Le constatazioni e i propositi delle Opposizioni secessioniste

Le constatazioni e i propositi delle Opposizioni secessioniste DOPO L'ORDINANZA DELL'ALTA CORTE Le constatazioni e i propositi delle Opposizioni secessioniste Roma, 15, notte. Il Comitato parlamentare delle opposizioni secessioniste, presenti gli on. Amendola, Baldesi, Chiesa, Colonna di Cesarò, De Gasperi, Facchinetti, Gronchi, GuarinoAmelia, Lussu, Mastino, Modigliani, Mole, Nobili, Persico, Tupini, Turati e Velia, in rappresentanza di tutti i gruppi aderenti, ha approvato e licenziato per la pubblicazione il documento intomo alle risultanze dell'istruttoria De Bono, che qui si riproduce e che, preparato dalla Giunta esecutiva, fu preventivamente sottoposto all'approvazione dei singoli gruppi. Il documento sarà direttamente inviato a cura del Comitato medesimo a tutti i senatori ed a tutti i deputati. Frattanto esso viene pubblicato questa sera dai giornali L'Epoca, La Tribuna, Il Giornale d'Italia c II Mondo. Il documento dell'8 gennaio; Eccone il testo: « II tre gennaio di quest'anno il Presidente del Consiglio lanciava una sfida ai deputati dell'opposizione secessionista, invitandoli a formulare contro di lui, ih base all'art. 47 dello Statuto, un preciso atto di accusa. La opposizione secessionista non era nell'aula e poche ore dopo la Camera prese le vacanze;, ma l'opposizione, stlduta con tanta baldanza, non poteva tacere, ed infatti, l'S gennaio, tra. scarsi i pochi giorni strettamente necessari a redigere una meditata risposta, comunicò al paese il suo pensiero in un documento, che non ha ancora perduto oggi, dopo si •lungo e si eccezionale periodo di nostra vita intema, il suo carattere di attualità e dei quale giova rievoca/re in questo momento la parte centrale. Si leggeva nel documento: • Il paese intuisce. Il paese ha capito che il Governo, incalzato dalla questione morale, fa uno sforzo supremo per sfuggire al verdetto della pubblica opinione, sbarrando la via a chi ricerca la verità e vuole la giustizia. DI fronte a questo tentativo, quale valore può avere la cosidetta « sfida » del presidente del Consiglio, il quale vorrebbe appellarsi — attraverso la procedura dell'articolo 47 dello Statuto — al giudizio della superstite maggioranza, creatura sua, alla quale egli ha già prudentemente ricordato una responsabilità comune e della quale ha saggiato, nel caso Giunta, la sensibilità morale? Quando egli stesso, in piena Camera e tra gli applausi dei suoi, ha preso sopra di sé ogni responsabilità • politica, storica e morale • di quanto è avvenuto, non si tratta più di formulare un'accusa, ne di dare'un voto politico; resta solo aperta, ed in modo sempre più temibile per gli indiziati, la questione delle singole responsabilità giudiziarie. • Le stesse tardive, condizionate, ma eloquenti ammissioni del presidente del Consiglio confermano quanto era già acquisito alla pubblica discussione: i delitti fiorirono sul terreno e nel clima storico, necessariamente determinati da un Governo che all'illegalismo ed alla violenza deve la sua ascesa e la sua permanenza al potere ; e la loro preparazione risale alla minaccia che la stampa fascista avventava contro gli uomini colpiti poi dal sicari. L'associazione di malfattori, che fu lo strumento di violenza e di morte nei delitti che più sono oggi in discussione, era annidata ben In alto, presso lo stesso Geverno ed i suoi dirigenti erano tra coloro che dividevano il quotidiano « pane salato del potere » e tra i grandi elettori della maggioranza parlamentare. Né vale a respingere la triste vicinanza asserire che i delitti furono « troppo stupidi ». In verità, questo può sempre dirsi dei delitti che sono stati scoperti; anzi, di tutti i delitti, poiché, per la loro provvidenziale natura, per breve ora essi giovano a chi li ordi. « Con sdegno ed umiliazione il paese ha letto i documenti fascisti, dei quali alcuni sono confessioni precostituite di una volontà, di un metodo, di un'organizzazione di crimini al servizio del Governo e del suo partito; altri, invece, sono innegabili'chiamate da complici a complici. La polemica sul valore morale dei loro autori, sui motivi che possono averli determinati, è una questione di moralità interna del fascismo, che non riguarda gli oppositori. Quei documenti hanno un loro intrinseco valore, e lo ha ben confermato il Governo, quando, con la soppressione di fatto della stampa oppositrice, ha voluto interromperne la serie. « Nessuna abilità polemica può cancellare queste confessioni dalla storia del regime fascista e, purtroppo, dalla storia d'Italia; nessuna giustificazione può infirmare il