La signorina che vinse il sonno delia morte sulla montagna

La signorina che vinse il sonno delia morte sulla montagna a r e a r n , l o l , , a a i e o o o Dopo tre giorni e tre notti passate in una spaccatura di roccia sul monte Colombo, con un ferito grave da vegliare e con la minaccia di essere trascinata da un momento all'altro dallo sfinimento e dalla vertigine nel sottostante precipizio, la signorina torinese Emma Stuardi, reggente dell' Ufficio postale della Barriera di Casale, ha ieri finalmente dormito nel proprio letto. Ha dormito di un sonno profondo per poche ore, poi 6i è svegliata di soprassalto; aveva sognato di cadere in una voragine. La cameretta della gentile alpinista L'incubo durava ancora. ABora ha voluto che le venissero vicino 11 fratello e la, cognata, ha fatto aprire le Imposte perchè nella 6tia cameretta irrompesse il gole ed 6 stata presa da un prepotente bisogno di parlare, ancorché i dottori le avessero Ingiunto laquiete e 11 silenzio. La signorina malgrado queste prescrizlomi della scienza ha voluto rompere 11 terribile silenzio che in tre giorni si è andato accumulando nel suo cervello. In quelle terribili ore il suo cuore soltanto era stato sempre ail'eria, vigile e materno, tutto teso verso i battiti di quello del compagno ferito. Ho trovato la signorina in ottime condizioni fìsiche e moralL Essa deve essere certamente di una fibra eccezionale. Poco tempo è passato dall'angosciosa tragedia e la sua irrequieta vitalità le scintilla nuovamente negli occhi vivacissimi. Mi ha ricevuto con un sorriso cordiale, tendendomi la mano con una spontaneità cri po' maschile che le proviene dal rude esercizio fisico della montagna. Una reticella di seta rossa le tiene composti 1 capelli biondi. L'aria dei due mila metri le ha arrossato leggermente la pelle del viso, al quale, un nasino marcatamente « francese », conferisce una espressione di curiosità continua, piacevolissimo. La cameretta, dentro la quale la signorina deve muoversi con la spigliata energia con la quale ci si muove nei rifugi, è piena di ricordi di montagna: fotografie di ghiacciai, fiori alpini piantati nelle cornici degli specchi, un paio di pantaloni per escursioni su una sedia, su un'altra un ben affardellato sacco da montagna e una « salsiccia » di diciassette metri di corda manilla. Invece delle matite per le labbra e per gli occhi, vedo presso la toeletta una robusta picozza. Ad una parete ci sono anche fotografie di guerra fatte dal fratello, capitano degli alpini. La famiglia Stuardi è una famiglia di arditi. La stampa ha narrato Ieri 'dettagliatamente la tragica avventura alpina deQla quale appunto sono stati protagonisti la signorina Stuardi e il signor Vincenzo Grassa, segretario dell' «Uget«. Essa è troppo presente nel ricordo del lettori per ripeterla. Interrogo subito la signorina sulle 6ue impressioni personali. Una nottata In ginocchio f-* Tre episodi — mi risponde — sono particolarmente scolpiti nella mia memoria. L'attimo nel quale è caduto il Grassa, l'arrivo dei cacciatori, e il mio incontro con il signor Berrà, dell'Uget. Quando ho visto « papà Borra » come lo chiamiamo noi, gli sono saltata al collo, l'ho baciato e mi sono messa a piangere. Nel «nido di aquila* dove son rimasta da lunedi alle due del pomeriggio fino al mattino del giovedì, non avevo mai avuto un istante di debolezza Come è caduto il Grassa? — Non lo so. Aveva già superato una" cornice di roccia e non lo vedevo più. Ad un tratto ho sentito allentarsi la corda alla quale ero con lui legata e improvvisamente l'ho visto precipitare. Avevo il viso e tutto il corpo ben aderente alla parete. Alle spalle c'era il precipizio. MI 60no afferrata con le unghie ad alcune scaglie dt granito ed ho atteso lo strappone. Quando questo è avvenuto mi è parso che mi 61 rompessero le reni. Ho guardato in giù senza muovermi, u corpo del mio compagno penzolava nel vuoto. Allora, piano piano mi son lasciata scendere anch'io; il Grassa mi faceva da contrappeso, e la corda è scivolata sulla reeeia come su mia carrucola. Quando sorto giunta all'altezza del ferito, con ogni cautela mi sono avvicinata a Ini, ho afferrato la sua giubba e ho tirato 11 6uo corpo verso di me. Compiuto questo lavoro ho adagiato il Grassa su una sporgenza di roccia e mi ci son posta vicino. Il mio compagno mi 6i è abbandonalo svenuto fra le braccia, .sono rimasta così per molte ore, senza muovermi. Il più piccolo movimento avrebbe potuto provocare uno scivolone fatale. Ad un certo punto le gambe mi si sono intorpidite ed ho dovuto spostare con ogni cautela a fe. rito. Dalle