Fantasmi del 1860

Fantasmi del 1860 Fantasmi del 1860 Forse tenere per dozzine e dozzine d'anni delle piccolissime cose nell'anima, corno se fossero tesori, vuol diro non essere nati a grandi sorti; ma non mi parvero gentuccia parecchi che in Palermo, negli ultimi giorni del maggio scorso, vidi commoversi sul serio, dinanzi ai donzelli del Municipio. Costoro, nelle loro belle divise di foggia militare non sembravano ancora quelli del 27 maggio 1860? In quel mattino dello maraviglie così lontano, alcuni di quei donzelli d'allora eramo comparsi nella piazza Bologni con indosso le loro giubbe rosse, e tra quelli che erano là ancora stupiti d'essere, come erano, entrati miracolosamente in Palermo, sùbito era corsa voce che quei personaggi dovevano essere disertori della oa"alleria borbonica. Vece di qualche burlone. Ma non tutti l'avevano presa in celia, sebbene di qvioi donzelli più d'uno fosse corpulento e vecchio; anzi i più ingenui se n'erano illusi e consolati. Ora, a rivedere quei donzelli a" alesso, chi ricordava il piccolo godimento di quel mattino antico, avrebbe voluto abbracciarli, e se non fosse stata la tema di dar da ridere ci si sarebbe provato. Beati gli umili che sanno contentarsi di così poco e godere ! Ma altri, nella piazza Pretoria, ricordava cose più gravi. Ricordava d'avervi veduto passare, tra la moltitudne tempestosa e irata, il tenente colonnello borbonico Bosco, bendato e tenuto in mezzo da due ufficiali superiori garibaldini, che lo conducevano a parlamenti dal dittatore. Era appena passata quell'ora tremenda del 30 maggio, che, mentre nel Palazzo si trattava dell'armistizio, i bavaresi di von Meckel e di Bosco entravano furibondi dalla stessa porta Termini, per cui Garibaldi era venuto dentro il 27. Allora l'armistizio, concluso già col rappresentante del loro generale in capo Lanza, arrestava quei due, che chi uà che cosa avrebbero potuto fare, coi loro mercenari, per la fortuna propria e per quella dei Borboni, se fossero capitati a quella porta un'ora avanti. Chi, cinquantanni dopo, ricordava lo sgomento pel pericolo corso dalla rivoluzione, e quel bellissimo soldato che aveva sperato di piombare in tempo a schiacciarla, pensava che egli era passato non sogghignando, ma sorridendo altezzoso, con là benda a?li occhi, tra la collera del popolo, di cui doveva, sentire l'alito infocato, ancora più che qualche fischio e qualche urlo diretto a lui. E' ricordando l'ora e l'uomo, meditava sulle vicende che gli toccarono poi, sulle speranze da lui suscitate nella Corte di Napoli, sulla sua sconfitta di Milazzo; e poi e poi su Gaeta in cui anch'egli cadde, sulle sue favoleggiate avventure di Parigi, nell'esule casa di re Francesco scoronato, e sull'ombra un po' misteriosa in cui a lungo andare si perse la sua bella figura di soldato. Dove, come tini Beneventano Bosco, di cui nonostante tutto, rimase un inquieto rammarico, quasi un desiderio nell'anima antica garibaldina? Non è sempre giusto tacer dei vinti. Il generale Tiirr che. colonnello allora e capo del quartier generale del dittatore, accompagnò il Bosco nel ritorno dal suo colloquio con Garibaldi, alle sue milizie di Porta Termini, crede di aver indovinato nell'animo di lui qualche proposito, natogli appunto in quel momento, perche egli gli diceva che Garibaldi e lui, Tiirr, e tutti coloro coi quali aveva parlalo o che aveva uditi parlare nel palazzo pretorio, erano Sirene. Chi sa che cosa volesse significare con ciò il soldato siciliano? Forse un pensiero buono di patriota ? Un desiderio, una lusinga da cui il Tiirr potessi) indurre vna vaga promessa? Nella società di Palormo, prima dulia rivoluzione, il Bosco aveva voce di liberale discreto. Forse gli pareva, come soldato giurato, di non poter assentire che la libertà venisse