Fra tombe e castelli

Fra tombe e castelli Fra tombe e castelli FIRENZE, Maggio. I viaggiatori si sono scambiati gli ultimi saluti e dato lo ultimo stretto di mano; l'eco dell'ultimo canto goliardico, cho gli studenti hunno intonato prima di separarsi, st perdo per l'ampiezza della piazza e tra il rombo dello automobili; io, mentre mi avvio solo all'albergo, ritorno, com'è mio costumo, a riguardare dentro 'di me. Ma anche ora, mentre una stanchezza spossante mi salo su fino al corvello e quasi mi prostra, ritrovo in me lo stesso senso che mi accompagnò sempre durante lutto il viaggio: ammirazione c sgomento. Pur d'ianzi, nel carrozzone che ci trasportava, un giovanetto continuava a declamare versi alle fanciulle che gli sedevano presso. E non aveva fatto altro in quelle ultinlo ore di percorso da San Gemignano a Firenze. Versi e versi, corno gli tornavano a mente, recitati con grande enfasi e plastico rilievo. Ed io, di.sloEo da' miei pensieri, ero rimasto, di tratto in tratto, li ad. ascoltare, meravigliato di tanta facilità. Ma pur in quel distoglimenio avevo sentito una intima corrispondenza tra quell'ingenuità di celebrazione poetica e il corso de* miei pensieri. Con quella celebrazione il fanciullo affermava anch'cgli la forza dominatrice dell'afte sulle vicende dei secoli e dogli uomini. Unica forza. Mi sono inerpicalo sulle rocche che gli Etruschi aiutarono, sul Castello di Populonia, sullo mura di Volterra-, — massi immani, ciclopici, accatastati gli unii sopra gli altri. E lo fabbricarono cosi in alto, le co strussero cosi enormi, per sentirsi e per esse ro in eterno sicuri. Poi, quando si sentirono beno sicuri, per diventare iricchi, discesero al piano, scavarono la terra, cstrassero il ferro, ne foggiarono armi, aranarono narvi, percorsero mari, in ogni lido più lontano portarono i propri prodotti E ai loro lidi convennero mercanti fenici, cartaginesi, gre ci, uomini di ogni paese. Ed essi si credettero o furono potenti. Intorno ai porti 'dovo lavoravano, la materia grezza ch'essi sfioravano appena por estrarne il minorale, si accumulò a montagne. Ma su quei poggi rinverzicò la terra, spuntarono 1 fiori, creb bcro gli alberi, e fu una festa di colori. Ed allora essi (riscavarono in quo' poggi cho avevano costrutto, c li scavarono per farse ne tombe. Grandi tombe, a foggia di camere circolari, ove si penetra per un corridoio, lungo, basso, stretto, nel quale si aprono, di tanto in tanto, dei piccoli stanzini. E in quo sii il corredo del defunto, come fosso una spnsa: argenti, ori, d'ogni sorta e di ogni materia stranienti; e sul copercliio dell'avello la statua dal sepolto a ricordarno in eterno lo fattezze. Grandezza, ricchezza, sfarzo. Appollaiato sui massi delle suo rocche, spingendo l'occhio per la vastità sconfinata di ■terra, di mare, di ciclo, che gli si stendeva dinanzi, l'Etrusco potè dire: ò mio. Di sotto VscpvlnrpnnEvacanncsgg.tsqLmgmhnlleìMepcgvdfisMsnedferveva ,1 lavoro, per il maro lo navi parti-1 mrvano e tornavano ricolme; tutto dunque era suo. Ma nella storia del mondo i secoli si contano appena per oro. Che è rimasto di tanta potenza? Qualche frammento di mura, qualcho porta di città, o un numero sterminato di tombe. Tombe a pozzetto, dei primi secoli, tombe a camera, monumentali, tombe di umile gente o di ricchi fastosi; tombe, ove si raccoglievano lo ceneri o si seppellivano i cadaveri; ma tombe sempre, e null'altro. Davanti allo più ricche stavano effigiati leoni e chimere, perchè piede sacrilego non le osasse