Poesia e fantasie di montagna

Poesia e fantasie di montagna Poesia e fantasie di montagna Ce una poesia, che nessun nostro poeta I la mai cantato : — ed è quella intima, umi- le, paesana, fatta di nenie, di proverbi, I J • T - . ' : ; i *i di leggende, che quasi ignorata, e nasco ita come un fiore alpestre timido di mostrarsi allo sguardo del passante straniero, vive e ù perpetua nelle valli profonde che dalle, verdi pianure canavesane salgono ad intaccare le pendici aspre del Rosa e del Monte Bianco. Poesia ch'ò il. frutto dei quieti raccoglimenti nelle veglie invernali, quando di fuori ulula la bufera notturua ed è dolco raccogliersi nella calda penombra • della stalla j ch'è il ritmo sgorgato spontaneo dal petto del pastore solitario vagante su pei pascoli magri negli umidi nebbiosi vespri settembrini, o il canto lungo della guida che nel silenzio del rifugio alpino si riposa e dimentica così"pericoli e fatica; oppure, ancora, tradizione ripetuta dal vecchio del paese nelle notti stellate d'agosto al crocchio di donne presso a la fontana. Di questa poesia — vera vece della montagna — non esistono, si può dire, interpreti indigeni. Uno solo, l'abate Cerlogue, quegli che gli abitanti della Grande Vallèe considerano, accanto al canonico Gerard, come, il loro poeta più schietto, si sforzò, nella seconda metà del secolo scorso, cu creare una musa dialettale con il patois valdostano. Ma al buon prete — che pure superò difficoltà grandi nel maneggio «li una lingua non ancora scritta e, per conseguenza, senza ortografia e sintassi determinata e senza regole filologiche — mancava assolutamente ogni potenza di espressione poetica; ed anche il suo poemetto Lo Titilliti de fer ch'ebbe un discreto successo di curiosità nel 1886, risulta in realtà poverissima cosa. Forse il linguaggio aapro, forse gli squarci di cielo troppo brevi, chiusi come sono fra queste labbra di monti, forse il carattere austero di queste genti fatto severe dal nereggiare dei pini, dal romba del torrente, dal limitato orizzonte della rupe, respingono a valle, alla collina, alla pianura, al mare e alla città i commossi abbandoni della poesia. Nò ■ candori abbaglianti del ghiacciai levati come altari verso l'azzurro, nò i bianchi aguzzi campanili simili a squilli di gaiezza fra il verde valgono a liberare l'anima nel prorompere del canto Urico. Ad altre popolazioni la gioia di ritrovare nelle figurazioni della fantasia l'immagine e il senso delle native belle/.7.e naturali, la curva serena della marina, l'ondeggiar molle dei colli grigi d'ulivi o il quieto plenilunio sui filari dei pioppi fra campi arati, o sopra il fiume argenteo. Qui la poesia è solo negli uomini, nelle cose nella tradizione ; sgorga direttamente dall'immediato contatto con il luogo, senza in terprete alcuno: siamo su un terreno vergine che la mente non ha ancora scavati: la contemplazione ce ne rivelerà il segreto. La contemplazione... fascino intimo per chi sa vedere; per chi ha un senso d'arto abbastanza vigile da gioire come di un tesoro della sosta solitaria sotto i gran rami di un abete nel silenzio divino della distia dei pascoli, mentre lo spirito si abbandoia a un indefinito sognare, e tutto l'essere si placa, e s> dimentica in un disinteresse està, lieo che mostra lontane, misere,, brumose, le cure, le vanità quotidiane Allora parla veramente la poesia montana. Bisogna saperla ascoltare, non col tea der l'orecchio a suoni, a voci umane, na al ritmo possente che sale dalla stessa natura alpestre. Ascoltarla tuffati nell'erba fresca accogliendo in sè ogni più vaga sensazione. Luce, luce, luce dappertutto, e ombre dense di pini dove la valle si fa più fonda; prati rasi all'intorno, rumori d'acque vicine e frusciar lontano di torrente che il vento reca a tratti e sembra allo scroscio del mare; rondini che passano rapide col fischio di un sasso lanciato; ed una pace immensa come sospesa fra l'azzurro immoto del cielo e la bianchezza nitida delle vette. Face non turbata dall'uomo che, in distanza, irriga il pendìo oh? brilla, irrorato, al sole; non dal lucente volo di corvi che si abbatte di colpo sul prato e poi si risolleva con gracidare rauco ed un fuggir veloce d'ombre nere pel terreno; non dalla mandra disseminata su per l'erta dalla