La Giustizia istruisce, l'opinione pubblica documenta

La Giustizia istruisce, l'opinione pubblica documenta La Giustizia istruisce, l'opinione pubblica documenta Roma, 21, notte. La confessione del Dumini e altri imputati e la quasi completa ricostruzione del dflltto, che è ormai possibile fare colle deposizioni testimoniali, non tarderanno a indurre, come abbiamo accennato fin da ieri, la Sezione d'accusa a precisare il capo d'imputazione, fissandolo definitivamente in quello di associazione a delinquere. Quest'ultimo reato è così definito dal Codice penale: « Articolo 248 : — Quando 5 o più persone si associano per commettere delitti contro l'amminist razione della giustìzia o la fede pubblica o l'incolumità pubblica o il buon costume e l'oTdtne delle famigiite o contro le persone o proprietà, ciascuno di essi è punito, per il solo fatto dell'associazione, alla reclusione da uno a cinque anni. Alla pena anzidetta è sempre aggiunta la sottoposizione alla vigilanza speciale dell'autorità di pubblica sicurezza ». « Art. 250 : — Per i delitti commessi dagli associati o da alcuni di essi al- tempo o per l'occasione dell'associazione, la pena risultante dall'applicazione dell'articolo 77 (concorso di reato) è aumentata da un sesto ad un terzo ». La Sezione d'accusa potrebbe ritenere che fra i mandanti e gli esecutori materiali del reato ormai identificati esistesse un patto per commettere delritti contro le persone, ogni volta che fosse ritenuta necessaria da coloro che dirigevano l'associazione annidata a Palazzo Viminale. In tale ipotesi l'uccisione dcll'on. Matteotti si collegherebbe come ad una catena, con tutta la serie di violenze commesse dalla stessa banda contro deputati e uomini politici ad essa invisi, i cut nomi sono ora sulla bocca di tutti. Non solo, ma il capo di imputazione di associazione a delinquere imporla, come abbiamo già spiegato ieri, la flagranza. Quindi la sospensione di tutte le immunità parlamentari. Di qui è evidente la gravità della situazione in cui vengono a trovarsi tutti i responsabili dell'assassinio deli'on. Matteotti. De Sono Pertanto il processo minaccia di prendere proporzioni gigantesche e si parla ormai, in base ai fatti che si vanno palesando, di Alta Corte di Giustizia. In primo piano, nella cronaca odierna, sta il senatore De Bono, primo generale della Milizia fascista. Finora si occuparono di lui, esplicitamente, i giornali dell'opposizione; ma oggi anche organi filofascisti rompono gli indugi parlando a chiarissime note. Primissimo II Giornale d'Italia, il quale si chiede, nudo e crudo, se il generale De Bono possa rimanere a capo della Milizia. E II Giornale d'Italia si affretta a dichiarare: «l'Italia non esista a rispondere no! ». Stasera si parlava senz'altro dell'allontanamento del generale De Bono dal comando della Milizia. 1 quattro rilievi del "Giornale d'Italia,, Scrive II Giornale d'Italia: « Il generale De Bono con l'avvento del nuovo ministro degli Interni, on. Federzoni, ha lasciato la direzione generale della pubblica sicurezza, ma ha conservato il comando generalo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale. Ora è lecito domandare al Governo so creda opportuno che a capo della milizia urinata dello Stato rimanga un uomo discusso, mentre è assiomn fondamentale che nessun comando dell'esercito possa rimanere affidato ad ufficiali la cui posizione non sia più che netta. Su questo punto le tradizioni dell'esercito sono rigorosissime, ed è perfettamente logico che lo siano, polche il comando non si può irradiare già per i rami di una milizia se non attraverso un prestigio indiscusso ». Il Giornale d'Italia sintetizza quindi cosi i rilievi che si possono fare sull'azione del generale De Bono: l.o il generale De Bono era direttore generale della Pubblica Sicurezza quando nel Palazzo del Viminale, attorno all'Ufficio Stampa, gravitavano criminali e sicari; ciò non poteva essere ignorato dal capo della polizia, e se era ignorato vuol dire che la sua incapacità è provata in maniera lampante. Ora, chi dà prove cosi evidenti di Incapacità a reggere la direzione suprema della polizia, non dà alcuna fiducia di sapere tenere 11 comando di uno doi corpi armati della nazione. 