Intervista del presidente afghano Najibullah ad un giornale pakistano

Intervista del presidente afghano Najibullah ad un giornale pakistano Intervista del presidente afghano Najibullah ad un giornale pakistano Kabul: «Solo l'Italia vuole la paté» Secondo le dichiarazioni del leader filosovietico tutti soffiano sul fuoco, meno Roma, il Vaticano e il pei - I governativi: abbiamo vinto a Jalalabad - Il destino dei prigionieri PESHAWAR — In tutto il mondo ci sono soltanto due governi che hanno offerto i loro buoni uffici e che si stanno muovendo per riportare la pace nell'Afghanistan. Entrambi hanno sede a Roma: sono il governo italiano e quello del Vaticano. C'è poi un partito politico che è attivo nella medesima direzione e pure esso sta a Roma: è il partito comunista italiano. La sorprendente rivelazione è stata fatta personalmente dal protagonista della tragedia afghana, il presidente Najib, ad Anwar Iqbal, inviato speciale del quotidiano pakistano in lingua inglese The Muslìm che lo ha intervistato nel suo ufficio all'interno dell'ex palazzo reale di Kabul assediata. L'informazione data da Najib ha qualcosa di inverosimile, che il collega pakistano ha preso alla lettera senza approfondire. Stando al presidente dell'Afghanistan, il governo italiano, il pei e il Vaticano starebbero «preparando un piano di pace». Le parole di Najib cosi come vengono riferite danno l'impressione che Farnesina, Botteghe Oscure e Segreteria di Stato stiano lavorando di conserva. Più avanti però il I giudici min Presidente è stato più preciso: il Ministero degli Esteri italiano — ha detto — ha favorito un nuovo incontro (dopo il primo alla vigilia di Natale) tra il vice primo ministro sovietico è ambasciatore a Kabul Yuli Vorontsov con l'ex re afghano Zahir Shah nel suo esilio romano. L'incontro è avvenuto pochi giorni fa dopo il ritiro dell'Armata Rossa dall'Afghanistan e Vorontsov s'è affrettato a Kabul per riferirne al presidente. In quanto al pei e al Vaticano sono «attivi». La notizia, benché imprecisa, che a Roma ci si muove per far terminare il bagno di sangue in Afghanistan, ha un suo significato, perché giunge nel momento in cui diversi Paesi (Pakistan, Arabia Saudita, Iran, Usa) cercano di riempire il vuoto lasciato in Afghanistan dopo la ritirata dei sovietici, aiutano militarmente la resistenza e alcuni di loro infiltrano volontari e agenti tra le formazioni partigiane, favorendo le une o le altre a seconda del loro colore politico o religioso, n Pakistan (secondo accuse di Kabul) ha in Afghanistan propri soldati e consiglieri militari coinvolti nei combattimenti, l'Arabia Saudita ha centinaia di volontari della setta dei wahabiti in prima linea, l'Iran ha guerriglieri e predicatori che appoggiano i combattenti di religione sciita, gli Usa hanno tagliato i rifornimenti ai fondamentalisti considerati pericolosi e ora inviano direttamente armi e munizioni ai moderati (scavalcando i partiti che hanno sede a Peshawar) e puntano tutto sul comandante della zona di Kabul Abdul Haq. Nessuno, in questi giorni di guerra civile, pensa a organizzare la pace. Soltanto Ro¬ ma— stando alle informazioni date dal presidente Najib —lo fa. E intanto la guerra civile infuria. Ieri intorno a Jalalabad i combattimenti sono stati nuovamente violentissimi, per l'ottavo giorno consecutivo. I sobborghi della città hanno subito più di 40 incursioni di bombardieri di Kabul e i mujaheddin (secondo le loro stesse ammissioni) hanno subito perdite molto gravi e non hanno fatto neppure un passo in avanti. I governativi da parte loro hanno annunciato di aver «respinto l'offensiva dei 14.000 guerriglieri appoggiati dal 3.000 consiglieri pakistani». Audaci operatori di televisioni straniere che si sono avventurati verso il fronte hanno filmato colonne di donne, bambini e vecchi che fuggivano verso il Pakistan insieme con i loro armenti. Il flusso era così intenso che le autoambulanze, cariche di feriti diretti verso gli ospedali di Peshawar in Pakistan, dovevano farsi largo con le sirene. Verso il Pakistan è continuato anche il trasporto di prigionieri. Oltre ai 500 di sabato sera, ieri ne sono arrivati 150 della guarnigione di Sani arkhel, tutti arresisi a un'u¬ nica formazione di mujaheddin, quella dei moderati di Pir Gallarti, che vogliono il ritorno del re. I 500 sono stati presentati ieri mattina alla stampa in un campo vicino alla frontiera ed è stato annunciato loro che verranno rimessi in libertà affinché possano partecipare alla ricostruzione del Paese. Non sono considerati comunisti né collaborazionisti ma vittime della guerra fratricida. La conferma che si tratti di buoni musulmani è venuta quando i 500 hanno recitato le preghiere, accovacciati per terra, e gridato in coro Allah u akbar (Allah è grande). Mancavano alcuni dei prigionieri arresisi dopo il massacro di SamarkheL Strada facendo il camion che li trasportava era stato fermato da un gruppo di mujaheddin di un altro partito. Come impazziti, forse drogati, gli aggressori hanno costretto i prigionieri a scendere dagli autocarri e hanno sparato a raffica nel mucchio. Diciassette poveracci sono rimasti sull'asfalto. Gli uomini di Gailani, vincitori della battaglia di Samarkhel, non hanno voluto rivelare il nome della formazione degli assassini. Tito Sansa