Primitivi e noi

Primitivi e noi Primitivi e noi Mai più di oggi la questione dolio spirito primitivo considerato come sostanza eterna dell'arto u'ò trovata' ad essere di urgente attualità; anzi, si può dire che oggi soltanto, « oantotrent'anni dalla divinazione di Guglielmo Enrico Wackenroder, a circa ottanta dalla scoperta ruskiniana dell'essenza del processo artìstico nell'adesione mistica •Ila natura, essa sia etata risolutamente posta sul tappeto sotto la spinta della necessità d'una definizione. Mai come oggi, d'altra parte — che lo studio e l'ammirazione dei Primitivi minacciano di farsi infatuatone — sembra indispensabile determinare *— ad evitare che nelle arti figurative si ripeta ciò che è avvenuto nell'arte poetica eoo l'esaltazione del c fanciullino », dell'incompiuto, dell'accennato, doli'in te rionale etnonimo di ispirazione, dell''impotenza scambiata per lirica pura — i limiti in cui codesta ammirazione deve esser contenuta; chiarirò, per non cadere in equivoci funesti, i rapporti del nostro moderno sentire con quello dei nostri grandi anteetSBori ; stabilire tanto i confini e lo lontaHMtte ohe scargonsi da un belvedere storico Kto le identità abbracciate da un panofflosofloo. Ho detto € ad evitare *. Rettori ca del dimoilo. Che già il male da tempo serpeggia 0 non è più il caso di pensare a ripari preventivi, bensì di combatterlo ad armi corte. Siamo da qualche anno alla caccia di ingenuità. Una qualunque esposizione ce lo indie». Noi, decrepiti di civiltà e di espexionta, ci camuffiamo da bambini e giochiamo! — giochiamo coi colori, con le forme, con noi stessi. Poi quando, con ano ■fono dell'intelligenza, con una voluta rifatmeia • tutta i suggerimenti della pratica, s> tutte lo sottigliezze del mestiere (e arte, le scritto, in italiano prima di tutto significa mestiere), siamo giunti a schematùsere (a ttilizzaic, si dice adesso) un paesaggio in linee infantili e quindi povere come povero è il fanciullo che la tradizione romantica si ostina a far ricco, o a render giottesca e caricaturale una figura umana o bestiale sia dipinta che scolpita, allora siamo soddisfatti perchè persuasi d'esser tornati ingenui di fronte al vero, di fronte sJH'artc ; e non ci accorgiamo di aver fatto, invece che dell'ingenuità, dell'ironia, cioè la forma di tutte più lontana dalla natura di codesto non mai abbastanza benedetto bambino con gli occhi del quale ci ostiniamo la voler guardare, anche sapendo che il bambino spesso ci vede male. Abbiamo voluto esser pori ed abbiamo sacrificato gli attributi della virilità; abbiamo voluto esser semplici e siamo riasciti poveri. Ecco perchè, dicevo il problema dell'arte primitiva è oggi di tanta urgenza. Lasciamo sudare che intorno vi ed teorizzi ; ma qui è questione di pratica e di pratica di « giovani >, facili all'entusiasmo per un'idea finché quel tanto di buono che a tutte le idee degne d'entusiasmo appartiene, si tramuti in errore. Così quando io leggo a conolusioee d'un libro di capitale importanza nella definizione del pensiero estetico contemporaneo questa frase : » La sapienza del disegno, In sapienza del chiaroscuro, la realizzazione obiettiva delle cose rappresentate: ecco la morte dell'arte. Abbandonarsi alle proprie impressioni, esprimerle immediatamente, eon slancio, senza punto curarsi delle buone ■Ugole, nè di quelle imparate a scuola, nè di quelle che la ragione spontaneamente suggerisce : ecco la nuova alba dell'arte quale Cézanne intravide », — penso che se bene quest'alba sia poi tosto precipitata a motto fltlta, il punto d'arrivo del critico non è altro che il logico approdo delle sue premesse «volte con perfetta coerenza lungo tm tagliente orlo di abisso percorrendo il quale non bisogna neppure un istante abbandonare la mano di chi audacemente vi guida; ma se poi entro a girar per le sale d'una qualsiasi mostra di giovani, uno spavento mi prende a scorgere come questa o quella frase del teorico, avulsa, però, e pericolosamente staccata dalla visione d'insieme d'una condizione necessaria dell'arte, trovi rispondenza immediata nella pratica, e aia soltanto la sua esteriorità verbale a servire d'illusorio appaggio alla concezione (dell'artista. In guardia, dunque, a non interpretare alcuni elementi occasionali del modo espressivo di nn periodo artistico come postulati indispensabili ad ottenere i risultati caratteristici appunto di tale periodo. In altre parole: attenti a non identificare immaturità, inesperiet s,,> deficienza, con quanto questa immetti . questa inesperienza, e persino questa dw^fenza possono destare in noi di commozione" e a noi rivelare di