fatto che tutti questi elementi, in aggiunta alle contestazioni ed alle presunzioni generali, sono un indizio univoco di imputabilità. Nessun dubbio che lo stesso capo del Governo, se fosse un privato cittadino in libero paese, dovrebbe provvedere alla propria difesa; e che assai male egli vi provvede, sinché resta in condizioni di cosi grande privilegio di fronte alla giustizia. « Poiché il Presidente del Consiglio « sfida . gli oppositori, sia detto ancora una volta: che tra l'essere custode delle leggi di un paese e l'essere indiziato di averle straziate, vi è un'incompatibilità assoluta ed insuperabile. Questa verità balza ormai irrefrenabile dalla coscienza morale della nazione ed agisco nella vita politica coll'impulso di una forza elementare. « La battaglia sulla questione morale è ben vinta, e invano il Governo tenta di trasformarla in una battaglia di forza materiale. La violenza può colpire uomini e partiti, può soffocare la stampa, ma non soffocherà mai le aspirazioni di un popolo civile ». Per " insufficienza di prove,, n,l^»mr?n.L?ono ,ra69?r6i dal giorno in cui SSmÌ^KS?1?' m verit? memorande, venivano indirizzato al popolo italiano e il plumbeo silenzio creato dal Governo, grazie alla manomissione sistematica di tutte le libertà statutarie, può dirsi abbia daio maggior risalto al formidabile atto d'accusa ch'esse contenevano. Quell'atto d'accusa fu solennemente pronunciato dinanzi al Paese solo perchè non era possibile pronunziarlo al cospetto di una maggioranza parlamentare cui non poteva riconoscersi la qualità di giudice mentre essa eia troppo visibilmente agii ordini di chi era parte in causa. Ma oggi le risultanze giudiziarie dell'Istruttoria, svoltasi presso l'Alta Corte di giustizia in confronto al sen. De Bono, ci stanno dinanzi e confermano in modo impressionante quanto già, documenti fascisti pubblicati dalla stampa avevano reso noto al Paese intorno alla triste trama di violenze, di illegalismo e di delitti che ha accompagnato il « regime » fascista ed intor-> no alle responsabilità personali che essa chiaramente denunciò. Non solo, ma accanto alla sentenza della Commissione di istruzione stanno i volumi degli atti istruttori dai quali emergono elementi che aggravano notevolmente le risultanze consacrate nella sentenza medesima e che permettono di ripetere con assai maggior sicurezza quanto già- nel documento dell'8 gennaio i deputati secessionisti richiaravano m confronto del Presidente del Consiglio: « Tra essere custode delle leggi di mi paese ed essere indiziato di averle straziate vi 6 una Incompatibilità assoluta ed insuperabile ». Oggi, adunque, l'atto di accusa dell'8 gennaio può e deve essere confermato e l'opposizione secessionista dichiara di assumerne piena e intera la responsabilità, pur deplorando che l'esistenza di una situazione, la quale il completamente al di fuori di ogni garanzia statutaria e legale, renda materialmente impossibile e moralmente contraddittorio di svolgere tale accusa secondo la procedura prevista da quella Costituzione che oggi è completamente un ricordo. Mentre le P. C. costituite davanti all'Alta Corte contro il De Bono hanno formulato precise ed esplicite riserve, l'imputato ha accettato la decisione; è dunque lecito assumere, come primo dato di fatto, che il Direttore generale della Pubblica Sicurezza è stato assolto per insufficienza di prove dall'addebito eli partecipazione all'aggressione contro il deputato Amendola, dall'addebito di favoreggiamento nel delitto contro il deputato Matteotti, dall'addebito di favoreggiamento nell'agressione contro il deputato Misuri e dall'addebito di avere rilasciato un passaporto falso ad Amerigo Domini. Si può ben aggiungere che i ri ci i t ti contro i tre deputati furono commessi a causa ed in odio dell'esercizio del mandato parlamentare. Dopo di che il sen. De Bono è stato promosso governatore della Tripolìtania. Ma la decisione doll'A. C. non è tutta in quelle, pur gravissime, formule terminali. E se gli episodi finanziari consacrati come veri nella sentenza (deviamento di somme spettanti al pubblico erario per scopi formalmente e sostanzialmente di Partito... anche se rivoluzlo: nario!) possono essere trascurati qui: non si può non fermarsi su quanto attiene ai delitti organizzali contro i deputati, alla connessa attività criminosa di uomini e di organi di Governo, di fronte ai quali l'imputato nella procedura senatoria passa senz'altro in seconda linea. A proposito della Ceca Dal denunciente si era fatto l'addebito al sen. De Bono d1 avere « fatto parto di una associazione a delinrinero conoseiuta sotto il nome di Ceca, alla, quale