da genio di fuor dell'isola', in nomo dell'Italia sì, ma anche in quello d'un altro Re. Chi sa? Ma, la sua sorte di poi fu più verosimilmente determinata dall'essere egli stato chiamato a Napoli dopo la perdita di Palermo, perchè là nella reggia sarebbe stato sedotto a credersi destinato a grandi cose per la dinastia e forse a salvarla. Così si diceva allora di lui, e si bisbigliava pure che un'alta passione figlia di v.n'alta pietà, fosso nata in lui a fargli dimenticare tutto, a non ambir più altro che quella gloria. Per questo sarebbe stato così baldanzoso come tornò a Milazzo, dove, se mai, nella capitolazione fu bene punito, col divieto di più combattere per sei mesi. Col generale Tiirr, che fino agli ultimi suoi anni ne parlava con commovente rispetto; si ritrovarono a Parigi nel 1863, dove il Bosco, già molto malinconico e giù d'animo, a lui si confidava e da lui una volta prese consiglio, per un duello che per nobilissima catxa dovette sostenere. Del Bosco, in Sicilia, vivono ancora memori, benevoli, vecchi uomini buoni e semplici che lo conobbero bene, non borbonici, ma con nella testa l'ubbia che egli, fin da prima di Palermo, si fosse inteso con Garibadi per lasciarlo vincere. Chi scrive questa pagina, il 19 del maggio ultimo, andava con un amico suo che fu dei Mille e con un libero docente dell'Università di Palermo, a ricercare la traccia d'un sentiero percorso dai Mille nella notte dal 21 al 22 maggio, tra il Piano di Renda e Parco, marcia quasi impossibile a credersi, fatta faro con avvedutissima arte da Garibaldi, chiamata poi sempre da lui prodigiosa, e da qualcuno di quei suoi soldati romantici: Cavalcala sulle nuvole. La ricerca di quella traccia doveva servire a far divenir esattissimo un itinerario che il Club Alpino di Palermo volle pubblicato nelle feste garibaldine di quel maggio. (1). In quella escursione, giunti a Monreale, il professore pigliò su nella carrozza un signore di settantotto anni, agile di persona, freschissimo di mente, conoscitore perfetto dei luoghi che andavano a cercare, sterpeti e fossaie avanti il 1860, adesso vigneti, e, voglio dirlo all'antica, biadi superbi. Fu fatta la conoscenza di quel bel vecchio, lì per lì, con letizia di cuore. Da Monreale a Pioppo il discorso si era già venuto a fissare sui fatti dei giorni e delle notti di Garibaldi nel bivacco di Pian di Renda, e sui saoi ripetuti accenni di movimenti contro Monretìe su quella via, per andare a Palermo. E si capì presto che quel buon vecchio aveva in capo l'antica ubbia del¬ ti) Vedi Yadc-Mtcum, pubbllcsr.o per cura del Prof. Pioto Merenda, ne! C'inquaatonório della Spcr dizione. l'intesa tra Garibaldi e Bosco; si capì che pativa a non osare di dirla. Ma a un certo punto della via non si potè più tenere, e gridò quasi che là, proprio là, dov'egli segnava il punto in una di quello notti del 1860, datisi la posta, i due si erano incontrati, Garibaldi avendo seco due dei suoi, e due dei suoi il Bosco. Diceva il buon vecchio, con occhi brillanti di gioia, che, dopo lungo discorso, alle preghiere di Garibaldi d'essore lasciato passaro per quella via, il Bosco rispose risolutamente che no, che non di lì, che dalla parte di Parco doveva andar a passare, 'perchè per Monreale la cosa sarebbe stata troppo palese. Così Bosco stesso aveva svggerita a Garibaldi la gran manovra. E noi ascoltavamo, ammirati di tanta ingenua persuasione e di tanta lusinga di persuaderci. Certo quel brav'uomo aveva amato molto il Bosco, e però si temeva di offenderlo. Ma come si poteva fare a tacere, come a levargli quella sua certezza! Uno di noi con molta pacatezza e' mostran' dogli gran rispetto, si concentrò come se stesse per dirgli che gli credeva, ma disse invece con' tono bonario che bisognavi-,/ che Garibaldi fosse un