I FIORETTI

I FIORETTI ®FRANCESCO I FIORETTI Non c'è, ai può dire, ciliare che non fibbia in questi giorni allestito una sua edizione dei Fioretti; o ad ognuna il successo 6 grande. Un editore fiorentino, ha per parta sita, venduto del libro, in poco più d'un anno, circa 36 mila copie. E i Fioretti si ristampano da tutto lo parli. Come mai tale e tanfo fortuna? Creazione originalo del popolo italiano, il popolo ritrova ned Fioretti la parte migliore di sè. Appunto per ciò, in tanto selvaggio tumultuare di passioni e di odi, ritorna ad essi con desiderio accorato. La grande originalità creatrice delle religioni e delle epopee è spenta, ma la poesia che aleggia da esse non muore mai. Il popolo italiano non ebbe epopea erodoa corno ebbero il francese e il tedesco. Riplasmò sì e feco propri Rolando e Olivieri, e le immagini loro scolpì, come a Verona, perfino sul portale delle sue chiese ; ma la vera originai sua epopea fu d'altra natura. Fu la francescana. E il momento veramente epico di essa fu l'anno del grande allrìuja. Roma non fu ohe ricordo di chierici e di letterati ; i] francescanesimo « il desiderio e l'esaltamene della pace fino al delirio furono movimento di folle. L'espressione più significativa di questo movimento sono i Fioretti. Chi non conosce che sia stato il dngento italiano, e come il popolo si affollasse nelle piazze con egual desiderio ad ascoltare i cantore* jraneigenarum e gli ioculatores Domini, celebranti con pari voce la santa pesta di Carlo e quella di Franoeceo, non potrà mai intendere 1'a.mbicnte onde sono sorti i Fioretti. Ma lo intere fin dal primo momento l'uomo oui fu dalla Chiesa affidata la protezione e tutela del nuovo Ordine. Scendendo nella Pasqua «di rose del 1221 da Perugia a visitare i frali radunati a capitolo nel piano di Santa Maria degli Angeli ; — quasi cinquemila frati, divisi a schiere, seduti su dello stuoie, e tutti occupati « solamente in ragionare di Dio, in orazione, in lagrime e in esercizi di carità; e stavano con tanto silenzio e con tanta modestia rhp ivi non si sentia uno ronioro, nò uno stropiccio» — meravigliato «di tanta moltitudine così ordinata, con lagrime e con grande divozione », il cardinal Ugolino esclamò: « Veramente questo si 6 il campo e lo esercito de' cavalieri di Dio ! ». E cavalieri di Dio nel senso vero i frali minori si sentirono fin dal primo momento. Cavaliero era stalo il lo ro fondatore, c con linguaggio cavalleresco aveva loro sempre parlato. La Riforma della Chiosa gli si presentava corno una grande gesta cavaileresca, e lo imprese dei paladini di Francia stavano noi piano istesso che gli atti dei martiri. « Carlo imperatore, Rolando e Oliviero e tutti i cavalieri e robusti uomini elio furono potenti in guerra combattendo contro gli infedeli con molto sudore e travaglio fino alla morto, riportarono su di essi una vittoria memoranda, e da ultimo essi stessi fatti martiri morirono per la fede di Cristo in battaglia ». Cavaliero e poeta, impresse del suo suggello lo spirito de' suoi figli e lasciò in essi un'impronta purpurea come le sue piaghe. Non si cancellò pift. Dopo la morte del Santo — quasi volevo dire dell'eroe — fiero lotte scoppiarono per l'interpretazione c rosservanza della Regola di lui. E i frate! li buttarono in esse tutto l'animo loro. Quel li tra essi che più erano vissuti nell'intimità del padre, ohe ne avevano raccolta con devozione filiale e registrata fedelmente nella memoria ogni parola, non si potevano persuadere ch'essa potesse in alcun modo essere modificata o fraintesa. I Compagni di lui, Leone, Angelo, Rufino, diventarono così i testimoni e i custodi .gelosi del suo pensiero. Si ocrivèvano sempre nuove Vite, ma nessuno scritto poteva raccogliere tutta quella vita, e in ogni scritto andava per dolorosa necessità ( smarrita