sono imputati numerosi delitti in danno di persone ». La sentenza assolve il De Bono dall'addebito di partecipazione, ma non nega l'esistenza della Ceca. La sentenza assolve De Bono dall'addebito di partecipazione all'aggressione del deputato Amendola per insufficienza di prove, perchè, dopo avere escluso, fatti che qui saranno riesaminati, ritiene: che fu soppressa la vigilanza intorno al deputato da (aggredire, proprio « nei giorni immediatamente precedenti l'aggressione », e perchè « molti hanno veduto l'automobile che lentamente seguiva gli aggressori, che dopo l'aggressione rapidamente raccolse, a gran corsa dirigendosi verso la caserma della milizia nazionale volontaria in via Magnanapoli, ove entrò come in luogo di sicurezza il conduttore Zaccagnini. Nella caserma egli parlò col console Candelori, che ne riferì a De Bono, senza che alcuna conseguenza se ne vedesse né a riguardo dello Zaccagrùni stesso, nè in generale per stimolare la pubblica sicurezza ». Tanto che la sentenza deve dire che di fronte a quesito altissimo funzionario di governo anche « per molte voci concorrenti e testimonianze di parti diverse » l'incertezza si aggrava. Non era ancora deputato il signor Cesare Forni quando, per impedirgli la propaganda elettorale, fu aggredito a Milano nel modo brutale e proditorio che tutti conoscono, ed il senatore De Bono fu investito dall'addebito di avere sottratto all'arresto gli autori del delitto e di avere partecipato al sequestro ar. bitrario di documenti relativi ai precedenti del delitto, in possesso di un avvocato torinese. E da quest'addebito il De Bono ,fu prosciolto... in omaggio a una cosa giudicata clic non esisteva ! Ma pur fennan'dosi di fronte a tale suppósta barriera procedurale, la sentenza ha voluto stabilire: «ohe gli autori del sequestro criminoso poterono commetterlo mostrando lettere di cui li aveva muniti il I> Bono, e che il Dumini ed il Volpi, autori dell'aggressione, furono rilasciati liberi in « esecuzione di ricevuti ordini superiori ». Quando l'on. Misuri fu selvaggiamente bastonato per un discorso pronunciato poche ore prima alla Camera, gli autori materiali dell'aggressione furono subito identificati; il principale, tal Buonaccorsi, seniore della milizia nazionale, ha poi anoiie confessato. Anche per favoreggiamento a vantaggio di costui, il sen. De Bono fu denunciato. La sentenza lo proscioglie, per insufficienza ili prove, ma gli addebita di avere fatto andare agli arresti il Buonaccorsi nella fortezza di Osoppo il 5 giugno, dopo che la giustizia ne aveva chiesto la consegna il 1. giugno, e di avere consentito che il Buonaccorsi si allontanasse poi da Osoppo 6enza che l'ordine dell'arresto fosse stato revocato, cosicché il Buonaccorsi « ha potuto non solo sottrarsi all'a'resto comune, ma ridurre anche ad una mera parvenza quello che si disse di dargli come appartenente alia milizia ». Per il più tragico dei delitti perpetrati contro deputati, per l'assassinio di Giacomo Matteotti, la sentenza dell'Alta Corte libera il De Bono dalla responsabilità dell'esecuzione e ne confina gli addebiti al campo delle basse opere di favoreggiamento, dalle quali lo proscioglie per insufficienza di prove, pur dichiarando : l.o che De Bono ha indebitamente manomessa la valigia e la borsa de) Dumini, costituenti corpi di reato, e già affidati ad un funzionario di polizia giudiziaria per la doverosa consegna al magistrato inquirente: 2.o che De Bono ha sottratto un plico di carte del Dumini rinvenute dopo l'arresto all'Ufficio Stampa del Viminale. Onde ben può affermarsi che, anche secondo la sentenza dell'Alta Corte, debbono considerarsi accertati i fatti che i giudici non ritennero sufficienti per l'incriminazione del denunciato, ma dai quali risulta dimostralo: sia resistenza di una associazione a delinquere al servizio del movimento politico dominante, sia il costante intervento, positivo o negativo, a seconda dei casi, di uno dei più alti organi di governo, per intralciare, o quanto meno non favorire, il corso della giustizia contro chi aggrediva, feriva, assassinava gli avversari del regime. Motivando i! non luogo a procedere per l'appartenenza del De Bono all'associazione a delinquere, la senterza dell'Alta Corte osserva: "Una prova che il De Bono appartenesse alla delittuosa associazione si è denunciate nel fatto che nulla egli faceva per rendere sollecita ed efficace l'azione della P. S. quando avvenivano reati che con quella dovevano indirettamente collegarsl. Posto pure come vero il fatto non può con certezza dedursene la prova anzidetta, perchè l'Impotenza della Pubblica Sicurezza ad impedire