MORTO SANDRO PENNA

MORTO SANDRO PENNA MORTO SANDRO PENNA Era grande in segreto Roma, 23 gennaio. E' morto Sandro Penna, uno dei maggiori poeti italiani. Aveva 71 anni. Era nato a Perugia il 12 grugno 1906. Lo hanno trovato due suoi amici che erano andati a fargli vìsita venerdì, poco dopo le otto dì sera, sdraiato sul suo letto, come se fosse immerso in un sonno profondo, «con il capo reclinato in un modo dolcissimo»: così ha detto il poeta Dario Bellezza, accorso fra i primi, appena avuta la notizia della morte dell'amico. E' stato subito chiamato un medico il quale ha ritenuto, a un primo esame, che la morte fosse avvenuta verso le quattro del pomeriggio pe' collasso cardiocircolatorio. Forse il poeta è passato dal sonno alla morte senza accorgersene: negli ultimi tempi era molto indebolito, e prendeva continuamente pillole per lenire certi dolori. Non è da escludere che lo stato di intossicazione dovuto ai farmaci abbia attenuato le difese di un fisico ormai provato, di un uomo stanco. Nella mattinata di sabato sono accorsi subito, nella casa di via Mole dei Fiorentini 28, quelli fra gli amici intimi di Penna che hanno saputo della sua morte per primi: Natalia Ginzburg, il critico Cesare Garbolì, che ha curato l'apparato critico dell'ultimo libro del poeta, «Stranezze», pubblicato recentemente e al quale è stato conferito, l'altra domenica, il «Premio Bagutta». « Non si addice il necrologio ai poeti, né il rimpianto », ha detto Libero De Libero, il grande « metafisico » italiano, coetaneo di Penna, quando ha saputo della scomparsa dell'amico. Ed è giusto, perché ciò che rimane delle loro opere dà agli artisti veri, come Penna fu, una vita durevole nel tempo. De Libero ha aggiunto: « E la morte non può inseguire Sandro nei territori della sua poesia... ». (Ansa) Non vedevo Sandro Penna da diversi mesi, o forse anni. L'ultima volta è stato a Roma, alla presentazione di non ricordo quale libro. Si era deciso, in un gruppo di amici, di andare a cena insieme, e insistevamo perché Penna venisse con noi. Lui si schermiva, adducendo un'impossibilità o indifferenza al cibo. Alla fine s'era arreso, giusto per la compagnia: ma poi, a tavola, s'era improvvisamente rallietato, aveva mangiato molto e di gusto e parlato quasi ininterrottamente alternando aneddoti deliziosamente bizzarri a piccole e in qualche modo innocenti perfidie. Insomma era stato un commensale incantevole, benché di tanto in tanto non avesse rinunciato a ripetere certi suoi lamenti; e una volta, ricordando un suo cane amatissimo, avesse persino versato qualche lacrima. Al momento di lasciarci, mi sembra che fossimo in via Borgognona o in via Frattina, entrammo in un bar per bere ancora qualcosa: e lì, scherzando, Serena s'offerse di leggergli la mano. Penna stette a sentirla, curioso e attento come un bambino: e quando saltò fuori che lei non sapeva, o fingeva di non sapere, la sua età, e gli attribuiva cinque o sei anni in meno, lui, a sua volta, finse di nascondere a stento una grande soddisfazione. Era chiaro che si stava prendendo gioco di noi, ina era un gioco tenero, affettuoso; e non mi sento di escludere che ci fosse, in quella finzione dentro la finzione, qualcosa di vero. Da allora non l'ho più visto: ma credo che abbiamo continuato, da lontano, a volerci bene. Per mia fortuna, non mi è mai capitato di incorrere in uno dei suoi sospetti o delle sue ire, capricciosi e indiscutibili come un fatto della natura. Natalia Ginzburg dice che Penna citava spesso una frase che io avevo scritto in un saggio sulla sua poesia apparso nella rivista «Paragone». In verità, la mia frase era diversa da carne Penna la ricordava e citava: ma perché avremmo dovuto