2.o scoperto l'assassinio Matteotti, il generalo De Bono, come direttore della Pubblica Sicurezza, partecipò col questore Berlini alle prime indagini intorno al crimine. Quello che i! pubblico ha visto in queste prime Indagini è semplicemente questo: l'avv. Filippelli non è stato nemiche fermato, sicché ha potuto ele¬ gantemente prendere il volo e non è stato arrestato che quando l'autorità giudiziaria si era finalmente impadronita dell'istruttoria. Altrettanto dicasi della fuga del comm. Cesare Rossi. Ora, un direttore generale della P. S. che dà prova di siffatta insipienza, non può essere un buon comandante, e, comunque, essendo molto discusso per la sua condotta, come capo della polizia, non può godere del. necessario prestigio presso tutti gli ufficiali d'onore, che formano i quadri dèlia Milizia nazionale. 3.o vi sono ancora alcuni punti oscuri, come, ad esempio, la consegna di passaporti falsi all'avvocato Filippelli ed al Putato. Chi ha dato questi passaporti con fotografie vere, e con nominativi apocrifi a questi delinquenti? U pubblico ha ragione di nutrire dubbi assai gravi sull'operato della polizia, di cui il generale De Bono era il capo. E anche questo è un ottimo argomento per dimostrare l'impossibilità morale che il comando della Milizia possa ancora rimanere affidato al generale De Bono. 4,o il generale De Bono è, in ogni caso, un ufficiale in congedo del R. Esercito. Non sappiamo se sia esatto che ultimamente egli sia stato richiamato al servizio attivo; ma in ogni caso egli è sottoposto alla disciplina militare, sicché 11 Ministro della Guerra è obbligato a far esaminare la sua condotta da un corpo competente che non può essere se non un consiglio di disciplina, il quale deve dire se il generale Do Bono ha mancato o no all'onore militare. In queste condizioni quale prestigio può il generale De Bono avere come comandante della Milizia Nazionale? E, d'altra parte, ogni ufficiale sottoposto a giudizio disciplinare, lascia automaticamente il comando per evidenti ragioni di prestigio, polche non si può imporre agli ufficiali e soldati di farsi eventualmente ammazzare per ordine di un capo il cui prestigio non sia perfettamente intatto. « Per queste ragioni oltreché per una evidente ragione di alta opportunità politica, e cioè per dare al paese la netta sensazione che non si fanno salvataggi e che l'epurazione è veramente completa, l'esonero del generale De Bono dal comando della Milizia Nazionale, non può ulteriormente tardare. E noi slamo sicuri che 11 Presidente del Consiglio riconoscerà giuste queste considerazioni di cui ci facciamo interpreti a nome del Paese». Le dne " Ceke „ al Viminale li Popolo, proseguendo nella sua documentazione sull'azione della duplice associazione a delinquere, scrive: « Questa associazione, o « Ceka », stringeva in un patto di solidarietà i gerarchi sommi del fascismo (Rossi, Marinelli, ecc.) coi loro sicari (Dumini, Volpi, Filippelli), ed aveva la sede in un palazzo del Governo, il Viminale e l'ufficio presso l'Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Non è ancora precisato con quali fondi, se privati o pubblici, la « Ceka » fosse alimentata. E' certo però che essa rappresentava un organo costituzionale del Partito fascista e quindi, per la nota indicazione ormai ufficiale e comune che risulta dagli stessi atti del duce, organo del Governo fascista. 11 gran cancelliere della « Ceka » era, a quanto sembra, il comm. Cesare Rossi, colui che poteva vantarsi di possedere e di girare ambo le chiavi del cuore di Mussolini, e il suo ufficio al Viminale si trovavi, porta a porta con quello del Direttore generale della Pubblica Sicurezza, il generale e senatore De Bono anche egli capo di una « Celia » particolare, addetta a scoprire complotti, pe dinare porsonalità eminenti della politica, vigilare e mantenere contatti con i dissidenti del fascismo, come dimostrò nello sue djchiurazioni alla Stampa il Sala sui suoi rapporti con il De Bono. Tramite della « Ceka » ora il Dumini, gran vicario specializzato ed organo di collegamento fra le svariate diramazioni dell'associazione a delinquere. Una « Ceka » della polizia (De Bono) una « Ceka » della giustizia, giustizia fasci sta, s'intende, (Rossi) sorgevano in conclu sione a fianco del Partito e del Governo fascista per éseguiruo l'opera di spionaggio, di intimidazione e di punizione a carico dei loro avversari politici. Queste « Ceke » erano considerate strumenti necessari per governare il paese ». Sulla condotta del De Bono il Popolo scrive : « Per il suo ufficio e per i suol contatti, il generale De Bono aveva il dovere, non solo dì conoscere certe cose (vogliamo riferirci alle gestu criminose della « Ceka » che stava di casa proprio al Viminale) ma, doveva prevederle e quindi prevenirle, o quanto meno reprimerlo con prontezza ed energia. Non lo aveva messo per questo alla direzione generale della Pubblica Sicurezza l'onorevole Mussolini? In