reati ed a scoprirne gli autori, può ben dipendere ila altre ragioni, che non siano quelle volontarie e colpevoli clic si attribuiscono a chi ne sta a capo; e se pur queste si volessero ammettere, basterebbe, a spiegarle, l'interesse del partito, ecc. ecc. ». La discolpa del singolo è dunque solo possibile a patto dell'accusa al regime. Ecco la conclusione che, insieme ad altre, anche più gravi, apparirà evidentissima solo che si mettano in rilievo altri clementi di prova. Questi elementi sono negli atti di istruttoria, e se la sentenza dell'Alta Corte li ha dovuti forse trascurare, per non esorbitare dai precisi confini del giudizio da pronunziale sull'opera di un singolo individuo, essi possano essere utilizzati legittimamente da chi Ita il diritto ed il dovere di accertare e proclamare tutte le responsabilità. L'aggressione contro Forni Per l'aggressione Forni basterà ricordare che ne fu incolpato, come organizzatore — e non se ne difende — lo stesso Cesare Bossi, e che vi è domanda di autorizzazione a procedere contro l'on. Giunta (segretario del partito nazionale fascista all'epoca del fatto). Questa domanda non ha avuto corso, li Procuratore del Re che la formulò è stato punito: forse perchè non aveva esitato a riferire, nella stessa domanda, di autorizzazione a procedere, che Cesare Rossi, mentre confessava la parte avuta da lui stesso nell'organizzazione del delitto, aveva narrato di essersi occupato della cosa « dopo un breve colloquio avuto con S. E. il presidente del Consiglio, Il quale avrebbe espresso la sua volontà, che il partito impedisse la penetrazione ilei dissidentismo di Fomi, soprattutto a Milano » (Atti parlamentari 28.a legislatura n. 'ili). Ed il Forni fu aggredito .proprio mentre arri, vava a Milano. Ma l'Alta Corte si è fermata, enme di fronte ad un giudicato insuperabile, davanti al puro e semplice decreto di « archiviamento » emesso dal giudice istruttore di Torino, a termine dcM'articolo 179 del Codice di Procedura Penale, decreto che non vieta, va all'Alta Cortei di riaprire e proseguire lo indagini. Eppure, l'aggressione contro Cesare Forni aveva avuto per esecutori Dumini e Volpi, indiziati ambedue per l'assassinio dell'on. Matteotti; già rinviato a giudizio, il primo, per le violenze ad un quarto deputato, l'on. Mazzolani, e più che sufficientemente investito dalle prove dell'aggressione contro l'on. Misuri, coperta provvidenzialmente dalla atnnistia. E dell'aggressione contro l'on. Misuri non può tacersi che essa era stata illustrata in tutta la sua gravità dalla stessa vittima, in pubblicazioni a tutti note. L'aggressione contro Amendola Quando si tratta dell'aggressione contro l'on. Amendola, la sentenza dell'Alta Corte svaluta la confessione scritta da quel Ludoviro Perrone, capo manipolo della Milizia, rlie fu l'esecutore dell'aggressione, rilevando ci ve non si è potuto rintracciare il Perrone e die lo stesso on. Amendola, aggredito alle spalle, non ha riconosciuto, in una fotografia mostratagli, i lineamenti del Perrone. E poiché il maggiore Vagliasindi aveva avuto parte nella produzione della confessione scritta dal Perrone e di un altro docnmento di conferma (lettera Narbona), la sentenza afferma che il Vagliasindi sarebbe stato in possesso, anche lui, di semplici copie di quei documenti e che « nulla egli avrebbe potuto dire sulla verità del loro contenuto ». Orbene, ecco quanto ha deposto il Vagliasindi, per rogatoria, dinanzi al presidente della Corte d'Appello di Milano (voi. I, foglio n. 147): » I documenti del quali si fa cenno nella richiesta ora lettami, furono già sequestrati a me nella perquisizione avvenuta a mio domicilio a Gardone Riviera, nella notte del 30-31 dicembre 1924... Confermo, come già ebbi a confermare anche al questore di Brescia, l'autenticità e la verità contenuta nel documenti stessi, assumendone piena ed assoluta responsabilità. Questi documenti sono copie scritte e copiate di mio pugno dai documenti originali che mi riservo di produrre quando avrò la precisa sensazione che la giustizia avrà il suo corso regolare e che contro di me saranno eliminate le rappresaglie alle quali sono soggetto da molto tempo, esclusivamente per i sopracitati motivi, ecc. ». E più oltre, dopo avere rinnovata l'offerta degli originali, il Vagliasindi continuava: « Quanto ai fatti di cui si parla nelle lettere io, non avendo avuto pai-te diretta in questi, sono al corrente dei fatti attraverso le lettere, ed alle conferme che ne ebbi in colloqui avuti con coloro che mandarono le lettere stesse ». Ma la Commissione istruttoria non ordinò mai al Vagli isindi di produrre i documenti