gran fanciullone. Che sciocchezza la sua? Avere un'intesa così piena con Bosco, essere sicuro del fatto proprio, poter fare i propri movimenti,! mandando gli altri avanti alla vittoria, standosene al proprio posto, fuori del pericolo il più che fosse possibile, per vivere e raccogliere il frutto di quell'intesa; e noto che egli era sempre andato avanti a tutti, sempre al rischio di pigliarsi una schioppettata come l'infimo dei suoi militi ! E non aveva pensato che, se egli moriva, l'intesa con Bosco e i frutti di essa erano belli e perduti? No, no, Garibaldi non era stato certo così ragazzo da trattare ^on dei capi nemici traditori, per guadagnarli e poi esporsi a farsi uccidere sul serio dai loro soldati. Quegli che diceva così s'aspettava che il buon vecchio uscisse, a dire che Garibaldi sapeva di non poter essere toccato dallo palle nemiche; ma invece lo vide, inarcate le ciglia, fisso come per afferrare con la vista un altro filo nell'aria. Guardava, il buon vecchio, le sue labbra balenavano per diro, stette un poco e poi con voce tremante parlò : E' vero ! non dovrebbe essere stato, non fu... Questo che mi dite, non me 10 disse mai nessuno, non mi venne mai in mente, avete ragione, non fu ! non fu ! — E poi, rincalzò allora l'amico dei Mille, volete che fosse una tale schiuma di traditore quel Bosco, che voi amate ancora? Dopo, quel vecchio rimase muto tu pezzo e meditabondo. Forse si doleva della rovina di quella sua vecchia convinzione ; ma quando nel ritorno da Renda fu lasciato a Monreale non. parve malcontento d'aver conosciuto quei due, che avevano vissuti com'egli quei tempi antichi. Ma quanti in Monreale penseranno ancora com'egli avanti di quella gita pensava e forse sarà tornato a pensare? In Monreale il Bosco aveva dimorato per lunghi presidii, vi si era fatto ben volere, e che fosso un'amabile uomo fu sempre detto da tutti. E, per tornare ora in quella piazza pretoria, dove Bosco fu visto l'ultima volta così come ho detto, altri volle andare a cu riosarvi nell'angolo su cui del 1860 davano le scuderie dei duchi Serra di Falco. Bel nome questo allora e simbolico quasi per chi noi tre giorni e mezzo della rivoluziono vedeva stilla soglia della gran porta di quelle scuderie, un bellissimo soldato dello Guide garibaldine, divisa del 1859, grigia turchinaccia, alamari neri, stretta alla vita. Fermo, severo, quel soldato, e occhio che guardava dapertivtto-! Se uno osava a\-vicinarglisi, per una sbirciata di fuga nella selleria che metteva- nelle stalle, vedeva il cavallo di quel soldato sempre con la sella addosso, cui non c'era che da tirar le cinghie. Qualche ora che quel soldato non era sulla soglia del portone, vi stava per lui qualche piccolo fantacino, pigiato a caso da quelli che venivano dai combattimenti accesi agli estremi della città, per rifocillarsi o magari a quietare un poco. E che pensiero doveva essere il dovere star là a vigilare per quel superbo! Il qv.ale ritirato dentro giaceva su d'una coperta a riposare breve ora. E se non era- ne sul portone ; ' dentro, allora voleva dire che era andato a portar ordini, a ricevere informazioni, a sentire che bisogni c'orano qua. là, nei luoghi combattenti. Ma che cosa fece quasi tutti quei tre giorni e mezzo in que' luogo, a quella sorte d'ozio, quell'uomo" da battaglia, mentre in tante parti della città si combatteva? Non glielo si potè far dire poi mai da nessuno, per amico suo che foss* chi glie ne domandava, ma si capiva che aveva ubbidito a qualche ordine del Dittatore, e che forse vi si era rassegnato, incorandosi col pensare che so mai il turbine borbonico fosse riuscito a investire il quartier generale, egli avrebbe potuto salvare in qualche modo Garibaldi o perire con lui e prima di lui. Era quel soldato Giovanni Maria Damiani