ispirazione e di sincerità. Perchè il nocciolo dell'agitato problema dei nostri rapporti estetici coi Primitivi panni — o mi sbaglio — esser tutto qui: operarono i Primitivi secondo una norma cosciente che faceva l<fro apparire inutili i dati di fatto offerti dalla realtà naturale, o non piuttosto, tesi verso una loro visione interiore e non pure esperti a proporzionar questa con chiaro ed umano linguaggio alla realtà del mondo esteriore, benché in possesso di divine cose da esprimere dovettero accontentarsi, a palesarle, dei mezzi che tuia pratica non ancora compiuta forniva? E cioè: l'arte loro, così come oggi ci si rivela in tutta la sua immediatezza di sensazioni, freschezza di immagini, ingenuità di spirito, abbandono all'impressione, adorazione insomma insuperata del soggetto, è il risultato di un'intenzione di chi quest'arte creò, oppure esercita su di noi il suo faccino mirabile in virtù di quelle ignoranze, 4 quindi di quegli ardimenti, che le posteriori conquiste dell'aite cancellarono e che invece oggi a noi, assetati di sincerità, sembrano privilegio invidiabile di un'epoca? Furono j Primitivi dei fanciulli felici divinamente ispirati o furono dei saggi uomini guidati dall'arte ad agire da fanciulli; vaie ì dirA; !i nostra ammirazione per loro ha da esser relataiva od assoluta? (si badi che avanzando ancora una volta questo antico dubbio dai più recenti critici ritenuto superato non s'intende affatto abbassare l'arte dei Primitivi contrapponendola, poniamo, a quella dei Cinquecentisti, e tanto meno assumere un atteggiamento di Superiorità e di « divertita indulgenza per l'inabilità dpi bambini • ; ma di porsi semplicemente da quel pun'a di vista storico indispensabile ogni volta che si vorrà giudicare un'opera d'arte nei suo insieme e non soltanto secondo un lato o aspetto o frammento di essa). Esemplifichiamo. Bonaventura Berlingbic-ri dipinge nel 1235 la sua immagine di B. Francesco. Egli — conimenu il critici Idealista — « ha avuto una visione ascetica il coraggio di giungere alle estreme con¬ e r o e ? i l e , e ? r i , i r o e o i i a ¬ seguenze per esprimerla con assoluto rigore. Gli era necessaria la rigidezza dell'immagino ed egli l'ha accentuata in ogni modo, col corpo perfettamente verticale e sproporzionatamente alto, con la fine della tonaca nettamente orizzontale, con la mano benedicente aderente al petto, con lo sguardo fìsso nel vuoto, con la rigorosa simmetria dell'arabesco, ohe comprende orecchia zigomi, bocca, coi piedi diritti e sospesi sul terreno, con la simmetria accentuata dei due angeli laterali, col distacco cromatico della massa scura e compatta dell'asceta dagli episodi della sua vita terrena, chiari sminuzzati lontani. Di fronte a quel ricordo lontano di vita naturale, varia e sporadica, la visiono dell'immagine ieratica ha invaso lo spirito dell'artista, e tanto più si è individuata, e tanto più si è realizzata, quanto più è rimasta nel mondo della trascendenza >. Ad esprimere la sua visione mistica occorrevano dunque al pittore gli elementi rappresentativi dal critico identificati in rigidezza, fissità, simmetria, stacco cromatico, sproporzione ; essendogli necessari, egli li ha dunque scelti poteva, cioè, adoperarne altri, ma li ha rifiutati) ed ha avuto dunque « il coraggio • di valersene fino «alle estreme conseguenze » : — si è dunque comportato da artista perfettamente libero e cosciente, che dispone di tutti i mezzi dell'arte sua e li vaglia e li usa — tal quale come un moderno passato attraverso le più varie esperienze — a seconda delle circostanze. Sta bene. E allora ed domandiamo come mai quegli stessi elementi irrazionali e irreali che fanno davvero il fantasma del Santo « sublime per la forza di rivelazione divina che porta con sè » e nei quali il pittore ha riflesso la sua adorazione del soggetto, noi ritroviamo negli episodi narrati nello stesso quadro, tutt'intorno la figura di Francesco, con visione questa volta non ascetica ma assolutamente naturalistica della vita. Un passo innanzi, oltre la crisi naturalistica della fine del Duecento, in piena èra nuova. Giotto: Un miracolo di S. Francesco, nella chiesa superiore d'Assisi. Quattro figure e un asinelio, il Santo orante sulla montagna. La montagna è fuori della natura ; dice bene il critico confrontandola con una montagna di Tiziano: « non l'abbiamo mai riconosciuta in natura, e non la riconosceremo mai »; e soggiunge: « Nello stesso tempo, guardate; la montagna di Giotto è molto più semplice, la sua unità è più rigorosa ed assoluta, la sua vita spirituale è più immediata e penetrante, anche se meno