realtà, il De Bono non solo non ha preveduto e prevenuto nulla, ina addirittura si è guardato dall'esercitare la più piccola repressione di quei delitti che gli sono saltati negli occhi come nel casi di Amendola e Cesare Forni. Mancanza di capacità o volontà? Qui sta la questione. Un giornale fascista nei giorni scorsi lo ha chiamato una figura offenbacchiana. Può essere, o almeno lo farebbe credere la comica serie dei complotti comunisti da lui periodicamente scoperta., ed inscenata pmimbilmonte dalla fantasia del fiduciari che II Dè Bono aveva nei centri più importanti e che costavano ai fondi segreti, evidentemente messi a disposizione, fior di biglietti da mille. Eppure l'on. Mussolini, nel discorso tenuto alla Camera per la chiusura della discussione sulla risposta alla Corona, accreditò con abbondanti particolari i servizi negativi, cioè insulsi, che il generale De Bono, in mancanza di altro, ha fornito al Governo fascista, per dargli il pretesto di dirsi letteralmente circondato da minacciosi nemici ». Voleva essere ministro' della guerra contro il fascismo Il Popolo ricorda quindi come il generale De Bono si interessasse graziosamente di politica, cosa che fu documentata nelle già ricordate dichiarazioni del Sala. Dice quindi il giornale: « Altra occupazione, non meno peregrina per un direttore generale della Pubblica Sicurezza, ma assidua per il generale senatore De Bono, era quella di mantenersi in intimo contatto con l'avv. Filippelli e con il comm. Rossi, e non solo per ragioni di ufficio, ma anche per quelle di svago nei ritrovi notturni e mondani. Del resto, il fallimento di ogni prestigio e di ogni efficienza della Pubblica Sicurezza, durante la direzione del De Bono, è stata constatata ufficialmente dal Governo, in occasione del decreto per la regolamentazione delle bische. L'onorevole Mussolini ha confessato che la P. S. era impotente a reprimere il gioco d'azzardo clandestino; sarebbo stato più esatto se avesse detto che la P. S. era ormai ligia ai tenutari, come si è visto nel caso scandaloso del Casino comunale di San Pellegrino, tanto più che l'on. Finzi, nella nota lettera ai giornali, ha dichiarato che la regolamentazione della legge sul gioco, le pratiche ad essa inerenti e la presentazione al Consiglio dei ministri, sono avvenute esclusivamente ad opera dell'on. Mussolini, di concerto col capo della Polizia generalo De Bono ». « Il generale De Bono, «i realtà, si è dimostrato, nella fortuna toccatagli cori l'avvento del Governo fascista al potere, pari alla fama di piccolo ed irrequieto politicante che si era acquistato già prima nei contatti che ebbe, e cercò di avere ancora non molto tempo avanti la marcia di Roma, con gruppi politici antifascisti. Egli infatti collaborò in un noto giornale democratico della capitale, già in grande odore di nittismo, e durante la crisi ministeriale del 1022, che sboccò alla reincarnazione Facta, egli non si peritò di aver contatti con un altissimo personaggio del Partito popolare, offrendosi quale ministro della guerra « per mettere a posto il fascismo ». Complice dell'aggressione contro Amendola « Con ciò non resta affatto diminuita la sua responsabilità in ordine ai delitti della « Ceka » del ' Viminale. In due casi almeno, a prescindere dall'assassinio efferato e nefando del !) giugno, tale responsabilità emerso evidente. Prima, nel caso dell'on. Amendola. I! mattino dell'aggressione selvaggia in via Francesco Crispi, l'agente che pedinava costantemente il deputato democratico ora sparito ed erano spariti pure i due carabinieri che stazionavano sempre al crocicchio di via Capo le Cose. Per puro caso? Non sembra probabile. Poi sì sa che l'automobile che portava gli aggressori era condotta da uno specialista in aggressioni, ber» noto alla Questura di Roma, c ohe l'automobile stessa perdette 1 suoi ospiti proprio di fronte alla Caserma di Magnunapoli, dove ha il quartiere la Milizia nazionale. Non basta: il carabiniere che ebbe l'eccellente idea di rilevare il numero dell'automobile sulla quale gli aggressori dell'on. Amendola erano saliti dopo l'attentato, vanno trasferito a Bergamo per punizione. La Pubblica Sicurezza, consule De Bono, si adoperò soltanto per trasmettere all'autorità giudiziaria degli atti inconcludenti. Ma 11 crimine era stato architettato dalla « Ceka » del Viminale, intorno alle cui gesta il De Bono aveva la consegna di russare; consegna a cui egli non venne meno neppure nel secondo caso, vogliamo dire nell'aggressione a Milano contro il capitano Cesare Forni. La

Luoghi citati: Bergamo, Italia, Milano, Roma