originali, nonostante questi avesse terminata la sua deposizione cosi: t Mi permetto, infine, di fare presente che sembrerebbe opportuno che l'Alta Corte richiamasse tutti i documenti che mi furono sequestrati, perchè potrebbe trovarne altri interessanti, oltre quelli accennati colla rogatoria attuale ». La confessione Perrone La confessione del Perrone al Vagliasindi consta di una lettera e di un allegato, recanti conferme e indicazioni di prove, ecc. ecc. La parte sostanziale della lettera è la se. guente: «Circa il 20 del mese di dicembre, fui Interrogato dal console Candeiorl Mario, comandante la 112.a legione della Milizia volontaria per la sicurezza N'azionale, alla quale anch'io appartenevo col grado di capo manipolo, se mi sentissi di voler prendere parte ad un'azione punitiva contro un tale che colia sua opera si opponeva ed ostacolava l'opera del Governo nazionale, intralciandone il benefico svolgimento. Alla mia risposta affermativa ed impegnativa seppi che la persona in questione era l'on. Amendola, al quale (bisognava dare una bastonatura. Dato il nome dell'oli. Amendola, la cosa mi impressionò ; ma di persona potei accertarmi che pure l'onorevole Mussolini voleva che cosi si facesse.-^Seguirono colloqui col De Bono, che dispose tassativamente che l'onorevole Amendola fosse soltanto bastonato e, che. seppure si fosse difeso ed avesse reagito contro di noi colle armi, non avremmo dovuto in nessun modo adoperarle contro di lui, disponendoci anche ad essere uccisi. Date le abitudini dell'on. Amendola che per tre giorni se. gnimmo, constatammo che non era possibile agire contro di lui. se non si voleva che il fatto si compisse di pieno giorno ed in strade ben frequentate. Giungemmo al 24 dicembre ». « La sera di quel giorno stesso riferimmo la nostra impotenza di agire. Ci si disse che eravamo degl'incapaci, che avremmo dovuto non prendere l'impegno e che, in ogni caso, la cosa doveva essere fatta e, in caso diverso, noi saremmo stati sostituiti. Tutto ciò ci inasprì e decidemmo di agire, mettendoci pure allo sbaraglio, avendo, tra l'altro, la certezza di essere stati individuati dall'on. Amendola, messo in sospetto da alcune nostre imprudenze, quali, ad esempio, le indecisio. ni che sorgevano repentine dopo un tentativo di azione. Decidemmo dunque di agire, a costo di essere da lui uccisi o da altri arrostati, la mattina del 26 dicembre, come, infatti, facemmo, secondo la cronaca del giornali, che, tolta qualche Inesattezza di poco rilievo, corrisponde esattamente allo svolgimento del fatto, fn seguito e dopo continuarono gli abboccamenti con De Bono, e dal console Candelori e da me stesso furono forniti alla Questura elementi, a bella posta trovati e richiesti, per fuorviare l'inchiesta della P. S., in modo da poter simulare interessamento ed alacrità da parte di quella per scoprire 1 colpevoli. La cosa quindi fu messa a tacere, e l'istruttoria si chiuse per inesistenza di prove ». Dopo di che, e nonostante che il Narbona abbia confermato, deponendo il 28 aprile 1925, l'Alta Corte giudicò, trascurando del tutto che Cesare Rossi, in un colloquio tragico, avvenuto il 12 giugno 1924 col De Bono, investi quest'ultimo nel modo che è stato verbalizzato davanti all'Alta Corte (volume 2.0 foglio 175 e retro): « Confermo la f>rase detta a De Bono: « L'aggressione ad Amendola l'hai organizzata tu, d'ordine del presidente ». Domandato, risponde: « L'aggressione ad Amendola fu organizzata da De Bono d'ordine del Presidente, ma non so da chi sia stata fatta eseguirò. Ho l'impressione che siano stati elementi fasci, sti romani i. della Milizia ». L'assassinio di Matteotti Se, di fronte a tanta 'Iragedia, si potesse indugiarsi in responsabilità minori, si potrebbe osservare che l'Alta Corte ha veramente esagerato in indulgenza nel giudicare gli episodi secondari di questo delitto, dai quali pure traspare come tutto e tutti piegassero alla necessità di impedire che l'atroce verità si scoprisse. Si accerta che la valigia e la borsa dì Dumini sono richieste da De Bono, il giorno 13 giugno 1924, al commissario Jantaffi, il quale Io aveva sequestrate all'atto dell'arresto, ed avrebbe dovuto rivendicarne a se solo, e sempre, la gelosa ed intatta custodia. Si accerta che i due oggetti sono portati alla Direzione generale delia P. S., il 13 giugno, eri ivi ne vengono infrante le serrature e ispezionato il contenuto, senza l'intervento del magistrato. Si accerta, infine, che il senatore De Bono si è fatto consegnare, e non ha restituito, un plico di carte dimenticato dal Dumini all'Ufficio stampa del Viminale, e l'Alta Corte dimentica che tutto ciò è