complessa. Unità, semplicità, immediatezza sono sinonimi della presenza di Dio, ch'è diretta in Giotto e indiretta in Tiziano *. D'accordo. Se non che questa montagna così idealizzata che ci parla di Dio, è piena di preoccupazioni naturalistiche e puramente pittoriche. Gli alberelli, ingenui nel loro tentativo di lontananza prospettica, sono bellamente sparsi seguendo un motivo di verisimiglianza e si piegano al vento con disinvolta efficacia; ed anche nel suo schematismo la rupe tende a farsi realisticamente varia con gli accidenti delle frane e dei burroni, e strapiomba, a sinistra, con linea analoga a quella della montagna tizianesca nel Miracolo di S. Antonio. E che dire poi, passando alle figure, del particolare formidabilmente realistico del piede del viandante assetato? Onde sorge il dubbio, da questa serie di contrasti, che intenzione del pittore fosse di individuare la sua montagna non soltanto di fronte a sè stesso, ma anche, almeno fino a un certo punto, di fronte alla natura. Ma che si fosse in principio del cammino. Con ciò, il S. Francesco del Berlinghieri rimane ugualmente un grande capolavoro, e il paesaggio giottesco vive realmente in tutta la sua intensità una sua vita spirituale. Ma non perchè l'uno e l'altro pittore abbiano scelto consapevolmente mezzi atti a raggiungere tali risultati, bensì perchè appunto tali mezzi instintivamente e primitivamente usati sono per noi, . tti esperti da tutte le esperienze e ricchi di tutte le susseguenti conquiste, più densi di contenuto ideale, più religiosamente adatti ad esprimere una visione di realtà dello spirito, che non la semplice abilità a valersi dei modelli offerti dalla realtà di natura. Proprio come, trasportandoci in campo di poesia, i versi balbettanti, rudi, incerti, rozzi, involontariamente (insisto sull'avverbio) poveri e nudi del Pianto di Jacopone suonano a noi giganteschi di potenza espressiva, suscitatori di una commozione rara a trovarsi nei seguenti sei secoli di evoluzione poetica. Ed è su ciò appunto che si impernia la questione dei rapporti fra l'arte nostra e l'arte dei Primitivi, questione ohe involge gran parte della pratica pittorioa contemporanea. Perchè l'equivoco è facilissimo, e può avere le conseguenze più funeste. Quando si afferma che chi opera con amore e con umiltà è un primitivo e che in ciò ch'egli crea è presente Dio intendendo per Dio una particolare disposizione di cuore dell'artista per cui egli proceda come spinto da una forza maggiore di lui, da una emanazione divina, non s'intende con questo — come faceva notare di recente Nello Tarchiani — cosa diversa da quella che si chiama ispirazione o commozione, e che è veramente, dicevamo in principio, sostanza unica, eterna dell'arte. E al fuoco di questa fiamma inestinguibile si illumina la presenza dell'arte in ogni opera ove arte sia, senza distinzione di tempo, di individui, di scuole, e si distrugge invece, senza riguardo a tradizione, a prestigiosa abilità di mano, a insuperata perfezione formale, ciò che nell'opera soffoca la sincerità del sentimento e quindi l'arte : — fino a condannare, giustamente, il Cristo trisflgurato di RaffaelloMa l'errore è di credere che questo amore e questa umiltà, questa presenza di Dio e questa ispirazione, consistano nell'impiego di quegli elementi, propri dell'arte primitiva, che l'evoluzione del gusto e della tecnica, la progredita attitudine a vedere e a rendere con dati di natura una realtà dello spirito, hanno da secoli superato. Altro è farsi amoroso ed umile di fronte a) soggetto, antirazionale, antiscientifico e quindartista, altro è volontariamente rinunziare ai mezzi dell'espressione che gradatamente nel tempo arricchirono se non l'arte almenoil linguàggio dell'artista. Ricominciare ojrnvoi*a, individualmente, il eammino peri corso dalle generazioni è privilegio concesso jsoìlr.nto a qualcuno e necessità particolar'il qualche momento storico: di solito significa perdita di tempo, anacronismo, con cettualismo, perchè vuol dire foggiarsi un abito esteriore in contrasto con ]a verità dell'intimo, propria del tempo in cui questo intimo vive. Porsi quindi, spiritualmente, rispetto all'art* ed alla vita, nello stato di grazia e del Primitivo — stato cioè di freschezza o di ispirazione —, sta bene : prenderlo pittoricamente a modello, nulli sua ingenuità, assolutamente no. Perciò a> pittore entusiasta dell'arte primitiva noi ci permettiamo il consiglio: « Sii primitivo, se vuoi ; non fare il primitivo 1. MARZIANO BERNARDI

Persone citate: Berlinghieri, Bonaventura Berlingbic-ri, Guglielmo Enrico Wackenroder, Primitivi

Luoghi citati: Assisi