La Missione Giuseppina a Bengasi e i sette anni della sua vita

La Missione Giuseppina a Bengasi e i sette anni della sua vita La Missione Giuseppina a Bengasi e i sette anni della sua vita (Nostra intervista con uno dei fondatori) ...Cammino, solo, sullo stradale un po' fangoso cho da Cascino Vdca conduce alla Colonia agricola dei Giuseppini. Gli orti, i campi ed i giardini di Rivoli, sotto il -vasto cielo melanconico, dormono il sonno del meriggio autunnale. Nella campagna, dove il verde si tinge d'oro stanco, non si vede nessuno, non si ode una voce. Ma ed un tratto ecco giungermi Bulle ali del vento il suono d'una musica lontana. Sono le note d'una marcia vivace, che zampillano snelli, e leggere, tra uno squillar fresco di trombe e un confuso rullar di tamburi. Udita coeì, nella solitudine sovrana, quella musica mi par l'eco d'una fanfara di guerra, mi mette nella fantasia una visione splendente di soldati che si slanciano in battaglia e vincono gridando il nome d'Italia, di bandiere ohe sbattono al Vento del deserto, segnando il cielo di bianco, di rosso e di verde. Donde viene? Chissà... Lo domando a una donna che passa, spingendosi innanzi due mucche, e mi risponde meravigliata come io non lo sappia: — E' la banda della Colonia agricola, che ha vinto il premio all'Esposizione di Torino.., " Carlin,. Così, guidato da quella musica, raggiungo la meta. Ed ecco balzarmi dinanzi improvvisa, sola tra l'ampiezza di vasti terreni cintati, così puliti ed in ordine da sembrar capigliature pettinate da una mano sapiente, ila bianca casa dell'Istituto agricolo dei Giuseppini : è uno spazioso edificio elegante, che ha pur nella sua modestia, un aspetto civettuolo. Oltrepasso un cancello, mi inoltro per una stradetta ghiaiosa attraverso due file di campi coltivati in tutte le maniere, limitati in fondo da una cintura di vigne, raggiungo la bianca casa, che mi manda adesso per una delle sue finestre tutto l'impeto sonoro di quella bella marcia militare. — Il signor Arlunno? — domando ad una donnetta occupata a stender panni sopra >>ra siepe. — Non ho mai sentito questo nome — mi risponde. Possibile? Dunque, avrei fatto una gita inutile: il sig. Arlunno, che fu uno dei fondatori della missione giuseppina a Bengasi. non sarebbe più qui. < Arlunno — ripeto — Arlunno Carlo i. — Ah, Carlin — esclama allora la donna, come colpita da una subita rivelazione. — Eccolo là. E mi indica un ometto di mezza statura, vestito come un buon fattore di campagna, che esce in quel momento di casa. E' proprio lui, Carlo Arlunno, con l'appuntita barbetta rossigna, che gli prolunga all'infinito il mento aguzzo e il magro viso bruciato dal sole africano. Appena sente la mia domanda e il nome Bengasi, >gli occhietti vispi a buoni gli si accendono come di speranza : — Ebbene, notizie? — Buone. — E gli presento la Stampa col telegramma ufficiale, dove non si accenna in particolar modo alla missione, ma si afferma che nessun massacro di religiosi avvenne. — Sono felice — esclama l'Arlunno — ma vi accerto che non osavo sperare più Conosco i luoghi. Vicino alla nostra sede di Bengasi c'è, come c'è sempre stata, una piccola caserma di soldati turchi, che nei periodi di pace, tanto per sbarcar meglio il lunario, fanno lavori di manovali per gli abitanti dei dintorni. Quei soldati odiavano la nostra missione, prima perchè siamo cattolici, poi perchè siamo italiani. Ci «oppor¬ tavauo di mala voglia, spiavano, qualche volta anche per conto del loro Governo, quanto accadeva nel nostro recinto, e coglievano tutte le occasioni per farci danno