quale discende alterno un risonar di campanacci: paiono le creature smarrire la loro vivezza, e solo situarsi nel quadro per un completamento d'insieme. Chi, con suprema magia di arte, ci darà — se non forse con una indecisa melodia di musiche — l'estasi fluttuante di una simile >ra mattinale di solitudine? Chi i solenni silenzi meridiani appena rotti da un ronzar confuso d'insetti fra l'erbe o dai misurati rintocchi del campanile, mentre in alto vagano nubi leggere gonfie di bianchezza luminosa, e la vallata intera si assopisce nel'.» gran cerchia protettrice dei suoi moiri? Chi lo splendore latteo del plenilunio alpino, quando i tetti di pietra del paese addormentato posano nel mistero argenteo, e la montagna di fronte sembra dissolversi nella chiarità vaporosa, ed il torrente, in fondo, invisibile, raccoglie nel suo scrosciar lontano i palpiti vaghi che solcano la notte ? Gran libro aperto, questo della, natura montana, a tutti gli occhi che vi sanno leggere, e non mai scritto da nessun poeta, e forse per ciò più generoso di sensazioni, perchè ognuno deve in esso ritrovare la propria anima lirica senza che un interprete guidi la mente attraverso divine bellczM già rappresentate. Ma un'altra poesia emana dall'ambienre alpestre, nota soltanto a chi ha vissuto )a vita intima e celata del montanaro, poesia ch'è la canzone spontanea del- monte, che •gorga istintivamente dal luogo come Una fonte non ancora imprigionata, e che somigli» a. quelle informi materie epiche di popoli primitivi che non trovarono un loro aedo. Essa è per ora come un fiore selvaggio a.cui sono ignote le torture leggiadre del giardino; vive e si perpetua con il suo rozzo fascino appunto perchè libera di forme letterarie, e se verrà forse un giorno in cui l'arte narrativa si impadronirà di leiacquisterà certo eleganze insolite, 6ì l'irà raffinata e gentile, ma perderà quel suo profumo di arbusto cresciuto al sole e al vento per un bizzarro seme caduto a caso sul terreno vergine. E' la lefa'geuda. Profondamente radicata al luogo in cunasce, la leggenda valdostana segue, pecosì dire, la valle iu tutti i suoi aspetti naturali. Per questo essa è veramente lo spirito dell'ambiente, e. trasportata altroveperderebbe ogni significazione; per que.;to essa ci appare davvero come il poema oumile or grandioso, or fosco ora ridete scritto non da un uomo, ma composto nel succedersi dei secoli da un popolo into;o che, guardandosi intorno, ha cantato al ino , i • _ i • i. . e M e a a e a o e o n , à o l o ui do che il paesaggio voleva: musica di uua scena sublimemente bella o terribilmente, orrida, chiara di sole e festosa di luci o tenebrosa e gelida per le forre in cui si restringe e per i dirupi che le sovrastano: commento poetico, dettato dalla fantasia religiosa e profana, al panorama che si of ■ fre agli occhi del visitatore. • Ecco un antico ponte che col suo unico arco romano si lancia arditamente a cavallo di un abisso muggente di acque. Si di 39 che nessuno dei materiali che lo compongono assuma forma di croce. E l'immaginazione fanciulla delle genti crea il mito: i! ponte c opera diabolica, e fu San Martino a costringere Satana con uno strattagemma alla costruzione. Ma il Gran Maligno aveva imposto una condizione : « La prima creatura che passerà il ponte sarà mia ». Tutto il paese assisteva alla strana sfida; ma l'astuto Santo, gettando uu pane, fé' varcare il ponte da un cagnolino, sì che ni beffato Diavolo non rimase altra soddisfazione che faro a brani il misero animalo ; ed in onore del Santo vescovo di ToUrs il luogo fu chiamato Pont Saint-Martin: Ahimè, quanto le potenze infernali abitano la Valle d'Aosta, proprio là dove noi crediamo di poter godere maggior quieta ! « Se si sapesse ciò che sono le notti d'agosto non si oserebbe metter neppure un dito fuori dalla serratura... » dice un libro dove un abate valdostano ha raccolto alcune crodenze e superstizioni popolari. E' vero. Provatevi a salire, o inesperti villeggiane di Gressoney e di Champoluc, sulle alture squallide che fra la Testa Grigia e il collo della Betta-Furka si addossano al Monte Rosa. Lassù, nelle notti senza stelle, si assiste a tregende orribili, a oscene orge di streghe, di fattucchiere e di folletti. E ben 10 seppe, pur senza