precisamente previsto e punito — dato che non costituisca favoreggiamento — dall'art. 202 del Codice penale. L'addebito di favoreggiamento ricevette un impreveduto sostegno dalle due lettere del Dumini indirizzato all'on. Finzi, e che la Direzione del carcere aveva trattenuto (a quanto sembrerebbe, d'ordino dell'Autorità giudiziaria), per quasi otto mesi! In queste lettere che, invece, l'Alta Corte si fece consegnare, il Dumini, oltre a far allr-e gravissime rivelazioni, narrava che il De Bono gli aveva consigliato, proprio lui, di tenersi sulla negativa iù assoluta, e ciò in un colloquio avvenuto tra i due la sera stessa dell'arresto. Ma il Dumini, a dieci mesi data, spiegherà, rettificando, che il consiglio era stato dato in tono sarcastico, di fronte alla negativa già adottata dal Dumini, e l'Alta Corte si appagherà del ripiego, dimenticando ene da un memoriale, presentatole dallo stesso De Bono (volume l.o, foglio 3 e seguenti) risulta non essere vero che nel colloquio con il senatore De Bono, la sera del 12 giugno, il Dumini si mantenesse negativo, onde il dovere di concludere che la negativa assoluta adottata dal Dumini fu posteriore al colloquio. Dice infatti il memoriale De Bono (volume Lo, foglio 25) : « Vidi il Dumini e cercai sapere notizie dell'on. Matteotti, ma il Dumini si chiuse nel più assoluto silenzio. Disse solo: «— lo gindavo la macchina, il resto l'hanno combinato tutto loro ». E,» forse, il racconto fu assai meno sommario, perchè il Dumini, interrogato dall'Alta Corte (volume 2.0, foglio 166) non ha nascosto che la sua irritazione contro il ue Bono derivò appunto dal fatto che quest'ultimo aveva riferito al magistrato ciò che aveva appreso dal Dumini e che questi riteneva di averlo confidato da fascista a fascista. Ma tutto ciò è miserabile dettaglio, di fronte all'assassinio ed a quell'assassinio 1 Dumini a Finzi Sulle responsabilità comuni, si pronunzierà il magistrato. Qui si deve registrare ciò che dagli atti dell'A. C. risulta intorno ad altre responsabilità, di frante alle quali il magistrato ordinario non è competente a pronunziarsi. E si deve subito aggiungere che si parlerà solo delle responsabilità prossime e concrete, non di quelle remote e generali. Risulta che Amerigo Dumini, quando fu interrogato dall'Alta Corte, rinunziò al sistema della negativa e si assunse tutta e da solo la responsabilità della preparazione e della direzione del delitto. Il gesto era preveduto, ma è tardivo e svalutato dalla circostanza, eioquentissima, che il nuovo atteggiamento coincide con la fine dell'isolamento assoluto dei primi mesi di detenzione. Durante l'isolamento, il Dumini scrisse invece quelle due lettere all'on. Finzi. nella prima delle quali si legge: « Mi accorgo di essere abbandonato da tutti, specialmente da coloro cui ho sacrificato tutto. Dunque, mi difenderò ed accuserò, se sarà il caso. Devo dirle un'altra cosa, e cioè che S. E. De Bono ha fatto una deposizione falsa quanto gravissima. Ha affermato aver lo confessato a lui, non come direttore generale della P. S. ma come fascista, di avere partecipato al rapimento del deputato socialista. Ora, a parte il vilissimo tradimento che egli avrebbe compiuto, facendo uso di una dichiarazione fatta da fascista a fascista, dichiaro che l'affermazione del De Bono è falsa, perchè io, conoscendo l'animosità di egli verso di me ed il Rossi, non gli avrei certo fatto delle dichiarazioni sulla mia partecipazione al (fatto) rapimento, qualora anche vi avessi prc. so parte attiva. Egli ha deposto gravemente contro Rossi e Marinelli. Come vede. Eccellenza, di fronte al tradimento di De Bono e di fronte, altresì, al palese abbandono di tutti, io sono obbligato a provvedere seriamente alla mia difesa, facendo uso dei documenti e della mia memoria, che ò buona. Sino ad oggi ho lasciato accatastare sul mio capo le accuse alle contestazioni, le prove alle contro-prove. Non ho compromesso ancora nessuno, nè del Viminale, nè di palazzo Chigi. L'accusa è tutta contro di me. La mia assenza ( ?) farebbe crollare tutto il castello accumulatosi sulla testa di ciascun imputato. Io non so a che cosa abbia teso S. E. De Bono. Ho letto io stesso la sua grave deposiziono. Elia, Eccellenza, dovrebbe avvertire di questo il Presidente. Perchè De Bono ha voluto dire al falso, quando, invece, nell'Ufficio del Commissario della stazione, egli mi disse : « Se ella sa qualche cosa, neghi neghi 1 >. Si è già riferito che, dopo molti mesi, Dumini disse che questa sollecitazione del De Bono era stata... ironica! Ma nella requisitoria del P. M. davanti all'Alta Corte si apprende che Dumini, dopo reso uno