da Piacenza. Di lui si sapeva che a Calatafimi aveva avuto la bella sorte di strappare uno dei nastri dalla gran ban-. diera di Valparaiso, nel momento che i borbonici con mirabile impeto vi si erano avventati e, ucciso Schiaffino, erano riusciti a pigliarsela. Le voci anonime del campo avevano subito detto che il nastro era quello bianco sui cui, trapunta a forti lettere d'oro, stava la parola: Unità, e ciò aveva dato gioia; ma si era pur detto che questo particolare non era vero, e che anzi non da lui, Damiani, quel nastro era stato strappato, ma sì da Augusto Pavoleri di Treviso, milite della compagnia Cairoti, studente di medicina. Però in quei giorni, un genovese, valente disegnatore, andava pei bivacchi, mostrando in un suo schizzo 11 gruppo che si chiamava della bandiera, e nel viluppo di combattenti intorno ad essa vi si vedeva una Guida sul cavallo impennato. E riconoscevano chi era quel cavaliero, tutti quelli che, per il posto in cui erano stati nella battaglia, avevano potuto vedere come il fatto della bandiera era avvenuto. Credo che autore di quello schizzo fosse un Grandi che vive ancora e insegna la bell'arte sua in Salerno, e penso che se fu non possa avere dimenticato. Ma che pensiero doloroso viene ora su quegli uomini e su quelle cose ! Si capisce alle volte come si possa pericc'are d'essjr vinti dalla malinconica voce che ci grida da lontanissimo nei secoli: Vanità dille Ts vanità, lutto è vanità. Che cosa giova ora a! Damiani e al Pavoleri che si sia detto e si dica di loro due per accertare chi fece il bel gesto? Ah sì? E sappiamo noi se vi sia cosa al mondo che valga la gioia in cui, sia stato l'uno o l'altro, s'ingrandì il loro cuore? Eppoi, senza pretendere alla storia, essere ammirati, amati, tenuti vivi nella memoria, non morirò del tutto se non quando si spegne l'ultimo di coloro che ci videro, è poco ? Eppoi ancora, di che bolle e generoso piccole azioni si deve essere capaci nella piccola vita d'ogni giorno, in cui sta il vero bene altrui e l'umanità, se si è tali da natura che in un gran momento si sappia sorgere a certe altezze! Buoni Damiani e Pavoleri, uno di voi vi sorge, e l'aitro ne fu creduto capace! Ora ecco il doloróso. Come se l'onore attribuito all'uno e all'altro dai loro compagni avesse segnato loro una fine uguale, essi morirono volontariamente tutti e due, ma non forse per sazietà del mondo e della vita. II Pavoleri, divenuto medico di bordo d'una nave nostra di commercio, passò e ripassò l'atlanltico tante volte che ^ neppur più in quegli infiniti spazi trovò spazio bastante a contentarvi 10 spirito. Uccello era che non trovava mai 1 ramo su cui posarsi a cantar in pace! E un dì, in pieno mare, stando a conversare in coperta, spiccò un salto da poppa e sparì, ancora giovane, per andare a nascondere in chi sa qual fondo quella sua grossa testa, che portava così bene eretta a mostrare il viso sempre giocondo anche quando non rideva di cuore. Così fu narrato della sua fine. Ma il Damiani visse assai a lungo. Non sono ancora tro anni che finì come anch'egli volle da sè, non però per improvviso lancio, nò per violenza „ercata nelle cose o nele armi. E non aveva neppure grandi motivi d'essere stanco di star vivo. Ma a che ndugiarsi nella vita dopo aver molto guardato il mondo a passare; avervi fatte cose buone e forti, nè poterne far più; avervi conosciuto gli uomini e continuato ad amarli nonostante tutto e a sperare per loro? A che indugiarvisi per invecchiare di più, perdere l'ultimo bene della salute, subire forse le imbecillità dello spiriti}, patir nella carne, invilire forse, divenir forse ingiusti? Così dovette pensare quel fortissimo uomo e dire a sè stesso che senza offendere troppo la natura vi era pur modo di coricarsi a finir nel sonno, cercato