o dispetto. Figuratevi se la loro ira mussulmana non sia divampata come un incendio allo scoppiar delle ostilità! Per questo noi si temeva che essi avessero approfittato della guerra per massacrare i nostri fratelli con le loro carabine. Il viso del mio interlocutore b'ò oscurato : forse i suoi timori non sono del tutto dissipati. Per distrarlo un istante, gli chiedo notizie della Colonia di Cascine Vica. Abbiamo molti allievi qui: una quarantina di ragazzi grandi, e trentacinque piccoli. Imparano a diventare agricoltori ed operai, frequentano le scuole elementari, hanno la loro musica, che avete sentito. C'è molta allegria, molta salute, molta serenità. Il terreno che ci attornia, una quarantina di giornate, è stato coltivato tutto dai nostri giovanotti, che imparano così nozioni pratiche di agricoltura. — E a Bengasi? Tre coraggiosi — A Bengasi abbiamo una colonia anche iù vasta di questa. Ce la siamo costrutta—SUI iij l»iirr.mr^< ci o per salvarla contro angherie e sopraffazioni d'ogni genere, difendendola da ladri e da predoni. Io l'amavo come qualcosa di mio : avevo visto le zolle rosse di quella straordinaria terra benedetta dal sole, nude come il deserto, al mio arrivo, trasformarsi a poco a poco sotto i miei occhi, divenire verdi di vigne, fulve di grani, ricche di frutti... E vi giuro cho quando, quattro mesi fa, compiuta laggiù la mia opera di agricoltore, dovetti salpare verso .l'Italia, mi parve che da tutta quella campagna cosi rigogliosa, che avevo veduto nascere, crescere, fiorire, moltiplicarsi, salisse a me, come un irresistibile jnvito a rimanere. E partii cullando nell'animo una speranza: quella di ritornare un giorno nel lontano avvenire, a .bengasi italiana... Forse, invece vi'ritornerò assai prima di quanto pensavo, non fosse che per godere l'ebbrezza di veder sventolare la nostra bandiera, in luogo del vessillo turco. Ci siamo inoltrati, passeggiando, per una Btradjcciola diritta, tagliata in una pallida vigna, che beve gli ultimi tepori, prima di irrigidirsi nell'assopimento invernale. Carlo Arlunno, parco di gesti, ma colorito d'espressione, mi racconta le vicende della missione giuseppina a Bengasi, facendomi rivivere dinanzi alla fantasia ciò che accadde sette anni fa. Partirono allora dall'Istituto di Torino padre Girolamo, padre Costa e Carlo Arlunno, giovani, forti, pieni di fede, fissi ad uno scopo: combattere la schiavitù, che è un flagello della Cirenaica. Arrivarono a Bengasi soli e poveri, senza nulla sapere nè della lingua, nè dei costumi di quei paesi. Si trovarono in una città sconosciuta coti gente ostile da una parte, gente selvaggia dall'altra, tra il mare ed il deserto. Però un bel sole d'oro splendeva in alto come un augurio e un vento dolce e profumato mormorava alle loro orecchie le delizie nascoste di quella regione singolare. Ed essi rimasero, impavidi. Aiutati prima da una casa di francescani, poterono con fondi dell'Opera delle missioni, -acquistare un podere a Berka, quindi, poco per volta altri terreni di qua e di'là. Padre Girolamo studiava le usanze degli abitanti, cercava di penetrare negli ingranaggi del commercio degli schiavi, e intanto faceva come poteva le prime elemosine, le prime opere buone. I suoi due compagni si occupavano degli acquisti di terreni, difendendosi continuamente dalle reti d'inganni che i mercanti arabi e turchi tendevano loro senza posa, con accanimento malvagio. — Più volte m'è accaduto — narra l'Arlunno — di aver comprato e pagato un pezzo di terra, e di sentirmi dire che non era nostro, e di vedermelo magari ritogliere