la parte più bella di lei. Chiunque scrivesse, la parola scritta era tempre inferiore a quella grandezza e a quella bellezza. « Certamente nui cho fummo et stemmo con lui, non lo potremo mai ne con parole nò con lettere esplicare nò narrare », dice a un certo momento un'antica narrazione, che in questo punto deriva certamente dai Compagni e rappresenta con fedeltà l'intimo loro pensiero. Ogni fratello del resto — pur bevuto appena ch'avesse alle fonti pure del francescanesimo — questo chiaramente sentiva ; e sentiva insieme come, per riguardi umani, negli scritti fino ad ora apparsi non tutto del Santo si era scritto. Così negli eremi solitari, per i gioghi boscosi dell'Umbria, dello Marche, dell'Abruzzo, dove, gli amanti feroci — è la parola — di Madonna Povertà si erano rifugiati per poter liberamente striugere tra i propri amplessi la sposa divina, la parola liberamente tramandata di fratello in fratello a ricordar quella vita, a celebrar quegli amori, diventò parola sacra. Alterarla, deformarla, era alterare, deformare la verità, e perciò sacrilegio elio nessun buono figlio di padre Francesco avrebbe per nessuna ragione commesso. La passione entrò certo anche in quei racconti, ma entrò per la sincerità stessa dei raccontatori, che li accendevano di tutta la fiamma della loro passione; il meraviglioso colorì spesso quelle narrazioni, ma le colorì per l'ingenuità stessa dei narratori,'senza che essi pur so ne addassero, anzi essendo essi i primi a credere fermamente ciò che raccontavano. Avvenne così dell'epopea francescana quello che di ogni altra epopea: documenti nel tempo stesso del passato che raccontano e della vita contemporanea per la quale 6ono scritti. Cosi spuntarono, nulla fine del secolo XIII, i Fioretti, o meglio sorso la scrittura latina , fgli Aetus), donde essi por buona parte derivarono. Chi li raccolse? Per qualche capitolo si può accertare. Fu un frate Ugolino di Monte Giorgio nelle Marche, cho visse nella seconda metà del dugento. Ma molti capitoli risalgono direttamente ai compagni più intimi del Santo (I«/ne, Masseo) e ai primi discepoli di questi. E sono i capitoli più vivi e più belli e più importanti, perche conservano — dice bene il padre Bughetti — tutta la vivace santità, lo sprezzo del mondo, l'amore alla povertà, lo slancio verso Dio, ch'erano divenuti sangue della loro vita, atteggiamento spontaneo, continuo impeto amoroso o giocondo della loro anima. Come si tramandarono o furono scritti questi capitoli? Per farlo chiaramente capire addurrò un esempio, ma non tratto dai Fioretti che tutti conoscono, sì da un altro libro che so formalo su per giù nello > tempo e nello stesso modo. Compilagercaò tfop, per quanto riguarda il lodiesvounveindufrnicelecotaraitun« frinchtesusadiinacbSqEpscerledeb« fatastbgimdig« ogtunzichdeSresel'igichpl'aSiredozae il inspbHvindAcolapntuOstefeSmqncodzdapdpfqrdttflGbomApcfriltedqdmoèscrpssmriMdtclcCasmmrRlstell o l o a o i o n o l loro valore storico, non si possono mai giudicare nel loro insieme, ma delle quali dove essere fatto giudizio pezzo per pezzo, e a volto pjurfLiio periodo per periodo. Ecco qui un'antica scrittura abruzzese, pubblicata vent'anni fa, che il suo editore malamente intitolò « La legenda antica*. Ascoltiamo dunque quello che, secondo essa, raccontava fra Tommaso da Pavia, « il quale era stalo niinisi.ro di Toscana», e « affermava e diceva di aver udito » il suo rac/wulo « con le sue proprie crecchie da frate Stefano, compagno di Santo FraiHPsoo ». Raccontava dunque — nessuno mi vorrà male se ranimoderno un po' il testo e lo rimetto in italiano — di essere stato per più mesi in un eremitorio con il Santo, dove egli aveva « la cura della cucina e della mensa dei frati ». Buoni frati, i quali se ne «stavano in silenzio o. in orazione infmo a che