruderi e del suo barocco. Vi sono nuvole che annunciano una calma fiacca, da buona tavola, sudaticce, svogliate, altre che ciarlano di rapidi scrosci, a burla; altre, infine, che brontolano di diluvi e nubifragi; terribile è il cielo di Roma quando si irrita; e alle sue iracondie tutte le stagioni s'addicono. Ma quelle nuvole a spasso per i cieli di Copenaghen, che volevano dire? Stracche e molli non lo erano, mai; tutti i momenti parlavano di pioggia, ma vai a capire se uno spruzzo o un finimondo; poi, non pioveva mai; o magari una sfuriata da madre di famiglia irritata, e poi se ne dimenticava, e tornava dovunque quell'azzurrino svagato, dello stesso colore dovunque, come se quel cielo l'avessero tinteggiato. L'aereo da Copenaghen a Reykjavik passa prima da Goteborg, dopo tutta una gran mostra pittorica di laghi, e di un verde furibondo, il paesaggio carnoso della Svezia meridionale. Da Goteborg, si va dritti a Reykjavik, si sfiora nella nebbia l'irta Norvegia. Sono tre ore, più o meno, di volo sull'Atlantico, di volo tra un cielo immobile e una nazione di nuvole, e qualche rado rammendo mal riuscito nelle nuvole dava un subito precipizio sul mare. Non venite a raccontarmi che quelle nuvole che governano i mari atlantici e li separano dai loro legittimi cieli sono imparentate con le nuvole bioccose e materassate su cui si cammina sopra la Germania, o quelle che s'affoscano sulle Alpi. Quelle ore di nuvole hanno tutte le forme, tutti i colori, conoscono tutti i trucchi, le astuzie, le finezze, le truffe, sono parenti non già delle nostrane nuvole, ma parenti del deserto, quelle sgomentevoli distese irraggiungibili, inabitabili, che fingono da lontano ogni forma, ed ora sono città, ora fiume, ora lago, ora pascolo, ma sono soltanto luoghi vuoti, non luoghi, luoghi morti. Così, per non breve tempo quelle nuvole mi hanno ammaliato. A tutto loro agio, nel cielo dalla luce immutabile, mi svelavano i loro prodigiosi persuasivi nulla. «Saranno le Shetland», mi dicevo, di certe isolette, «ecco, si vedono le case, non sono scogli deserti». E le Shetland si disfacevano subito, le isole si affastellavano, un taciturno terremoto cancellava le case in cui abitavano figure di spettri nebbiosi, intangibili dalle violenze delle annuvolate catastrofi. «Che sarà mai quello scoglio?» mi chiedevo, di fronte ad un imperioso macigno, deserto e nero in tutto quel biancore. «Ma qui non ci possono essere isole di quella forma», mi dicevo di fronte a un bizzarro arcipelago; e infatti non c'era nulla, l'arcipelago si faceva aria, sprofondava nel fondo del mare e veniva assunto in cielo, nel suo corpo di puro e sfatto biancore. Fini che mi spaventai di quella insaziabile fata Morgana, quella matta e indifferente inventiva delle nuvole, quel giocare con l'essere e il non essere; e mi furono chiare le fole, per nulla da focolare, delle sirene, delle meduse, delle morgane, dei fuochi fatui, dei vascelli fantasmi — non ci ha seguito per molti minuti un aereo inesistente? — nei luoghi che sono fatti solo di mare e nuvole e cielo, e manca la dura misura della cosa tangibile e terrena, della cosa che non si tramuta, ma muore, e cresce, e nasce. E alla fine mi accorsi di un più sottile ipnotismo, un incantamento delicato, per cui sempre meno distinguevano gli occhi abbagliati dalle nuvole, e sempre più l'anima irrequieta e solitaria generava luoghi, approdi, porti, ricetti, ripari, sedi umane, indaffarate città, vascelli operosi, dove non erano che illusioni operate da mani di nuvole, come si fa con una lanterna e una parete. Ed alla fine chiusi gli occhi ed abbassai la serranda del finestrino, spaventato dalla inesauribile crudeltà delle nuvole. Ora sono a Reykjavik; no, non potete vederla, perché sono nella mia camera, sdraiato sul letto, con la testa supina sotto la finestra; così che vedo solo il cielo. Questo cielo non è più la raffinata variante del cielo europeo che avevo ammirato a Copenaghen; né l'indifferente, abbagliante dimora delle nuvole spietate sopra l'Atlantico. Questo è un cielo, come oggi si dice, diverso. Diversa, in primo luogo, è la sua forma, giacché l'emisfero, che appare schiacciato nel Sud, qui è vertiginosamente alto, dolcemente irraggiungibile, un pinnacolo d'aria, una enorme, tonda, rarefatta bolla d'alchimista che racchiude la terra. Il colore, più che freddo, lontano, e la luce di cui si orna, solitaria, perfetta, senza vanità. Il cielo ha questo di singolare: di apparire come l'unico destinatario della luce di un sole impegnato in un infinito tramonto; un sole che ignora la terra, innamorato di quella sfera dimezzata, quel vetro infinitamente esile e secco. Passano ore, e il cielo poco o nulla altera la sua luce da specchio cui si protende un volto, troppo alto per essere visibile. La terra si fa notturna; spettacolo mai visto, questa terra che si rincantuccia nelle tenebre, mentre in alto governa la strana, impossibile luminosità di un giorno immortale. Sull'orlo dell'orizzonte, il sole consuma il suo lentissimo tramonto; sono le undici, ancora una traccia rossa, infuocata, segna una nuvola. La nuvola la custodisce un istante, ora le sfugge tra le maglie, la perde. Giorgio Manganelli

Persone citate: Morgana, Piero Della Francesca, Veronese