senza motivo. Dapprima abitavano nella casa dei francescani; ma infine riuscirono a costruirsi una casa propria a sette od otto chilometri da Bengasi. Anche della costruzione dovette occuparsi personalmente l'Arlunno. Fu una casetta bassa, a un solo piano, come tutte le altre laggiù, con le mura di pietra e il tetto fatto d'un sistema di stuoie appoggiate a larghe travature. Le tegole non sono possibili a Bengasi a causa del vento, che le porterebbe via. La casa sorse con molta fatica, poiché sovente, di notte, gli arabi rubavano interi pezzi di muro, distruggendo così il lavorodi due o tre giornate. E bisognava perciò ricominciare. Più tardi, accanto a quel primo edificio si innalzò una cappella che por¬ ta il pomposo nome di chiesa ; e altri ne vennero, por gli alunni, quando la Colonia cominciò a fiorire. Moretti e morette Ma prima di ottenere un risultato, quante battaglie per quei tre arditi missionari ' — Figuratevi... Soltanto per costruire un muricciolo di cinta al podere annesso alla casa, mi occorsero due anni ! Per mesi e mesi i ladri mi perseguitarono distruggendo quotidianamente l'opera mia, asportando non soltanto il muro, ma anche i raccolti dei giardini e degli orti, che andavano fruttificando con grande fecondità. Eppure, malgrado questa vera battaglia combattutaci dagli arabi, per istinto di rapina, dai turchi, per odio, abbiamo resistito e abbiamo vinto... Ecco un giuseppino, che ha una pazienza da certosino. — C'eran pericoli di morto? — Sempre, durante i primi anni. Bisognava camminare armati, non uscire di notte, guardarsi alle spalle. Per fortuna il console italiano Bernabei ci aiutò molto, mentre il Governo turco ci avrebbe volentieri aiutato poco. Poi a me, un ..giorno, venne un'idea luminosa. Poiché nei dintor- ta di terreni erbosi alla loro maniera selvaggia, ma adattabili a pascoli, acquistai due mila pecore, promettendo agli arabi confinanti coi nostri poderi un terzo del prodotto annuale. Ciò mi cattivò parecchie simpatie. Nel frattempo padre Girolamo si era fatto conoscere come uomo di carità, e non solo le piccole monete, ma anche i migìdi (4 franchi e 23 centesimi) cadevano sovente dalle sue mani in quelle che venivano a picchiare alla nostra casa sempre aperta. Un altro fattore della simpatia, e della popolarità, che andavamo gradatamente acquistando tra arabi • e mori — i turchi sono sempre esclusi — era la cura degli infermi. Ammalati d'ogni genere, di Bengasi e anche dell'interno, arrivati di lontano con le carovane, si presentavano a noi, ricevevano cure e rimedi, che essi non avevano mai conosciuto e guarivano poi rapidamente, tra la meraviglia di tutti. Il merito della guarigione non era, è vero, tutto nostro: vi contribuiva anche il cli- a i j ma, uno dei più balsamici del mondo ; ma gli arabi non lo sapevano e cominciarono a volerci bene. i Così, quando fummo visti un giorno tener con noi, educare ed istruirò alcuni fanciulli mori, sebbene agli occhi di molti ciò fosse orribile, incontrammo una ostilità relativa. — Come avete... cstturato i primi moretti? — Comprandone alcuni per mezzo di un intermediario, sul mercato degli schiavi :_.altri raccogliendoli in qualche capanna sperduta, dove li trovavamo allo stato assolu tamente selvaggio, nudi, soli e affamati. Ma par trasportarli al nostro istituto dovevamo usare infinite precauzioni affinchè nessuno ci vedesse. Altrimenti, guai a noi ! Saremmo stati massacrati senza pietà, nel timore che trascinassimo i bambini neri alla perdizione... del cristianesimo! Per raccogliere le morette abbiamo dovuto usare