Spigolature crispine

Spigolature crispine Spigolature crispine Si parla spesso, oggi, di Francesco Crispi, e si ricorre volentieri, da parte di taluni, alla sua autorità. Si è visto anche di recente, a proposito delle elezioni di Palermo. Non giureremmo, con questo, che la figura dell'uomo, la sua opera, soprattutto il suo pensiero politico siano largamente ed esattamente noti, anche a coloro che più spesso lo citano. Colpisce, intanto, il fatto che, in questo rinverdire della fama crispina, è quasi unicamente il periodo dei suoi due ministeri ad essere evocato. Cho in un uomo di Stato ciò che soprattutto importa sia la sua opera di governo, è troppo ovvio; ma, proprio per illuminare, e controllare quest'opera, oltreché per la conoscenza completa dell'uomo, i periodi di preparazione e ancor più quelli di attività politica estragovernat.iva non consentono davvero di essere trascurati. H che vale in misura particolarissima per Crispi, giunto a capo del governo già vecchio, dopo un quarantennio di vita politica e parlamentare. Chi voglia farsi una idea concreta del pensiero politico Crispino dovrà appunto' ricorrere soprattutto al Crispi agitatore e deputato di Sinistra del quarantennio anteriore al suo primo ministero, senza per questo escludere il quindicennio seguente. E, anche lasciando da parte gli scritti veri e propri dello statista siciliano, potrà, nei discorsi parlamentari, nelle lettere, nel diari, spigolare con frutto. L'uomo, cui nessuno vorrà negare vivezza d'intelletto, caldissimo amor patrio, profondità di vita interiore, incise sovente, in un periodo, in una frase, tutta una concezione organica e ardita di politica italiana e moderna. Francesco Crispi — è notò — si convertì ben presto, dal mazzinianesimo giovanile, alla soluzione monarchica della questiona italiana: soluzione, del resto, combattuta dallo stesso Mazzini assai meno intransigentemente ed aprioristicamente di quanto a molti piaccia credere. Nè la parola conversione sarebbe, per il caso di Crispi, la più esatta: giacchè il suo concetto monarchico ha una impronta nettamente nazionale, popolare e rivoluzionaria, in cui beri si ritrova il discepolo di Mazzini. Per lui la monarchia di Vittorio Emanuele re d'Italia è una creazione ex novo, opera del popolo italiano risorto ed insorto. Pergiò, contro Cavour, egli sostenne che il primo re d'Italia avrebbe altresì dovuto chiamarsi Vittorio Emanuele « primo » e non « secondo » : n Vittorio Emanuele è il Capo 'di una dinastia dei nuovi Re d'Italia. Non ha nulla a fare coi Conti della Moriana, coi principi di Piemonte... La Monarchia che avete fondata non ha precedenti nella storia, ha la sua genesi nella rivoluzione ». V'era nella tesi, storicamente parlando, una certa esagerazione unilaterale, che tuttavia dà maggior risalto al nucleo di pensiero politico, robustamente nazionale e democratico. Questo pensiero — cosa che non sempre capita agli uomini politici — egli potè, diciassette anni più tardi, tradurre in fatto quando, da ministro dell'Interno, ottenne che re Umberto, salendo al trono, si chiamasse « primo », nonostante i suoi antenati dello stesso nome. Era lo stesso concetto di sovranità nazionale e democratica che aveva affermato in Parlamento nel 1871, negando in pari tempo esplicitamente ogni sovranità di diritto divino: « In Italia non ci sono sudditi, come noni ci sono sovrani. Noi siamo tutti cittadini del Regno; il Re non è che il capo dello Stato, è il principe eletto dal popolo : e fra noi sovrana non è che la Nazione ». Concetto nazionale, democratico, e, aggiungiamo — se pur sia necessario l'aggiungerlo — liberale: «Voglio la libertà in tutto e per tutti, essendo persuaso che solamente con la libertà possono essere disarmati i repubblicani », scriveva a « La Nazione » di Firenze nel 1876. E questo concetto si concretava per lui nel governo parlamentare : « Il paese sente il bisogno che il governo parlamentare regolarmente funzioni; l'Italia non può ritornare sotto il dospotismo, nè andare alla repubblica; il governo monarchico parlamentare fra tutti è il migliore... Imitiamo l'Inghilterra, facciamo come in quel paese funzionare il Parlamento... », diceva egli nel 1887 al marchese di Rudini (secondo un passo del suo diario pubblicato dal Palamenghi-Crispi), al quale pure affermava <( le elezioni doversi fare onestamente, senza pressioni governative, senza illecite influenze. Ogni partito faccia valere i suoi mezzi morali, si serva dell'opera propria e non del danaro dello Stato; si cooperi a che la volontà del paese realmente e sinceramente si manifesti ». Perciò di fronte al voto del 31 gennaio 1891 — sebbene avvenuto su una questione particolare, e provocato particolarmente dal noto scatto del Crispi contro la Destra (accusata di aver fatto « una politica servile verso lo straniero») — egli, nonostante le insistenze di re Umberto, non volle rimanere al governo: «Se vi rimanessi — disse al Re la sera stessa — dopo il voto di oggi io sarei moralmente distrutto. Si potrebbe dire che resto per la voluttà del potere ». Perciò ancora — cioè, per i principi della sovranità popolare, e del governo parlamentare come espressione e strumento di quella, il Crispi affermava nettamente la superiorità della Camera sul Senato in materia d'imposte; si giustificava di non aver nominato senatore un deputato sconfitto alle elezioni. « imperocché avrei offeso la sovranità nazionale »: e prò» pugnava, scrivendo al Lampertico nel ISSIg la sostituzione del senato vitalizio di ne* mina recria col senato elettivo:

Luoghi citati: Firenze, Inghilterra, Italia, Palermo, Piemonte