eirli li chiamava per suono 'di tabella (il testo dice : tenia, c.h'ò la tabella o raganella che si suona in chiesa per jrli ufizi la settimana santa) a mangiare. Ma prima di essi usciva di cella il Sauto, e all'ora di terza passava in cucina, e se non ci vedeva ancor fuoco acceso, « andava per l'orto e coglieva una brancata di erba ». Poi chiamava frate Stefano, in silenzio. « Va e cori alquanto questa erba, e borio pranzo verrà a li frati». E frate Stefano eoceva « con alcuno ovo e poco cacio», avuto per carità. Modesto e scarso cibo, ma che al Sauto e ai frati, tanta era la ln.ro letizia, pareva pranzo succolento. Poi il Sauto diceva: « Io lodo la prudenza del mio eiioiniero, che ha fatta sì bona e grande pietanza ». E soggiungeva : « Tu hai fatto assai oggi; domani non ci fare niente, perchè c stata grande pietanza, e non si conviene ai poveri di Cristo ». Sì che frate Stefano, « volendo obbedire il suo comando in ogni cosa », il giorno appresso «nulla faceva nè eoceva ». ma allestiva la mensa « con pochi pezzetti di pane ». Pure il Santo mangiava «con gran letizia » lo stesso. Ma poi diceva: « Frate Stefano, perchè tu non ci hai fatto oggi da mangiare? ». E Stefano: « perchè tu. Padre, mi dicesti che non facessi niente ». Ma il Santo: « Buona è la discrezione, e non è sempre bene adempire quello cho si dice ». Or come dubitare questo racconto non derivi direttamente dai Compagni del Santo? E non è colta qui, come nei Fioretti, proprio la fisionomia di lui, e fatta sentire, non per arte di narratore, ma per l'intimo della cosa, la poesia che si sprigionava da lui? La poesia di que' pranzi, che le mense erano spesso apparecchiate presso la siepe, mentre un usignolo dall'albero vicino cantava assai dolcemente! Si riscoteva il Santo, e poiché frate Pecorella di Dio non aveva voce per tener bordone all'uccello, si provava lui. E « comenzando egli a cantare, il rosignuolo taceva, e finito che aveva il canto Santo Francesco, il rosignuolo ripigliava » il suo. Così a gara in quella dilettazione spirituale sino al vespsro. Nei giardini di Dusseldorf, mentre brillava intorno la primavera, e Arrigo Heine giovinetto si dimenticava nella vita dell'ingegnoso hidalgo della Mancia; nella novella del Maupassant, nel romanzo dell'* Innocente», e nemmeno dinanzi ad Adone estasiato, l'augello npn cantò mai come quando di ramo in ramo volò «sopra a la mano di Santo Francesco» e bezzicò il pane ch'egli gli porse. E' l'eterna poesia francescana, ohe spasso neppure i grandi virtuosi della penna, con tutte le loro maestrie seppero raggiungere. Or la grandezza e la verità dei Fioretti sta appunto nell'aver essi, per consolazione eterna degli uomini semplici, raccolta e fermata questa poesia. E chi scriva del Santo e prescinda da essi, non intenderà mai il Santo, ne farà mai storia di lui. In quanto poi a misurare fino a che punto se ne possa servire, e dove la storia finisca e' cominci la leggenda, qui sta veramente « la discrezione » del critico. Ma anche la discrezione — lo abbiamo udito dalla bocca stessa del Santo — è virtù francescana. Sventuraniente dei Fioretti non abbiamo ancora un testo critico, e molto per questa parte rimano da fare. Per intanto, delle nuove edizioni in questi ultimi mesi pubblicate — che di questo sole intendiamo far cenno — i lettori si possono fidare a quella del padre Benvenuto Bughetti (Firenze, Salarli), cho per sicurezza di testo e di note, ampiezza di fioretti raccolti e per tenuità sorprendente di prezzo, mi pare di tutte la migliore. Con molla cura e con informazione se non pieni assai buona, ha allestito una notevole edizione anche il prof. Gerolamo Bottoni, e l'ha adornata di molte belle figure. Edizione anche questa sotto ogni rispetto meritevole di essere raccomandata. (Milano, Signorelli). Edizioni di