dirglielo? A lui piaceva così; e, d'altra parte, la mia ammirazione, anche se motivata non proprio in quel modo, era reale e grandissima. Ma non riesco a non commuovermi al pensiero che uno dei più grandi poeti del nostro tempo sentisse il bisogno di «inventarsi» una lode alla quale aveva mille volte diritto. Certo, Penna è stato anche un grande malato. La sua malattia era la diversità, l'emarginazione, la povertà, la solitudine. Di questa malattia è morto, se è vero che accanto al letto nel quale l'hanno trovato morto nel sonno, dentro quell'inverosimile tana di animale solo e braccato che era la sua casa, c'era una gran quantità di boccette di sonnifero: le medicine che prendeva, non ceprdostticsusiaQerunlibsel'acoBStPridlaPdadtuPdchbcoganc«mcdrleSlptdtmudanpcnlbdalsfrsfdspcbc i i i , e n r , i o o , a o a a certo per uccidersi, ma per sopravvivere all'insonnia, al freddo, all'abbandono. Ma di questa stessa malattia, non dimentichiamolo, Penna è anche vissuto, e ha nutrito la sua poesia, e alimentato la sua letizia. Questo grande emarginato non era solo un grande poeta, ma un uomo straordinariamente libero e a suo modo felice. Proprio per questo, non mi sembra un caso che la morte l'abbia colto nei giorni in cui, con l'assegnazione del Premio Bagutta al suo ultimo libro, Stranezze, sembrava aprirsi per Penna un periodo di più vasti riconoscimenti, se non proprio di popolarità. Per molti anni, la grandezza della poesia di Penna è stata una convinzione di pochi, quasi un segreto; adesso, probabilmente, la situazione sarebbe cambiata. Ma Penna non poteva vivere al di fuori dell'emarginazione, che era la forma della sua libertà. Dicono che fosse molto contento di avere avuto il Bagutta. Ma dicono anche che agli amici che gli telefonavano per congratularsi con lui, confidasse con un filo di voce: « Sto morendo ». Infatti, è morto. Adesso, con calma, con dolcezza se possibile, cercheremo di fare i conti con la sua opera. Dopo la raccolta di Tutte le poesie, dopo il recentissimo Stranezze, dopo lo stupendo libro di prose intitolato Un po' di febbre, tutti volumi editi da Garzanti, sarà la volta degli inediti. Un gruppo, scelto dallo stesso Penna pochi mesi fa, sta per uscire presso un piccolo e valoroso editore di Genova, Giorgio Devoto; altre cose, certo, si troveranno. Né si deve temere che possa trattarsi di testi di second'ordine. Le poesie di Penna sono tutte belle, così come la musica di Mozart è tutta bella, dalla più facile e lieve delle sonatine per pianoforte alla più densa e imperiosa delle sinfonie... Una poesia «infallibile», insomma: infallibile perché perfetta, perfetta perché trasparente, trasparente perché misteriosa, misteriosa perché infallibile, e così via, con rimandi circolari a un principio assoluto che non è trovabile proprio perché è custodito nel centro della trasparenza, in un punto reso oscuro e inaccessibile dall'imperversare della chiarezza. André Gide ha detto una volta di Chopin (cito a memoria, forse con qualche imprecisione): « Può darsi che vi siano musicisti più grandi di lui, ma nessuno è più perfetto ». Sono convinto che si possa dire lo stesso di Penna. Forse, anzi sicuramente ci sono, nella poesia italiana di questo secolo, personaggi più « rappresentativi », più capaci di reggere il peso di una lettura ideologica e di una prò spettiva storica. Ma nessuno ha posseduto più di Penna la pienezza della propria ispirazione e del proprio linguaggio, in uno stato di grazia così continuo e completo da far supporre, dietro tanta limpida naturalezza, una sorta di religiosità sottratta a qualsiasi rovello metafisico, consumata, senza scarti né scorie, con la realtà, dentro la realtà. dpdf Giovanni Raboni