Massimo d'Azeglio e suo fratello gesuita di Luigi Ambrosini

Massimo d'Azeglio e suo fratello gesuita Cronache del Risorgimento Massimo d'Azeglio e suo fratello gesuita Massimo d'Azeglio era, come è noto, un eran girandolone. Aveva proprio infusa nel angue la smania alfieriana dei viaggi: uno ei suoi primi bisogni era di essere sempre n mòto, di passare da un paese all'altro, isitando campagne e città, e conoscendo omini e costumi. Abitudine e necessità parte di artista, arte di boemo, parte di gran signore sfacendato e annoiato, in frequente contrasto on la vita e le abitudini del suo paese d'oigine, della sua città nativa. Era, per eduazione e per carattere un piemontese schieto; ma di una schiettezza tutta sua proria, quasi direi radicata nella fibra singoarissima dei suoi nervi, spesso tesi e spesissimo irritati. Uscito dal Piemonte ancora anciullo, sbalestrato in Toscana dalla bufea politica che aveva colpito suo padre, si uò dire che ricomincia col '14 le sue libere volontarie peregrinazioni per le terre dela penisola, ch'egli, prima di morire, vide visitò, non una sola volta, quasi tutte. A Milano fu artista e governatore, nel Veeto andò a cavallo a combattere ; la Tocana, le Marche, le Romagne, il Lazio, Roma, Napoli, la Sicilia, queste città e questi uoghi lo videro passare quando con le sue arabattole di pittore, quando in missione fficiale, e quando con segrete intenzioni di propaganda. Alfine cercò sollievo un po' ua e un po' là alla stanca salute : le donne, i piaceri, le care amicizie, le allegre ompagnie lo trassero da Palermo a Posillipo, da Roma a quella villetta sul Lago Maggiore, nella cui quiete furono cominiati e rimasero interrotti « I miei ricordi ». Da scapolo girellava in cerca di avventure, uando ebbe moglie viaggiava per distraione. Tutta la vita portò a spasso da un anto all'altro le sue bizzarrie, i suoi propositi e spropositi, e la voglia di divertimento e di lavoro. Tanto che, per quello he si riferisce particolarmente alla sua atività politica, ebbi occasione, parlando alra volta di lui, di definirlo una specie di tupendo galoppino storico del Risorgimeno italiano. Ebbene, Massimo D'Azeglio, nel febbraio del '42 era disceso da Genova per Civitavecchia sino a Palermo.- In un collegio di Palermo viveva allora un illustre padre geuita, che Massimo conosceva assai bene, ma che da molti anni non vedeva. Laggiù i diceva nientemeno che il padre fosse cugino della duchessa di Berry. Vero asceta dello studio e della pietà, ritirato in una nuda celletta, con pochi bisogni, il religioso passava il tempo, insegnando, leggendo, scrivendo, a tutto beneficio della compagnia alla quale aveva dedicato il lucidisimo ingegno e l'animo ingenuo e semplice di natura, ma fattosi rigido, assalitore, invincibile nelle schermaglie e negli scontri ngaggiati a favore e difesa di quell'enorme dottrina gesuitica, morale e politica, ala quale i nuovi tempi e la nuova cultura avevano dichiarata una guerra senza quariere, guerra polemica di disgregazione e distruzione. Il futuro ministro della Monarchia costituzionale si trovò così di frone un pallido, emaciato, debolissimo uomo, che a tutta prima non riconobbe l'antico compagno, ma che poi contrasse con lui una quasi rinnovata amicizia, e per alcuni gior ni, in lunghi e confidenti colloqui, gli parlò ngenuamente della sua vita di reclusione e di lavoro, quasi fuori del mondo, e delle dee ch'egli aveva, delle opere che stava crivendo, per difendere dagli assalti del iberalismo e premunire dal contagio dei nuovi tempi e dei nuovi uomini le dottrine dell'assolutismo politico che i gesuiti si credevano in dovere di rinforzare per impedire l'avvento della rivoluzione morale. I due uomini, così diversi, pur facevano insieme unghe passeggiate per i luoghi ridenti dela costa palermitana, ragionavano dell'Itaia e delle sue condizioni presenti e del probabile avvenire. E benché non due uomini, ma quasi due epoche fossero in essi l'una a. fronte dell'altra, tuttavia la comune educazione signorile, la bontà d'animo dell'uno, 0 la cavalleresca indulgenza dell'altro, davano ai discorsi un'impronta di buona pace, di tranquilla e onesta sincerità, in cui ì termini assoluti del dissidio si riducevano quasi a una piacevole varietà di argomenti e di giudizi. Dopo alcuni giorni i due uomini si lasciarono come buoni amici. L'uno ritornò alla celletta, fra le cui pareti l'altro aveva recato qualche piccolo conforto del vi vere materiale, una tasca per tener caldi piedi nelle lunghe ore di lavoro a tavolino, un orologio a sveglia, e un buon mantello di bourakau con la gomma elastica, per le passeggiate a cavallo di un asino, in caso eli cattivo tempo. Massimo prese la via per Napoli, e dopo qualche settimana era di ritorno a Milano. Jl padre gesuita ch'egli