il metodo più spiccio : comprarle sul mercato, pagandole 20*1 o 250 lire ciascuna Fatta la compera, bisognava attendere la notte, collocare la schiavettà o lo schiavetto acquistato, in una vettura, e di soppiatto trasportarlo all'Istituto. Il racconto del signor Arlunno diventa sempre più interessante. La descrizione dei metodi d'insegnamento sarebbe degna di un articolo a parte. I moretti imparano facilmente le prime nozioni elementari di educazione; poi si arrestano, ed è difficile farli progredire più in là. Così, dopo qualche anno di stenti, imparano a leggere, compitando un po' d'italiano, poi a scrivere qualche facile letterina senza spropositi e infine le quattro operazioni. Ma dopo-ciò, basta. Sono buoni e docili, amano con affetto riconoscente i missionari, ma non posseggono, salvo eccezioni, gran volontà di lavorare. Preferiscono al lavoro del contadino, quello, più sedentario, del falegname o del fabbro. Tutti, di solito, quando si domanda loro che mestiere vogliono scegliere, rispondono prima: a Nessuno ». Poi, se proprio ci te nete : « Il falegname ! ». Il loro mantenimento non costa troppo. Mangiano il pane d'orzo ; bevono il latte di palma. Hanno una terribile paura delle catene, della fru sta e delle carovane che passano e rubano i ragazzini per farne degli schiavi. Adorano la musica, tanto che il padre Costa riuscì a combinare una fanfara. Si dice che i piccoli musicanti, per vendicarsi di essere mori, facciano musica di tutti i colori. Le morette, dal loro canto, imparano anch'esse a leggere ed a scrivere e si danno con passione ai lavori muliebri.--Imparano ricamare. Il femminismo è ancora lontano da Bengasi ! A poco a poco la colonia si fa numerosa, sinché circa sessanta tra fanciulli e fanciulle la riempiono tutta. Ora i ragazzini e le ragazzine di sette anni fa sono cresciuti. Lo more son quasi signorine da marito ; i giovani sarebbero già capaci di tenere in mano il fucile. Che fare dunque di essi? Ecco il problema che si presentava ai Giuseppini ancora qualche giorno fa, prima che giungessero dall'Italia le corazzate liberatrici. Sotto il regimo turco era im possibile, salvo eccezioni, imbarcar gli schia vetti per l'Italia. Lo si poteva fare soltanto di rado, tra mille rischi e mille sotterfugi. Lasciar liberi gli alunni, sarebbe stato distruggere gli effetti ottenuti con tanto paziente lavoro di educazione, poiché in breve essi sarebbero ripiombati nella miseria morale e fisica, nell'ignoranza, nella schiavitù,.. D'altra parte, questi ragazzi non avrebbero potuto invecchiar lì, nella Col¬ n a i r o o o nia. I buoni padri Giuseppini eran appunto in questo angoscioso stato di perplessità, quando quasi improvvisamente Bengasi è divenuta italiana. Ed ecco che tutto si risolve: Italia vuol dire abolizione della schiavitù, fine della barbarie, distruzione di ogni abbominevole commercio. Ora i Giuseppini potranno battezzare liberamente i loro moretti, mentre prima non si azzardavano a dar loro il battesimo che in punto di morte, potranno proteggerli ed aiutarli nel cammino della vita, nell'esercizio delle professioni, inviare i migliori nei loro Istituti di Italia, per completarne la cultura. — Ora veramente — esclama l'Arlunno — lo nostra opera diventa utile al Paese, e noi ci sentiamo fieri delle peripezie sofferte, dei disagi passati, perchè sappiamo di aver preparato laggiù i cuori dei piccoli arabi ad amara e rispettare l'Italia. Questa dal canto suo ha compiuto una grande conquista. Io conosco Tripoli, regione fortunata ; ma Bengasi, dal punto di vista agricolo, è la terra