salire tanto in alto, una povera donna di Lillianes, -villaggio delia valle del Lys, che insieme ad alcune cò-itpagne volle recarsi a tagliare il fieno selvatico sulle alture che separano Lilliaims da Sordevolo nel Biellese, e che le streghe, sorprese nelle loro macabre funzioni, interpellarono direttamente lasciandola semiviva pel terrore. Ma la storia è troppo paurosa per essere narrata, ed è meglio fatsi raccontare da qualche vecchio di Rechanié come la bellissima fata del Monte Colombera salvò, il ponte di Pont Saint-Martin. Aveva, questa vezzosa fata, pensato di scendere la valle in un modo bizzarro. Fatte gonfiare spaventosamente le acquo del Lys, vi si era seduta sopra come -u un trono liquido, decisa a rovinare il vecchio ponte romano. Ma gli abitanti, riconosciutala per la sua meravigliosa bellezza, Implorarono iti ginocchio: « fiaissez-vous, la Belle, et laiisei-nous le poni! ». E allora, lusingata dall'omaggio maschile, la fata, senza danneggiar ponte nè borgo, passò, scomparendo lungo il corso della Dora. Prova questa che le fate, quando son belle, sono pur sempre anche un poco donne... Ben più difficile invece da convincere fu 11 demonio Astarotte che,, con il suo aiutante di campo .Ache.ron, infestava le terre di Issime intorno'al 1600. Fu necessario intentargli uno di quei c processi contro il diavolo » tanto comuni nel medioevo; e ci volle tutta la tenacia e' il coraggio del reverendo sacerdote Annibale Serra, curato di Pettinengo, e rinomato esorcista, per venir a capo della sua caparbietà. Ma finalmente, il' 26 giugno 1601, secondo i doc.i-' menti ritrovati dall'abate Christillin fra le carte di Pettinengo e gli Archivi di Stato à Torino e al Vescovado di Aosta, l'ottimo Serra poteva informare il vescovo di questa città del felice esito del processo, chiusosi con regolare « sentenza di maledizione » e relativo abbandono da parte del petulante Astarotte delle contrade così miseramente vessate. E la fata di Fontaineclaira che diede il nome al villaggio facendo sprizzare una .viva fonte di meravigliosa purezza? E lo spaventevole mostro Eisene Uuf, dal corpo informe e dalle zampe di ferro, che abitava l'orrido ili Guillemore ed ebbe l'onore d'essere esorcizzato dal concilio di Trento? E le sventurate sette fanciulle di Gaby, falciatrici della profumata erba faksi, trascinate nell'abisso dal cumulo di fieno sul quale s'erano messe a dormire senza badare al ripido pendio del monte? L'anima loro abita ancor oggi' la sinistra gola maledetta, .la quel giorno funesto abbandoi-ìla. Qui non è luogo che non abbia la sua storia leggendaria. Rocce e torrenti, foreste e pascoli, dirupi e castelli, burroni e ghiacciai cantano al vento la lóro bella canzone fantastica, nata dall'anima ingenua di genti pr' • mitive. Anche i ghiacciai. Perchè lassù, al "ol Félik, nel cuore del Monte Rosa, dove, a quattromila metri d'altezza, il Lyskamm affonda fra le nevi le sue radici possenti, sorgeva, secondo la tradizione, una grande città. Ma gli uomini v'erano dissoluti, e non conoscevano pietà. Giunse un giorno lassù un pellegrino stanco, .-.he aveva ne«'i occhi un riflesso luminoso dei cieli di Galilea, e battè inutilmente ad ogni porta, chiedendo asilo. Quindi partì. Ed ecco una neve rossa come sangue scendere lenta, incessante e greve su le case. Per giorni e giorni nevicò ; e la città scomparve ; e con essa tutti gli abitanti... "Una volta ch'io valicavo, in cordata, il Félik, vidi la vecchia guida segnarsi furtiva della croce. E al'a mia domanda, essa, stendendo il braccio ed indicando uu non lontano rilievo su la distesa bianca: « Quello — mi disse — è '1 campanile della città maledetta... p. Così la leggenda valdostana si tramanda. Possa durare a lungo, e far più caro con la sua poesia lo contrade bellissime che amiamo. Sappiamola accogliere con trepida commozione. E se, in una sera pura d'estate alpina, guardando in alto ci parrà di scorgere un brillar più vivido di stelle, non respingiamo dall'anima la credenza pia che lassù il buon pastore di montagna seguiti a pascere — per ricompensa del Signore — isuo branco di pecore tramutato in astri: — saremo più vicini ai cieli, e forse alla verità. Àvas, Valle d'Aosta. MARZIANO BERNARDI.

Persone citate: Christillin, Colombera, Pont