per non destarsi più. E una sera toccati alla parete certi congegni da luce, ma non per darsi uce, si distese nel suo letto a pensare come una volta nei campi agli avamposti, ma non preoccupato del domani nè del nemico. Se mai, appena passato il punto per il di là egli non avrebbe trovato che bene. Non aveva rimorsi. E se aspettando il gran sonno avrà cominciato a rifar con la memoria a vita, gli sarà tornato alla niente la giovinezza irrequieta nella servitù e nelle congiure e lo scoppio di gioia guerriera nel Quarantotto e i dolori del Quarantanove, e Novara, da dove soldato sedicenne d'un reggimento piemontese, aveva portato alla madre la morte dell'altro figliolo di lei, fratei suo, nella battaglia. Poi i lunghi anni di profugo o 'a vita errabonda per le ccste'j del mediterraneo qua, là, in Oriovte, e gli silenti della povertà e le ricchezze acquistate infine c crescenti e abbandonate, per correre a far la guerra nt'iova nel Cinquantanove, e quella di Sicilia. Ah ! i grandi giorni della Sicilia. E la fantolina trovata spersa, in una via di Messina, e raccolta, tenuta, allevata poi come fosse stata sangue suo? E Napoli, e il Volturno e l'uragano di quel mimi polo eli guide menate da lui sulla via tra Sauta Maria di Capua e Sant'Augelo, quando fu- salvato il dittatore pericolante? Più tardi, il Trentino e Bezzccca e le ultime divise austriache ivi vedute. Appresso infine, una visione di vita dolce, accanto alla madre adorata e antica, fatta vivere da lui come una regina, antico già egli stesso. Quae soavità di cuore soddisfatto in quegli anni e in quegli agi che egli aveva fatti godere a quella sua santa! Forse mentre s'inebbriava in quel ricordo, l'aria della camera ^!i opprimeva già il petto, quel petto dove e passioni erano state potenti, e ora non c'era più forza neppure al rospiro. Chi sa q italo fu l'ultimo atto del suo spirito, quale l suo naufragio nel silenzio da lui voluto upremo ? Il ricordo della fine di quel soldato della patria, cui con tanto compiacimento aveva richiamato dall'immaginazione a star sulla oglia delle scuderie dei Serra di Falco, at. risto colui che guardava quel punto della piazza pretoria rivenutovi dopo cinquanta anni. E pensoso egli si levò di là, discese i gradini che dalla piazza mettono nella via Toledo, passo più, passo meno, dove, il 28 maggio 1860, una palla di cannone venuta dal palazzo reale colpì insieme nella testa Enrico Richiedei da Salò, ed Enrico Uziel da Venezia, e li uccise. Lì, subito gli balzò u viva e fresca dalla memoria l'immagine 'ell'Uziel veramente bellissimo nei suoi diiotto auni; ma del Richiedei, benché non c la fosse mai dimenticata, proprio in quel'istante non gli riuscì di ricomporre neppur l'ombra della figura. Quella dell'Uziel gliela impediva, gliela disfaceva, pareva che si ostinasse a voler il posto tutto per sè, come un ragazzo protervo. Ora va a indovinare il perchè di questi fenomeni dell» mente ! diceva colui a se stesso, e intanto ss ne andava da qvel punto, desiderando che al magistrato civico di Palermo venisse un giorno l'idea di incastrarvi nel lastrico una pietra con su inciso il caso dei due giovani d'italiane terre lontane, venuti a morire lì per amore della Sicilia, quando questa era cosa da sogno per essi, e cosa da sogno pei siciliani erano i loro paesi. Ed ecco che fatti pochi passi si vide viva e frese*, nell'immaginazione anche la figura del Richiedei, contro le sfondo del suo bel golfo nel Garda. Temendo di lasciarsi pigliar sul serio dala malinconia di meditare e di voler capire come si possano dare certi fatti mentali dj quella sorte, egli se ne liberò con un'oc-1 chiata dai Quattro Cantoni in giù verso Porta Maqueda, e ripensò alle cannonate che da quella porta faceva tirare il general borbonico Cataldo cinquantanni