violare, nò mano ladra si allungasse a votarle. Le credenze e gli dei etruschi sono caduti infranti, e l'uomo moderno, per la curiosità di sapere, tutto invade e tutto profana. Archeologlù e storici hanno battagliato in questi giorni intorno alle origini di questo popolo. Ma a me, mentre dall'alto di Populonia stendo l'occhio su quella distesa di sepolcri, non importa più di sapere so gli Etruschi siano scesl dallo Alpi o venuti per mare; — ciò che mi sgomenta in tanta ampiezza di cimitero, è come questa gente sia sparita. Crollati i santuari, cadute le case, diroccato lo mura, sparito ogni vestigio di vita; non altro cho sepolcri. Ogni altro problema svanisce dinanzi a me, e sento lo sgomento della storia. Ma questo sgomento mi dice quello clic il Cristianesimo fino da fanciullo mi aveva insegnato : tutto è vanità « Vanitus vanitalum », perchè nulla, ricco o povero, umile o potente clic sia, abbia schiacciata tu la cervice di popoli, o l'abbia tu piegala eotto il tallone dlun altro, nulla ti salva dallo sparire. Sparire conio sono sparito tutto lo potenze del passato, come è sparita quella stessa che ha abbattuto questa che rievoco pensoso, appartato da ogni persona, qui, seduto sopra un rudere del castello, con davanti l'infinito del cielo e del mare, e con sotto la strettura di una tomba. % M'aggiro in Volterra per lo sale del Musco. Una sequela che non so conture di figuro d'uomini e di donne: busti e statue che si mettevano, in i^teggiamento di sedere, sopra i sepolcri, perchè ricordassero ad amici e pienti lo fattezze dei defunti. Ma quei visi di ignoti, lutti eguali nella loro indifferenza, non dicono nulla. Un solo gruppo mi ferma Un uomo e una donna si guardano intensamente, come se, morendo, si siano voluti imprimerò negli occhi l'immagine l'uno del l'adira e il ricordo del loro amore. Ma il loro amore non ririve ora in me, se non perchè l'arte ù riuscita questa volta con l'efficacia della sua forma a fermarlo. Ove arte non c'è, non c'è nemmeno interesse, e .passo via distratto. Non mi domando chi fu questa gente, penso che è dipartita. Tutto è travolto dal corso dei secoli. E con sorpresa di me stesso trovo iu me a PopuIonio" e a Piombino — dove i fumaioli sprf gionano nubi di fumo ad annerire il cielo, e i niagli cadono con colpi sordi a domare il ferro e le fucine sono una fiamma rovente, — a Populonia e a Piombino trovo in mo gli stessi pensieri che sul ciglio dell'immensa ruina che dall'alto di Volterra frana già sino al piano, per balze e per burroni, con le pareli stagliato a picco che si avanzano sempro ad inghiottirò nuovo terreno, o l'ingliiotto e distrugge, ma dovo tutto, passata quell'ora di spavento, ò silenzio. A Piombino mi sono fatto condurre al castello della Baciocchi. Nel palazzo ove dominò principessa la sorella di Napoleone, una lapide ricorda non lei, ma uno de' costruttori delle officine cho foggiano il ferro. Sul lido di Populonia una società di Brema riscava i monti di scorie ferrigne che vi accumularono gli Etruschi e ne discopre insieme i sepolcri. La potenza e del ferro, non degli uomini La storia elio ripenso mi sgomenta', la natura che contemplo mi esalta. E 1 due sentimenti fondendosi insieme producono in me un sentimento che non so definire, ma che mi costringo ad appartarmi dai- compagni di gita e a rimanere solo con 1 miei pensieri. Ora si attraversa la Maremma. Ma non' più maremma. Oggi sono colti di frumento, e prati, ed è una festa di verde. La vecchia maremma, con gli sterpi fotti e le fiere