La via di Capua e la via di Damasco

La via di Capua e la via di Damasco La via di Capua e la via di Damasco Acche l'incontro fra il Re e l'on. Enrico Ferri ò in certo modo un episodio della commemorazione cinquantenaria che prende quasi intiera l'annata. Sarà infatti compiuto mezzo secolo a ottobre da quando la monarchia sabauda scambiò con la rivoluziono la prima stretta di mano. Una grande diversità separa i due convegni. A simiglianza di tutte le cose del tempo l'incontro del sessanta fu improvvisato e mancò di quella finitezza per cui il convegno capitolino è perfetto come un tableau vivant, i cui attori abbiano coscienza della parte e dei propri meriti. Fu in una grigia fumigante mattina d'ottobre che cavalcarono l'uno verso l'altro per una strada maestra sommersa dal fango, e si incontrarono presso un'osteria di campagna, il Re che portava eretta la testa irta e provocante di venturiero con l'incomparabile generale popolano ravvolto in un mantello stracciato e annodato un fazzoletto sul collo ignudo. Le due metà ideali della nazione si fondevano in quell'incontro annullando ciascuna se stessa, non già alla maggior gloria dell'Argentina che a quei tempi mono sudamericani non pareva ancora un pernio della storia ideale del mondo, bensì nel nome d'Italia* I due uomini erano rudi e di scarsa intellettualità. Nò l'uno avrebbe saputo comporre decentemente una conferenza nò l'altro decentemente ascoltarla : sotto una tenda l'uno era diventato Re l'altro era diventato Garibaldi : se non si fossero incontrati sur un campo di battaglia non si sarebbero incontrati mai. Erano tiomini poco accomodanti. L'apostolo credeva fervorosamente nel suo apostolato di redenzione nazionale e democratica e il sovrano era profondamente convinto che la grazia del Signore avesse consacrata la sua regalità. Che costoro si stringessero la mano ora cosa che poteva accadere soltanto se a pochi chilometri di distanza fosso schierato a battaglia un esèrcito borbonico. Mai come nell'istante che l'uno faceva e l'altro accettava un dono senza uguali, dovette esser teso ed eretto in quelle duo anime partigiane l'orgoglio di parte. Mai dovette il Re sì fortemente sentirsi Re, cioè superiore pure a chi gli donasse un regno: ne mai il sovvertitore dovette sentirsi più lontano dalla reggia che, conferendogli un premio poteva tentare di negar tutta la sua vita, di sopprimere tutta la sua personalità, di annullare, con un collare o con un feudo, Giuseppe Garibaldi! Ma l'odore della polvere salendo ai loro cervelli vi addormentava ogni rancore come un narcotico divino. Era l'equivalente dell'odoro di femminilità bien masséc diffuso l'altro giorno entro la sala capitolina ; e corno questo stimola la loquacità induce. l'altro al silenzio. Il generale e il Re cavalcarono qualche tempo a lato sì che i fianchi dei cavalli talora si toccavano; pure erano remoti l'uno dall'altro; ma i loro spiriti si rico'ngiungovano a Gaeta ancora borbonica o che bisognava espugnare. Non parlavano. Entrambi erano cattivi parlatori. Educati più al silenzio che all'eloquenza i rivoluzionari discorrevano allora stentatamente; la ribellione era a quel tempo un'arma che si portava nascosta e che talora scoppiava uccidendo chi la portasse. Ora può esser rassomigliata a una finestra socchiusa in modo da provocar la gente a salire. E i sovrani, occupati al gioco terribile in cui ogni giorno rischiavano la corona, senza tempo per leggere, erano ben lontani dall'incarnare come adesso il perfetto mostro di sapienza. Come gli americani di Pascarella stavano in America così tutti costoro stavano nella storia, la facevano — e manco lo sapevano. Questa specie di inconsapevolezza determina il carattere del primo incontro. A Teano la monarchia e la rivoluzione B'incontrarono perchè bisognò incontrarsi: a Roma perchè conveniva o hanno creduto che convenisse. E però soltanto la seconda volta i preparativi sono stati fatti con la debita ponderazione. La prima volta nò la rivoluzione si profumò la barba nè la sovranità pensò a improvvisar un discorsetto