aveva riveduto, dal quale a tutta prima non era nemmeno stato riconosciuto, si chiamava Prospero Taparelli D'Azeglio: il celebre scrittore padre Taparelli, che l'anno avanti aveva pubblicato a Palermo il Saggio teoretico di diritto naturale, futuro collaboratore della Civiltà cattolica, e autore anche oggi famoso dell'Esame critico dei Governi ammodernati: strenuo campione del gesuitismo in lotta con le dottrine liberali. E Prospero e Massimo erano fratelli. »"*• Quest'episodio ha ben altro valore che biografico. Non è soltanto un caso occorso a Massimo D'Azeglio, al quale ne occorsero tanti e tanto più svariati; ma un indice di quelle che erano le coudizioni generali dell'Italia a mezzo il secolo scorso, divisa tra il vecchio e il nuovo, scissa e poco men che dilaniata dalle tendenze che da una parte la ritraevano verso il passato e dall'altra la sospingevano all'avvenire. È' un indice delle nostre condizioni morali in quel tempo, e dello stato della nostra cultura, nella quale l'infusione recente del liberalismo dovè superare il contrasto col gesuitismo rinnovellato, dando forma a un dissidio storico acrimonioso e solenne, che, sotto l'incrostazione rigida dei fatti e avvenimenti materiali, ci offre anche oggi lo spettacolo di un fluire e rifluire di linfe scorrevoli, per entro il corpo irrequieto dell'Italia di ieri. La storia, certo, come complesso di fatti non si ripete ; e nessuno oggi può pensare al ritorno delle vecchie condizioni materiali della penisola, divisa, occupata, tenuta soggetta dallo straniero, dall'assolutismo e dalla teocrazia; ma chi può dire che l'antico dibattito, che il vecchio contrasto fra l'una mentalità e l'altra, fra gli uni e gli altri temperamenti, fra l'autorità • U liberti aia oggi cenato, del tuttoMmcsvOpnsgqmrtfldca e composto in una suprema armonia di vita? e i o , o e o r , o o a Mutano i nomi e le cose; ma gli animi rimangono più che non si dica, più a lungo che non si voglia credere, in gran parte gli stessi : l'antico dissidio rivive in forme nuove, anche oggi, la sua inconsumabile vita. Oltre l'interesse storico contingente, esso ha, più nel profondo, un valore umano, che non passa. In questo senso la storia del Risorgimento è qualche cosa di più che un grande fatto civile e politico; che se fosse questo soltanto sarebbe poca cosa ; ma è una manifestazione stupenda di umanità perenne. Poiché coloro che in tal modo si combattevano erano uomini come noi siamo; erano fratelli, erano compaesani, erano amici ; ma le umane passioni, e l'ingegno diverso, e il diverso modo di concepire la vita, di giudicare il bene ed il male, li rendevano gli uni agli altri irreducibilmente avversi e nemici. Ognuno di essi lottava per la propria umanità; e il cumulo di tutte queste schiette energie morali in contrasto ed in guerra fra loro, costituisce la vera grandezza morale, il puro eroismo, il rilievo ideale del Risorgimento italiano. So bene che il semplicismo partigiano riduce il Risorgimento alla storia di alcuni partiti soltanto. Noi abbiamo inventata la bella frase: gli uomini del Risorgimento. Ma ciò che veramente questi uomini furono noi non possiamo oggi sapere, dal momento che li vediamo astraiti dalla realtà viva dei contrasti, in mezzo ai quali operarono e si formarono. Ed è questa realtà piena, intera, che noi dobbiamo conoscere per conoscere a fondo quegli uomini. La stessa storia del liberalismo non può essere ne veduta ne scritta in sè e per se, dentro i limiti delle persone e delle dottrine liberali. Nella storia dell'Italia il liberalismo non è che un termine. Bisogna conoscere adeguatamente l'altro col quale esso fu in relazione di contrasto. Accanto alla nuova Italia bisogna mettere in luce la vecchia, e non aver timore di fare conoscere gli uomini di questa, le idee, i principii, le voglie, i costumi, la ragione intima, insomma, dell'essere suo. Poiché una ragione intima di essere la vecchia Italia aveva; viveva da secoli e voleva vivere ancora; aveva forme di pensiero, di sentimento, di educazione che erano sue proprie, e che non a tutti par.evano vuote di contenuto, anzi c'era chi le giudicava buone, vitali, feconde, rigettando come intempestive e dannose le nuove. Il dissidio era profondo e però era sacro. Tutta un'epoca ne visse; migliaia e migliaia di coscienze ne furono invase e turbate ; in esso esaurirono le forze dell'ingegno, gl'impulsi del carattere, il sentimento, l'azione. Tutta una letteratura se ne alimentò ; e le varie tendenze ebbero ognuna il proprio capolavoro, come ebbero i propri soldati, i propri fedeli, le vittime e gli eroi. Certo, ci furono tempre vigorose di uomini che questo dissidio superarono, e potrebbe anche sembrare che ne vivessero fuo ri. Ma che dire di tanti altri, che dire dei più? Provatevi un poco, per esempio, a