dei primi interrogatori (nel quale negò tutto), spontaneamente aggiunse: « Non solo io non feci ammissioni di sorta sulla mia partecipazione al fatto, ma nel colloquio con De Bono, aggiungo ora che prima di congedarmi, quella notte, egli ebbe a dirmi queste testuali parole: < Se ella sa qualche cosa, neghi, neghi! Io voglio salvare il fascismo ». Questa parte io non avrei voluto fare nota. Sono costretto a dirlo di fronte alla falsa affermazione di S. E. De Bono, con la quale egli mi attribuisce la dichiarazione fatta a lui, ecc. ecc. ». Più tardi fu scoperta una corrispondenza clandestina del Dumini, dal carcere, nella quale si profilavano nuove minacele e rievocazione di promesse riferite all'» uomo del Viminale » ed all'» uomo di palazzo Chigi ». L'Alta Corte contestò la cosa al Dumini e questi rispose (volume 2.0, foglio 171 : che « l'uomo del Viminale » era l'on. Finzi, gin morto e sepolto come sottosegretario da molti mesi, e «l'uomo di palazzo Chigi» era... un impiegato da cui il Dumini avrebbe avuto delle .indicazioni per certi viaggi all'estero!! La verità è che la chiamata di correo si profila inequivocabilmente, così nel sistema defensionale di Amerigo Dumini come in quello del Filippelli (il quale ha confermato il famoso memoriale), come in quello del Bossi (il quale, pur facendo riserve non ben precise sul suo memoriale, ne ha ribadito il contenuto ripetutamente, inflessibilmente). Un colloquio al Viminale Ma vi è ben altro. Nel memoriale difensivo sottoscrìtto e depositato dal senatore De Bono, si legge che il 12 giugno 1924, dopo le 23 De Bono riceveva al Viminale, presente ]•„„' Finzi, Bossi e Marinelli, che avevano sollecitato un colloquio. 11 memoriale così narra- « Riproduco pressoché testualmente il colloquio. « Bossi? — Così volete proprio arrestare Dumini e gli altri? • « De Bono : — Perchè no ? «Rossi: — Fatelo per burla, teneteli qualche giorno e poi mollateli. « De Bono: — Perchè? « Bossi: — Perchè se no parleranno e diranno che è stato lui ad ordinarlo... « De Bono: — Lui chi? « Rossi e Marinelli: — Il presidente. « Finzi eri io scattammo. Rossi insistette ed il Marinelli dichiarò che, avendo saputo da Rossi il proposito manifestato dal presidente di liberarsi di Matteotti, si era mostrato vivamente impressionato, e perciò giovedì della precedente settimana si era recato da S. E. Mussolini a chiedergli se avesse ritenuto opportuno di istituire ima specie di Ceka per sorvegliare e tenere a freno gli avversari, mettendo a capo di essa il Dumini, Il Presidente, sempre secondo le affermazioni del Marinelli, avrebbe acconsentito. Di fronte a tale dichiarazione, io credetti opportuno di tacere (?!); dopo telefonai al presidente al quale dissi soltanto : « — Se la prendono con te... '. L'on. Mussolini, indignato esclamò: « — Vigliacchi, mi vogliono ricattare! ». Bossi e Marinelli hanno negato la verità di questo racconto, ma esso è stato ripetuto anche più precisamente dall'on. Finzi, in un esame testimoniale che la requisitoria del Pubblico Ministero dell'Alta Corte riferisce, consacrando, Ira l'altro, che, dopo le pi>lme battute di quel tragico dialogo n Marinelli per troncare il loro (di De Bono e di Finzi) stupore, disse concitatamente che il Rossi aveva ragione, perchè una diecina di giorni prima essi erano stati severamente richiamati dal presidente del Consiglio, il quale, incalzandoli con frasi violente, avrebbe detto che il Partito non aveva sensibilità politica 0 che, uscito vittorioso da una rivoluzione ed essendo al potere, era as. surrio che tutti i capi dell'opposizione potessero circolare indisturbati e compiere opera di denigrazione ed offesa a tutte le gerarchie del Partito e del Governo, e che tutta la liberta con la quale i capi dell'opposizione avevano violentemente inizilo la battaglia nello prime sedute della Camera dimostrava una decadenza nella combattività del Partito fascista ed una ripresa della attività avversaria, che bisognava in qualunque modo troncare. « Marinelli soggiunse che per questi rimproveri del presidente egli propose di costituire rapidamente e di finanziare, coi mezzi del Partito, un piccolo organismo segreto di aziono violenta, a capo del quale propose di mettere il Dumini ed il Presidente accettò. « Rossi soggiunse che qualche giorno dopo il Presidente, a Palazzo Chigi, si era altrettanto bruscamente lagnato del fiero discorso di opposizione tenuto dall'on. Matteotti alla Camera, ed aveva accennato al fatto, segnalato anche da giornali avversari, che lo stesso deputato avrebbe dovuto far seguire tra qualche giorno una nuova requisitoria contro il Governo ed il Partito. « Marinelli aggiunse che egli e Rossi, nelle ultime recriminazioni dal Presidente, avevano ravvisata la decisa volontà che al deputato unitario, e a qualche altro, dovesse essere resa ditncile l'esistenza. «A questo punto l'on. De Bono disse, con nero accento di sdegno.