fa, a spazzare la via, ora così fitta di gente in festa. E un'altra occhiata diede al lato opposto, e gli venne in niente che là, nella chiesa di Sant'Antonino, come gli avevano detto, doveva stare Jukory entro un sarcofago d'antica famiglia, rimasto vuoto da antico, dove era stato messo dopo i grandi fune¬ rali del 7 giugno 1860. Doveva stare Ju-bori// Ma in cinquantanni... No, no. A quelpensoso non si affacciò neppur in nube l'i-dea di dire le ceneri, le ossa, gii avanzi diJukory. Disse Jukory senz'altro, come si di-ceva quando si vedeva quel nobilissimo ma-giaro cavalcare vicino al dittatore in mar-eia, o al Passo di Renda, alla prova di do-imare uno stallone su cui pareva nato, o aGibìlrossa quando si udì dire che l'onore dimarciare alla testa dcll'avanguarda su Pa-lermo, Garibaldi lo aveva dato a lui. Ju-kòry adunque doveva stare in quel sarco-fa^o da cui si accingevano a levarlo nelvicino cinquantenario della sua morte, pertrasportarlo in S. Domenico, nel Pantheondei grandi siciliani. Ma detto Jukory, pare- va d'aver detto che avrebbero ritrovato lui intero nella sua bella divisa ungherese che indossava il mattino in cui cadde, mentretuttc le virtù più impensate si rivelavanone! passaggio dei Siculi e dei Millo al pon-, in.» -1- x> i. m • • t" dell Ammiraglio e a Porta Termini, cor- rcnti col dittatore a cercare per l'Italia t7 cuor eli Palermo. Avrebbero i pietosi tro- vato Jukory così, quasi pronto a destarsi e a levarsi su. Ecco una sorte di poesia idea- limatrice, un'illusione che vale la realtà di essere arsi sul rogo e mandati via volatiliz- rati nello spazio. Ma. dice una voce, biso- gnorebbe non discoporchiare mai i sarco- faghi, nè smuovere mai la terra di sulle fosse. E' vero ! Jukory dunque fu cercato, e nel sarco-fago c'era, ahimè ! Ma come doveva essere scheletro, teschio, occhiaie ! Certo ognuno dei presenti s'inchinò e ripensò quanto ave- veva dolorato colui cui mancava la gamba sinistra, tagliata via invano, per salvargli dalla cancrena-il resto e la gran vita Ma ! la bella immagino del soldato gentile era sfumata. Meglio, meglio quel 7 giugno de 1860, in cui, attraverso alle barricate non ; ancor demolite, Palermo fece al nobilissimo caduto per lei, quel funerale in cui ognuno che vide gettò a chi giaceva nella bara un poco del proprio cuore ! 1 Ora quel fantasioso memore guarda an ch'egli lo scheletro del Jukory nella foto grafia che gli fu mandata in dono. Cosa as sai mesta. E cerca di ricomporrò in quel teschio la bella faccia, la carne bruna, gli J occhi neri parlanti, i mustacchi che, non come il Tiirr a punte, quel soldato portava giù sulle labbra tumide e calde. Ma non gli riesco più di far dire bone da quelle labbra ; le cose udite una sera che il Jukory, ascol tato da molti giovani giacenti intorno a lui nel bivacco di Renda, diceva a Benedet J to Cairoli e a Salvatore Calvino, discorron do dell'Italia e dell' Ungheria. Concedeva' che l'Italia avesse fatto l'interesse proprio , i . .-i.- j i n i. ì- ru.™.- secondando la politica del Conte di Cavour, perchè non gli pareva paese da vere e gran di rivoluzioni; ma in ciò vedeva un gran pericolo per la sua patria che forse si sa ' rebbe sviata verso ohi sa quale altra idea diversa da quella del grand'esule dittatore, La sua voce spandeva malinconia dei suoi prescntimenii. E Stefano Dapino, carabi niere genovese, che stava anch'egli ad ascoi 1 tare, diceva sottovoce che gli pareva di udi ! re l'eco della marcia militare di Wibelach1 intitolata Ivossùth, in cui l'eroico e il fune : bre s'intrecciavano, o l'eco dell'addio del t dittatore alla sua Ungheria del Quaranta < nove, sentito leggere come saggio di sublime dal padre maestro Canata, delle Scuole Pie, nel collegio di Carrara, dove egli era stato i educato. Gr. C. Abba.