ren dervi conto della figura di Carlo Alberto al di fuori di questi contrasti.'Avete un bel tentare, ma non riuscirete mai ad averlo vivo davanti. Se fate di lui un liberale, non capite nemmeno la metà della metà della sua vita e dell'animo suo. Se fate di lui un assolutista, un retrogrado, non capite molto di più. Astraendo l'uomo dal dissidio in cui visse immerso, profondato, non vi rimane di lui che un fantasma. Ma nel contrasto egli s'incarna, e incarnato soffre e dolora e agisce e spera. I suoi errori si fauno espiazione, le sue colpe diventano martirio, e si fa sacro il mistero in cui visse. Ricordiamo un poco, accanto al nome di Cavour quello di un Solaro della Margherita ; non dimentichiamo così spesso che mentre Massimo D'Azeglio scriveva • romanzi e gli opuscoli politici, dal fondo della sua cella, emaciato dai digiuni, dalla vita conte nuta ed austera, nobilitato dall'ingegno e dalle intenzioni scriveva i suoi libri a difesa dell'assolutismo Prospero suo fratello, il gesuita. Lasciamo ad altri, s'intende, il compito di esaltare la morale e la mentalità dei gesuiti. Del resta, se essi avesesro più ingegno di quello che dimostrano, e minori preoccupazioni di setta, invece di esaltare se stessi, potrebbero non senza comune profitto, scrivere onestamente una storia dell'Italia, quale essi non volevano che si facesse, mettendo in luce quello che fu, durante il Risorgimento, il loro ufficio, la loro funzione storica. Poiché una funzione storica indub blamente essi la esercitarono. Come esercì tarono una funzione politica, tutt'altro che di poco momento. Si può dire che le dottrine del liberalismo trovarono nei gesuiti i più fieri avversari ; e il combattimento che si impegnò fra le due parti sul campo della cultura politica appare anche oggi degno di osservazione e di studio. Uno, ad esempio, dei problemi niù difficili che nel de cennìo di preparazione al '59 dovè risolvere la politica liberale fu tinello dei rarnorti fitSflclpvgcqscedTt fra lo Stato e la Chiesa, problema che lo Statuto, con l'articolo primo, non risolveva, e che dovè risolvere Cavour con le risorse del genio. Ebbene, se noi oggi consideriamo senza passione i varii argomenti prò e contro la separazione dello Stato dalla Chiesa, dobbiamo francamente confessare che la logica dei gesuiti bastava da sola a disgregare la compagine degli argomenti di cui si faceva forte il liberalismo cavourriano. Leggete a questo proposito la bella prefazione che Giovanni Gentile ha scritta per il volume di Bertrando Spaventa: La politica dei Gesuiti (una raccolta di scritti dello Spaventa apparsi fra il 1854 e il 1855, in forma di articoli di giornale, e tutti di polemica contro i gesuiti scrittori della Civiltà cattolica). < Chi paragoni, scrive il Gentile, la logica del Cavour con quella del Taparelli, deve liberamente convenire che filava più questa che quella : questa aveva maggior coerenza e compattezza; coerenza e compattezza, che è poi una forza, anche quando rompe nel paradosso; e colpisce sempre profondamente le menti, anche di coloro che si ridono volentieri della logica; e che vale a spiegare la vitalità di cui ha dato e dà tuttavia prova la dottrina dei Taparelli, ossia tutto il complesso dei principii, a cui s'ispira la rivista dei gesuiti, e, quel che è più, il governo della Chiesa cattolica i. Se non che i gesuiti, si vide poi, ebbero torto. Ed ebbero torto appunto a forza di avere ragione. La loro logica, così diritta, fece poca strada. La logica zoppicante di Cavour, un passo dietro l'altro, arrivò là dove voleva. Poiché Cavour non faceva della filosofia, come facevano i gesuiti ; ma faceva della pratica. E la pratica, la realtà, non è logica, non è diritta, ma ha il suo va e vieni, le sue contraddizioni, i ritorni su se stessa, le riprese. I gesuiti stavano fermi. Cavour e il liberalismo si movevano. Ma quel bisogno di immobilità non meno che quella deliberata volontà di moto formavano insieme il dissidio storico dell'età in cui Taparelli scriveva e Cavour operava. Si vorrà forse dire che il padre Taparelli era un'anima nera e Cavour un'anima candida? Tanto varrebbe, in tal caso, abolire dalla i storia metà del genere umano. E ogni voltache s'incontra un uomo che non la pensò come la pensiamo noi (bello sforzo, dopo cinquantanni !) seppellirlo sotto quella fa-mosa epigrafe che un tale, fra il '53 e i! '54 voleva fosse scolpita in bronzo sul monumento da levare al memorandum, del; grande ministro Solaro : Qui giace, e, sye- riamo in Dio, sia sepolta per sempre la sa-pienza e la virtù, del più famoso degli nomini vecchi »... E passar oltre. Luigi Ambrosini. Bertrando Spaventa. la politica dei gesuiti nel. tceolo xvi e nel xix. Polemica con la Civiltà cattòlica. A cura di Giovanni Gentile. — Roma, Albrisbi e Segali 1911