— e l'on. Finzi sente il dovere di farlo rilevare — che quanto era avvenuto era il tragico ma inevitabile epilogo di una situazione da lui condannata da tempo e di un sistema politico al quale invano egli si era ripetutamente ed in varie forme opposto. Aggiunse, alludendo al presidente del Consiglio, che quel benedetto uomo non aveva mal voluto ascoltarlo e che egli. De Bono, aveva detto che, essendo al. Gover* no, 'si dovessero usare esclusivamente mezzi di repressione legali e statutari ». Dumini e gl'incarichi all'estero I correi chiamano 1 correi. E i solidali — anche i più prossimi! — separano le proprie responsabilità. II « delitto di Stato » si profila netto e preciso, anche nel caso più tragico, dopo essere apparso altrettanto certo, anche se meno grave, nei cosi detti delitti minori. Nè può tacersi che l'Istruttoria dell'Alta Corte ha registrato altre rivelazioni del Dumini, che si debbono rilevare pur con tutte le cautele che il senso di responsabilità impone. Dumini ha precisato di avere avuti incarichi... del genere, da eseguirsi all'estero. Incompletamente — per fortuna! — ma li ha eseguiti. Precisa di avere avuto i fondi necessari da Finzi e da Rossi, quali funzionari di Governo. 11 secondo non nega; nè poteva: essendosi recuperate delle ricevute. Il primo nega di aver dato denari del Ministero degli Interni per illegalismi. Ma, incalzato, dichiara : « considero atti di illegalismo tutti « quelli che si compiono sul territorio nazlo« naie in dispregio delie leggi dello Stato. « Non considero illegalismi qualunque atto « che lo Stato compia, o faccia compiere, per « la difesa dell'integrità dello Stato ». (Voi. 2.o, foglio 202). E nel caso si trattava proprio di atti compiuti all'estero! Dumini stesso, nella lettera a Finzi del 24 lucilo 1924 (pure riservandosi di esporre e documentare tutto ciò a propria difesa) si preoccupava di far recuperare un suo memoriale corredato da copie di documenti e depositato all'estero la cui pubblicazione avrebbe potuto nuocere alle relazioni internazionali dell'Italia. Ma queste relazioni non avranno mal nulla a temere dagli scritti del Dumini; sibbene, e molto, dalle «missioni politiche» di cui egli è stato incaricato e la cui responsabilità deve essere addossata agli autori, e ad essi soli, per liberarne il Paese! Il "testamento,, Finzi Dopo di che non è possibile dubitare ctaa l'attività criminosa del Governo, sin qui descritta, non fosse l'opera di una organizzazione a delinquere. Sono le stesse persone che ordinano, preparano, eseguiscono. Le guida un fino comune. Le avvince un vincolo che esiste prima del delitio e non si scioglie dopo di questo. Ed è inutile attardarsi a stabilire come e quando l'idea della Ceka nacque; se e come fu precisamente definita nel funzionamento e nella composizione esecutiva. Le sue opere attestano che essa è esistita ed ha funzionato. Il resto è dettaglio. Basti rilevare che, mentre il P. M. presso l'Alta Corte spese diecine di pagine a negare l'esistenza della Ceka: l'Alta Corte si limitò ad escludere che ne facesse parte il Sena, tore denunciato. E, mentre il P. M. prese posizione nel contrasto fra l'on. Finzi, autore confesso di una famosa lettera testamentaria, e i testimoni (Schie-Giorgini, Silvestri, Emanuel) che di questa lettera precisarono il contenuto1 Alta Corte si è tenuta sulle generali. Mentre poteva e doveva essere molto pio severa contro le vane abilità del Finzi, perchè essa aveva sott'occhto altre deposizioni, in un certo senso anche più gravi di quelle dei tre testimoni soprano-minati; in quanto sono deposizioni rese da persone non avverse al regime dominante. Eccole: L'on. Grandi ha deposto che la lettera testatnentaria rivelava l'Intenzione del Finzi di nuocere al Governo quanto più possibile; e disse di ricordare che \1 si parlava di una Celta di cui avrebbe fatto parte Rossi e Marinelli (Voi. 1.0, foglio 77 retro e 136). Il senatore Morello (Voi. I, foglio 59 e segg.) depose che nella lettera un brano diceva che « Della Ceka doveva saperne più il presidente di lui. (Finzi) ». Aggiunse il senatore Morello di aver rilevato clic l'aver scritto quella' lettera era in netto contrasto con la richiesta fatta al Morello rial Finzi di procurargli un abboccamento co! capo del Governo. Ne tacque, i! senatore Morello, di aver rimproverato il Finzi quando questi lo informò di aver