maggior lusso ci forniscono Angelo Sodin i (Milano, Mondadori) e la professoressa Fausta Casolini (Milano, Giacomo Agnelli). Adornano la prima una folla di illustrazioni, scelte con assai signorile discernimento, e tutto rivela nell'illutratoro un uomo d'ingegno o di gusto. Ma la ingombrano nel tempo stesso una quantità di passi presi da scrittori francescani e non francescani, grandi e meno ohe mediocri e spesso balbettanti nel loro vaniloquio, i quali accrescono inutilmente la mole del libro. E per tralasciare i minori, che si meraviglieranno essi stessi di così sontuosa ospitalità, che francescanesimo e quale arte è mai quella di Gabriele D'Annunzio, che, senza inspirazione, ma con reminiscenze continuo di Dante e con giochi futili di parole comincia il suo pezzo «La città di pietra e di fede »! bravamente così: «Assisi! Era poco innanzi l'alba, quando io saliva la « fertile costa». Non dirò Ascesi, ma Oriento, sin che le pupillo e l'anima si ricordino. Era la vista ed era la visione ». Ma può bastare, perchè, forse oc n'è anche di troppo a persuadersi della falsità d'un'arte senza sentimento e senza fantasia. Ricchissima di note è pure l'edizione della Casoletti, che si è già preparata a questi studi con una buona versiono delle Legende del Celano, e cho mostra, so non padronanza ancor sicura dell'amplissima materia, molto studio e molta serietà. E il buo 6 il commento forse più ricco di tutti. Ma le edizioni dei Fioretti non. si fermano qui, © a volerle inseguir tutte ci sarebbe da fare ancor» parecchio viaggio. Ranunenterò solo per l'elegante signorilità la buona edizione del Passerini, adorna delle silografie del Razzolimi (Società editrioe toscana di San Casoia.no Val di Pesa), e, anche se non l'abbia potuta vedere, per lo sfarzo suo, quella dell'Argentieri di Spoleto^ Carta fìlogranata a mano, illustrazioni speciali del Boudelot, disegni a piena pagina, caratteri disegnati apposta e poi qcoCrsGpcmp« pucfo«bdIsmddmnddLnèsdVzgPijscnsnltlspeernnlddprsna immediatamente distrutti. Rarità bibliografica da star a pari con le grandi edizioni francesi del Bumard e del Denis, e la spagnola del Segrolles. Ma sono lussi che nulla aggiungono alla poesia del libro. La poesia ò nella vita cho quei semplici vissero e che il libro racconta con tanto angelico candore. Apro la C/ironica dove uno di quei frati che furono a quel capitolo dello stuoie di che più sopra si è parlato, descrivo il viaggio in Germania dei primi compagni. Or fu appunto in quel capitolo che frate Francesco stabilì d'inviarli lassù. In Germania avendo i frati chiesto alcuna volta pano e tetto, si sentirono rispondere: «ià». « E vedendo — traduco alla meglio — che per questa parola essi venivano trattati umanamente, ad ogni interrogazione decretarono di rispondere ià». Interrogati se fossero eretici di Lombardia, risposero «ià»; furono battuti, spogliati, messi alla berlina, incarcerati. In Ungheria i pastori lanciavano loro dietro i cani e li tormentavano con la punta della lancia. Forse — pensò un frate — ci maltrattano così perche vogliono le nostre tonache. E gliele dettero. Ma quelli non smettevano. « Forse anche vogliono avere le nostro tonacho di sotto ». Ti kì spogliano ancho di queste ; ma quolli peggio. « Forse vogliono avere anche le nostre brache »; gli dettero anche queste, e allora solo quei feroci cessarono dalle percosse, * et nudo» abire permiserunt ». Ma dare le brache ad alcnno noiava forte; le insozzò di sterco di bue e d'altre immondezze, e i pastori, avendone schifo, gli lasciarono le brache. E oosì nudi o seminudi, per il clima rigido di Germania o d'Ungheria i primi frati se ne andarono cantando ad alte voce le lodi di Dio. Joculateres Domini. Queste fu l'epopea francescana, e per essa i cavalieri di Madonna Povertà vivono eterni. U. OOSMO.