spregiudicato. Nessuno invidiava le virtù o la fortuna dell'altro. Enrico Ferri ha per contro provato, prima di indossarlo, un soprabito nuovo e ha sperimentato l'acustica della sala prima di parlare perchè un positivista non s'affida che all'esperimento e se passa alla reggia vuol dire che ha sperimentato l'incapacità della piazza a dargli ciò che gli spetta. La grande superiorità di Ferri su Garibaldi sta in ciò: che quando è giunto al conspetto del sovrano, Ferri sapeva di essere glorioso e ha gloriosamente fanfareggiato, mentre Garibaldi che non ne sapeva niente, fu troppo soldatescamente conciso, nè fece brillare di fronte alla maestà del Re, come avrebbe dovuto, la facondia che è nata insieme con la democrazia e ohe ne è il principale ornamento. Quando, additando Vittorio, ebbe detto ai seguaci: « Ecco il Re d'Italia! » Garibaldinon trovò più altro da dire. Quale diversitàfra queste quattro parole aride e scabre, queste parole di pietra, e il discorso di Ferri liquido, effervescente, iridato come l'acqua di una catinella dove la disinvoltura istessa si fosse sciacquata le mani ! Avete udito il sorprendente paragone dell'ascensione spirituale dell'umanità con una locomotiva che esce dalla stazione! Sono lampi a cui si schiudono cieli di bellezza fantastica che solo può attingere colui che s'è temprato uno stile nella frequentazione della Camera italiana. Garibaldi non era da tanto. Garibaldi non seppe nè meno dire: — Maestà! — parola tanto facile a trovare suggerita dall'etichetta e dall'uso e che pure è una scintilla che incendia le mine pirotecniche dell'ovaiione, le sole che sien familiari ai Pietro Micca della borghesia socialista. Garibaldi credeva che le parole avessero un significato preciso, definito e definitivo: che Viva il Re volesse dire soltanto viva il Re. Nella sua epica ma fanciullesca semplicità il generale non capiva come questo banalissimo grido si rimarginasse sulle labbra d'un rivoluzionario, a simiglianza del sacramento della comunione che riacquistando il suo primitivo profumo sulle labbra delle ragazze della Maison Tellier, indusse a un mistico pianto tutto un popolo di lettori miscredenti. Superando Garibaldi, di quanto un professore può superare un semplice marinajo, l'onorevole Ferri ha quasi esaurito la serie dei rivolgimenti che un rivoluzionario della sua tempra è capace di produrre. E ha anche dimostrato di quanta capacità sia il mo¬ . n e . à n o o e o , e a ¬ narcato veramente contemporaneo, cioè erudito, discorsivo, ragionevole, concepito come un apparecchio automatico, ma intelligente per stringere con effusione la mano dei passanti e per firmare i decreti. Che altro resterà a fare al sovrano il giorno che Ferri avrà gridato Viva il Re? Urlare, a sua volta, Viva la rivoluzione! E così la quistione sociale si scioglierà come una compressa effervescente in un bicchiere d'acqua sciroppnr.i. Sulla via di Capua, scontrandosi Garibaldi con Vittorio Emanuele, due grandi idee sopravvissuto della storia italiana si scontrarono per annullarsi nella idea nuova, la sovranità nazionale. La democrazia che in Italia fu sempre repubblicana e municipale s'annullò nel regno: il regno, che fu sempre tI't unitario, ma tirannico, s'annullò nella democrazia. Perchè l'Italia si realizzasse, due t grandi figure storiche perirono. E però quell'ora solenne fu anche ombrata d'un lutto inospresso. Mentre, sulla via di Damasco d'Enrico Ferri, tutto è gioia e tutto è festa: nessuno si annulla, nessuno scompare. Tutti restano quel che erano. La rivoluzione I acquista un protettore di più in persona del 'Re: e la reggia novera un nuovo cortigiano o, più grammaticalmente, cortigiana : la rivoluzione. E i due avvenimenti che mezzo secolo separa sono dissimili quanto il portafoglio di ministro che avrà l'onorevole Ferri è dissimile dal sacco di fave che Garibaldi, donato il regno, portò in dote a Caprera. Bergeret. GnLdps

Persone citate: Capua, Enrico Ferri, Giuseppe Garibaldi, Pascarella, Pietro Micca

Luoghi citati: America, Argentina, Ferri, Gaeta, Italia, Roma, Teano