sue spalle però non ho potino iot'!iere il sacco da montagna. Dal mio invece ho pr^o de'le bende e del cotone e gli ho falciato il capo che era ferito. Avevo ancora un po' di marsala e glie l'ho dato. Ho anche trovata una lampadina e l'ho accesa con la. speranza che qualcuno mi vedesse. La prima notte l'ho passata quasi tutta in ginocchio. All'alba il ferito che era completamente in sè parlava. Parlava con una voce rotta e soffocata. Parlava e piangeva « Mamma — diceva — povera mamma miai ». Parecchie volte ha anche pronunciato il mio nome : • Povera signorina Emmatutto per causa mia. Io morrò, ma che cosa ne 6arà di lei? ». Nel canalone dov'eravamo precipitati non arrivava un raggio di sole. Nel pomeriggio abbiamo cominciato a soffrire la sete. Ho messo un bicchiere di latta sotto una roccia dalla quale stillava una goccia d'acqua. Dopo molto tempo il bicchiere era appena inumidito. Verso sera vi eran dentro due dita d'acqua. Ho fatto un po' di the che ho dato al ferito. 11 giorno seguente è stato più terribile. 11 Grassa, che aveva la febbre, 6i agitava. Ho dovuto raccogliere tutte le mie forze per tenerlo fermo, se le sue smanie si fossero accentuate saremmo precipitati tutti e due. Le 6ue gambe urtavano nei movimenti lncompostl contro un easso che ci tratteneva, messo in bilico sul precipizio. Un 6onno terribile ha cominciato a produrmi degli incubi e delle vertiginL Ho dovuto compiere uno sforzo enorme per non addormentarmi. La voce che si spense — Vetchè non ha tentato di discendere? — Non avrei mai abbandonato il ferito, anche potendolo. All'imbrunire ho sentito dei passi sulla cresta, una ventina di metri sopra di noi. Ho raccolto tutto il mio flato ed ho gridato. Una voce mi ha risposto. Il cuore mi si è allargato. Eravamo salvi. La voce però dopo un poco non st è più fatta udire e i passi si sono allontanati. Dovevamo passare una seconda notte sulle roccie. Il ferito peggiorava. Le poche goccie d'acqua non bastavamo a lenire la sete terribile. Ho seguitato ad agitare la lampadina elettrica con la speranza che qualcuno la vedesse. La seconda notte è stata interminabile. Il ferito ha seguitato a gemere e ad invocare la mamma. I 6uoi occhi sempre chiusi erano macchiati da grumi di sangue e un rivolo di sangue gli grondava da un'orecchia profondamente ferita. Non avevo più acqua nè per Inumidirgli le labbra, nè tanto meno per lavarlo. La posizione incomoda che ero costretta a tenere mi procurava dei crampi atroci alle gambe e alle braccia. L'assillodella sete diventava insopportabile. Dopo avermi fatto promettere dal ferito che non si sarebbe più mosso e che non avrebbe più tentato di strapiparsi la fasciatura che gli avevo fatto attorno al capo, mi sono arrampicata su una roccia e ho chiamato al soccorso, con tutto 11 flato che mi rimaneva. Ho gridato per delle ore, inutilmente. In fondo al canalone, tra 11 verdeggiare del prati vedevo luccicare l'acqua del lago Lazin e morivo di sete. Son tornata presso al ferito, scoraggiata, affranta. Nel pomeriggio mi 6on posta nuovamente ad invocare al soccorso. La salvezza «■Questa volta una voce mi ha risposto, e dopo qualche tempo due cacciatori scendevano coraggiosamente nel canalone e arrivavano fino a noi. Eravamo salvi per davvero, questa volta. I due uomini hanno formato con dei frantumi di toocìa una specie di gradino sul quale hanno adagiato II ferito, hanno riempito la mia boraccia di grappa c quando imbruniva sono discesi promettendomi di tornare appena spuntasse l'alba. La terza notte non è stata cosi atroce come le precedenti. Al mattino, verso le otto, ho udito le voci degli uomini clic hanno composto la carovana di soccorso, echeggiare per la montagna. Al loro richiami essi univano il mio nome e quello di Vincenzo Grassa. Ho riconosciuto gli amici dell'«Uget». Dopo qualche ora, come le ho detto, abbracciavo piangendo « papà » Berrà, e il ferito, adagialo 6Ù una barella, veniva calato con le funi, giù per le roccie... » E la signorina Emma Stuardi, schermendosi dai complimenti e dalle felicitazioni, mi dice: « E' la montagna ohe ci ammaestra e ci addestra alle fatiche, la montagna alla quale voglio tanto bene...». E dicendo cosi, volge lo sguardo al suo sacco e alla sua corda che ha sorretto lei e il 6uo amico, sull'abisso. Il sole, entrando nella cameretta, fa scintillare gli specchi dentro le cornici dei quali biancheggia il morbido velluto delle stelle alpine. ERNESTO QUADRONE **# l i li La signorina che vinse il sonno delia morte sulla montagna

Persone citate: Emma Stuardi, Stuardi, Vincenzo Grassa

Luoghi citati: Casale, Monte Colombo