promessa. Le meraviglie della fertilità Il mio cortese informatore mi traccia a questa punto un quadro così attraente delle condizioni privilegiate delle terre di Bengasi, che io rimpiango di non essere un capitalista per comprarne in quantità e farle rendere il cento per cento. ;; Immaginate una spiaggia deliziosa baciata dal più bel mare del mondo, sulla quale s'inarca per sei mesi dell'anno un meraviglioso cielo azzurro smagliante, tale da mettere invidia a quello di Napoli. Dal maggio all'ottobre mai nemmeno la più piccola ombra di nube passa a velare anche per un istante lo splendido sole, che non è terribile, sferzante, come si potrebbe pensare, ma si lascia correggere verso sera da una brezza freschina. D'inverno soltanto si alternano piogge di non lunga durata, che sono benefiche e raffreddano la temperatura quel tanto che basta per mutare l'estate in una piacevole primavera. Qualche volta imperversano sulla campagna bufere di venti formidabili che però non fanno soffrire i raccolti. Al gibli, il selvaggio vento del deserto che urla, schiamazza, percuote, succede sovente il bari, vento del mare, meno impetuoso e più sottile. Del resto, nulla; una gran pace e una gran serenità. Bellezza e dolcezza. La neve e la grandine, le tempeste che si scagliano a volte sulla nostra bella penisola, non si conoscon nemmeno laggiù. In queste .condizioni di cielo e di clima non v'è a stupirsi che il terreno sia d'una fertilità sorprendente. Tutto ciò che si semina vi cresce con una rapidità e una ricchezza, che hanno del portento. Certo esso offre tutte le difficoltà d'una terra che non fu mai coltivata: ma quando le difficoltà siano superate Bengasi diventerà un giardino. II raccolto principale attualmente' 5 l'orzo, che è uno dei pochi prodotti, di cui l'arabo si interessi, poiché gli dà il pane e gli rende quattrini, quando lo vende ai piroscafi inglesi, che lo esportano per la fabbricazione della birra. Ma anche il grano e il gran turco danno ottimi risultati. A Bengasi la seminagione avviene a ottobre e a novembre, ed a maggio è la mietitura. Le viti, purché piantate a basso ceppo, per approfittare dell'umidità del terreno, danno magnifici grappoli dagli acini enormi. Il vino, che ne riesce, è un curioso vino agrodolce, capace d'ubbriacare un toro. Ma l'avabo non fa il vino e vonde l'uva. Egli si accontenta di bere il latte di palma, che si chiama latte perchè è bianco, ma pel sapore si accosta assai alla grappa. Nei luoghi coltivati è noi tutto un rigoglio di limoni, aranci, datteri, mele, pere, mandorli, che danno frutti squisiti. — Nei nostri possedimenti — soggiunge l'Arlunno — nasce un po' di tuttoT Anche l'ortaglia ha attecchito superbamente. Dei cavoli, che ho seminato, hanno superato in bellezza quanto di solito produceva quella semente. L'unico difetto è per ora nell'acqua. In 16 pozzi artesiani ch'io feci cccpcvpmdsslvvnaacbtgdlsapsm tamente libera di sale. Bevendola rimane sempre in bocca, un leggerissimo residuo salino. Ciò però accade soltanto verso la spiaggia. Verso l'interno si può trovare invece acqua pura e sana. Tutto sta nello scegliere bene le località dei pozzi. Anche il bestiame si alleva ottimamente. Per le pecore sopratutto pare che la campagna di Bengasi sia l'ideale. Ma, credete a me, essa diverrà anche l'ideale dei coltivatori italiani. Lo posso dire io, come agricoltore, lo posson dire padre Apolloni e Maurizio Costa un piemontese di Giaveno e poi quelli che vennero dopo, Francesco Airale, un torinese di 49 anni, Giuseppe Apolloni, fratello di padre Girolamo, un simpatico