selvagge, non è che un ricordo letterario. Solo San Guido rimane ancoro come lo vide il Carducci;' e la lunga fila dei cipressi ci balza incontro gigantesca e c'Invita con la suggestion dei poetici ricordi ad andar lungo il viale su fino a Boigheri anche noi. Anche nonna Lucia ci dice di sostare almeno uu momento Hinan^j »w. tan del sbqcgtsdltpsivcadlrlipafcectgcSpdiDnccspetcmFcvppcbfims..grande suo nipote, TI mesto accenta aePa I Vestilia discende giù nel mio cuore, o l'a> scolto. E mi fermo a discorrere con un vecchio popolano, che lo conobbe lui, beato, il poeta, e li sua mamma fu serva in casa del vecchio dottoro. Mi mostra la finestra della cameretta dove il babbo serrava il monello quando le faceva più grosse, e la sbarra di ferro cho ci aveva messo di traverso perchè' non si buttasse giù. « Gli era un monello, sai ». SI, era un monello, ma.le monellerie sono cessate, e l'arte che creò restii, E tra il meglio di quell'arte ó appunto Da. vanti San Guido. L'arte sola dunque è eterna. E lo sentita alzando gli occhi per le collino intorno. Ecco un castello del Gherardeschi, ecco Ja fiera ■ . Torre di Donoràtico a la cui porta nera Conte Vgolin bussò. Ma quel castello, quella torre, sarebbero! appena un nomo per la nostra memoria, a' nulla per il nostro cuore, so l'arte del poetai non avesse eternato nel suo canto l'uomo cho là entro svolse parte della sua storia. E ini penso che la sventura degli Etruschi sia stata appunto di non avere avuto una grando poesia. Se fosse sorto tra essi un grande poeta, essi non sarebbero morti del .tutta. Perchè la voce di lui non si sarebbe spenta, come spenta l'Etruria non 6 ini quanto ebbe veramente di arte. E non sarebbe mancato in Roma o in altra città uni Livio Andronico qualunque cho a un certo momento avrebbe tradotto, come lo schiavo greco fece per l'Odissea, il poema dell'0« mero etrusco. L'Etruria non ebbe, io credo* una voce poetica, e i popoli cho non hanno voce di poesia sono destinati a sparire non! appena crolli, come sempro crolla, a chiunque, la potenza. L'Etruria è muLà perchè tombe vasi flgufle hanno sempre mia linea comune a tutte, e non rivela, se non di rado, l'originalità dell'artista. E so in alcune ratugmazioni 1 voi la trovate, allora voi sentito l'influenza» idi altre forme, orientali o greche che siano, lei quali, passando nell'artefice che le segue, di etrusco lo fanno non dico orientale o -elle* ìiico o rumano, ma imitatore almeno di esse. Ma quando voi a Volterra uscite dal Museo ed entrato nellai vecchia piazza, con quei' palazzi glandi austeri imponenti, con quella) chiesa in fianco, voi sentito parlare tutto l'orgoglio c la ferocia e la pietà degli uomini del vecchio comune medievale. E ogni figura, dipinta o scolpita, porta l'impronta dell'artefice cho la creò, vi esprimo tutta la sua persona. Il tabernacolo del Battistero è bene dì Mino da Fiesole, e lo distinguereste tra mille so pur mille artisti fossero capaci di avvicinarsi a quella perfezione. Ho sentito in questi giorni discorrere spesso e volentieri dcU'influenza che gli Etruschi dovettero esercitare sul nostro Hiibascimenta mcrito lOTO si sarebbe ^^^"1 rimasta in Toscana. E gli archeologhi-e gli storici che si divisero su tutti gli altri problemi accordarsi affettuosamente almeno itì questo. Ma proprio qui riell'etrusca Volterra, confrontando monumenti e figure, tra quei generico e questa individualità per cui l'artista del Rinascimento *n ogni forma che. gli sorrida alla fantasia getta so stesso, e quando e