giovano di 24 anni, veneziano, ex-caporal maggiore di artiglieria, e padre Umberto Pagliani, di 26 anni, attuale capo della Missione, e Giacomo Rosso, di Cavoretto... tutti costoro, che mi auguro di riveder presto vivi e Bani, sanno quali tesori si nascondano sotto le zolle di Bengasi. « Per ora di quelle parti io non posso offrirvi che un prodotto umano, un moretto, che abbiamo spedito da Bengasi a Torino poco più-d'un anno fa. Seguitemi in casa e ve lo presento. Saad Poco dono infatti mi si presenta Saad. Qualche giorno fa egli non era solo. Erano due, due fratelli: Saad e Said. Ma Said è partito per Odessa, dove i Giuseppinhanno una casa. Si dice che quando il fratello si .è allontanato, il volto di Saad, pedolore, non si sia affatto oscurato più deeolito. Perchè il suo volto è oscuro dav vero. Ha la pelle color d'ebano, i capellcolor ala di corvo. Solo i denti sono bi&n chi ; ed egli, che lo sa, li mette in mostra continuamente, tenendo sempre la bocca aperta, anche quando non c'è nulla da me ravigliarsi e nulla da mangiare. Si vede che i negri ci tengono a mostrare qualcosa di bianco... Dinanzi a me si mette sull'attenti, in una perfetta posizione militare e mi guarda con quegli occhi sanguigni, caratteristici dei mori, che visti sotto incieleuropeo acquistano una cosi mite - luce dbontà. — Quanti anni hai, Saad? — Non Io so, signore... — E' un po' poco, per un ragazzo della tua età. Del resto, ha ragione: al suo paese non si usano i certificati di nascita. E poi glsi legge sul volto che non deve avere più di sedici anni. — Come sei capitato coi Giuseppini? — Rubato da mio paese, incatenato, diventato schiavo, poi comprato da Giuseppini... E allora, non più schiavo. — Qual'è il tuo paese: Bengasi? — E' in quei dintorni... — Distante — Poco : due mesi di cammello. E il simpatico moretto, divenuto subitamente loquace, mi narra come fu rapito dal lontano suo luogo natio, un villaggio sperduto in un'oasi al di là del deserto, che si compone di settanta abitanti alloggiatn capanne. Egli viveva lassù da ragazzino la vita selvaggia, mangiando melica e bevendo latte di palma. Una carovana darabi vaganti passò e rubò tutti i bambindel villaggio. Incatenato cogli altri, eglvenne posto sopra un cammello, dove passò due mesi, attraverso il deserto terribileviaggiando di notte, dormendo di giornonutrendosi poco e piangendo molto. Giunto a Bengasi fu venduto sul mercato coglaltri schiavi. Volle la sua stella ch'egli fosse comprato dai missionari. — Molto buoni Giuseppini — egli mdice. — Invece di bastonarmi, trattarmbene. Insegnarmi leggere, scrivere, aritmetica, lingua italiana e fare il falegname..Poi un giorno fu battezzato e un altro giorno imbarcato per l'Italia. I turchi e glarabi, che non permisero mai la partenza dei mori per l'Italia, tentarono d'impedire 'imbarco a lui e a quanti partivano insieme ; ma egli con un atto di coraggio saggraprjò al bastimento mentre questo salpava e venne in Italia. — Molto bella Italia ! — esclama. — Soltanto molto freddo d'estate, d'invernotutte le stagioni. Noi mori soffrire freddo..— Adesso, con tutte queste notizie dguerra, non sentite il desiderio di ritornare laggiù? — Al mio paese no, perchè non essercniente; a Bengasi sì, perchè adesso essere Italia come Rivoli e Cascine Vica. Non più schiavi, adesso ! E dilata le narici come se aspirasse iprofumo del deserto, e guarda nel vuotolontano, come se vedesse in mezzo a un cielo troppo turchino ardere il sole sopra la terra rossa... GIOVANNI CORVETTO. La fanfara dei moretti L,e morette al lavoro dinanzi all'Istituto