grande è lui e sempre e non altro cha' lui, proprio qui nell'etnisca Volterra ho sentito l'accademico di quei raccostattnentì':' E più ancora, se pur ne avevo bisogno, menci sono persuaso a Sari Gemignano. Non ero mal 6tato a San Gemignano,. ma i miei studi medievali e danteschi mi avevano da anni fatto raccogliere quasi ogni cosa che si fosse pubblicata su di esso. E piùj ancora nell'occasione dei sesto centenario dal giorno che nel Maggio del 1S00, Danto fu lassù ambasciatore del suo coonuike a perorare dio ancho essi i 6angemignanesi volessero entrar a far parto della taglia guelfa, in quell'occasione il preposto Goni credette per sua grando cortesia di dover regalare anche a me quanto s'era pubblicato per la feste. A San Gemignano mi trovavo dunque come un figliolo lontano che non sia ancora entrato nella casa nova della famiglia, ' ma' che per la descrizione che gliene hanno fatto tante volte nelle lettere i fratelli e i parenti già la conosce in ogni carato, come se sempre ci avesse abitato. Nulla era ignoto a me di San Gemignano, non torre, non chiesa, non! palazzo, nemmeno, oso dire, un quadro. Ma quando ne vidi sin di lontano, salen. do su per la rampa del colle, le rosse torri ineriate; quando entrai nella piazza, e nel Duomo e a Sant'Agostino, in quella armonia e festa di linee, in quello sfolgorio di. colori, in quel riscontro di angoli, mi purv*» che nulla fino allora di quella terra io avessi veduto, perchè tutte lo fotografie o le riproduzioni stavano di qua dal vero. Tutto era originale, tutto era ni^ovo. Ora finalmente il Ghirlandaio mi raccontava con i suoi colori la vita della bella, fanciulla sangcmignanese come nessunalleggenda di Santa'. Fina o altro libro di storia me la aveva raccontata; ora Besosso ini faceva rivivero la vita del mio Agostino come la avevo capita e sofferta studiando le Confessioni. Sentimenti che non si possono esprimere. Ma preparatevi per anni, e poi dalla contemplazione delle tombe e della terra salite a quella grazia di paradiso, e capirete. Sono entrato per ultimo nella sala del Conslglio, ove parlò Dante. Ero solo, perchè ognt compagnia in quel momento, mi sarebbe, spiaciuta, e il sole dagli ampi finestroni mandava il suo ultimo saluto alla Madonna «U Lippo Menimi e ai Santi di Benozzo Gozzoli. Ma in quel silenzio austero, e nello ombre che a poco a poco invadevano l'ampio; salone, mi parve a un tratto sentire intorno a me, dal banco ove parlò, venire la voce del poeta. Dante fu bello favellatore o grande maestro in arringa parlare; ma lo cosa cha udivo non erano quelle che disse quell'otto Maggio 1300. Allora era involto anchoi egli nelle passioni e negli odi di parto, e la sventura non era venuta ancora a terajcrglll le piaghe che la ferocia di parto aveva impresse nel suo cuore, e Arrigo non era anche disceso a inasprirgli il desiderio di giustizia e a dargli il senso della vanità di ogni umana potenza. Ed io uscivo da Volterra, ove in un'antica cronaca avevo letto.di Bocchino Belforti, per il suo malo governo abbattuto da} popolo e consegnato ai capitano fiorentino, cho lo fece decapitare; e di Giusto, Landini, per ira di parte, gettato a tradimento nella piazza sottosta uè. Ora Dante, deterso da ogni labe uma.ia, mi- parlava corno sempre nel « Paradiso >, che studio e' sogno nella solitudine della notte, mi parla; come 11 mio babbo e la mamma mia buona, non per sapienza, ma per. cristiana in frazione, nella, fanciullezza •empio, mi parlarono. • Olmata»M»pp,; voltando, e piansi. .11. COSMO.