GIOVANNI CENA

GIOVANNI CENA GIOVANNI CENA Ce Io trovammo accanto, un gior)m>. all'U(niv>eaBÌtò, basso inspallato ooai un cappefflaocio largo che gli mangiava la fronte, e ima faccia attonita, patata, tutta orecchie e zigomi. Un ksostoo compagno quello ? Gente sferamjba ne capitavano in Facoltà di Letjbere, ma costui certo era un contadino lascito d'ospedale, e i grossi occhiali » stanga se li. fosse messi a crescer l'in^OToaimiglianra. Nel cappotto liso il petto gli rientrava, le gambe ne uscivan misere, flosce. Maggiore solo jdi pochi, anni, e invece tanto più secchio ci pareva, un uomo già. Arri(vava tordi alile lezioni, non rimaneva {dopo a crocchio con noi: scivolava [via taeitnmo, e come avesse gran Eretta sempre. Ma dóve andava) a lavorare per vivere, si disse: e chi 10 valeva istitutore, chi tipografo, e non so più ohe aLtro. Lo giudicammo, oca la crudeltà della giovinezza, pn povero zotico, estraneo a noi. Pule i suoi passi eran lievi, quasi tementi, di calpestare qualohecosa di vivo, e i suoi occhi buoni. Bastò che 11 vedessimo una ivolta fermi e confidenti avvivar le parole con una luce di verità, e ch'egli rilevasse come •osava parlando (la sua voce sembrava 16 sfregar di un arco sulle corde Idi un contrabasso) quel cappellaccio sulla 'fronte grande*, traversata di rughe, consunta di pensieri alle itempie : e noi gli volemmo bene. Lo pentivamo diveaso. A noi un sogno £1 mondo, alle cui soglie scalpitavamo, banda non pure impaziente, con le belle speranze: lui veniva già dalla vita, s'era immerso nella realtà, l'aveva sofferta, ne portava i segni. Sul suo passato stava iscritta duramente la parala c dolore ». Nato poverissimo, in una piana Idei Canavese (suo padre era tessitore), aveva conosciuto da bimbo gli affanni di una famiglia raminga di casupola in casupola, i muri fradici, il focolare squallido, i lagni i gemiti, |butte le asprezze e tutti i patimenti. Ma nel bimbo che seguitava il padre pei boschi a raccattar legna e ipoi non si sfamava, c'era un usignuolo ohe avrebbe voluto sollevarsi al disopra. della terra ingenerosa, e cantare: e intanto si mortificava imparando da sua madre a conver itrire le ribellioni in umani» pietà, Bua madre spirito gentile * di nascijfca superiore alla sua condizione » lo aiutò che studiasse: un prete, buon Smdovino, lo fece entrare in un umile ospizio di Torino, donde era passato, con un posto gratuito, al seminario di Ivrea. Di qui, dopo due anni fai filesofia, aveva avuto lo sfratto per certe sue ardite letture._ Leopardi... Carducci... Ed era tornato a Torino, libero a cercarsi un pane: % lìbero di morire » come diceva un giorno sorridendo. Ma s'era ostinato di vivere. Abitava una soffitta di Borgo San Donate: s'improvvisava faticatore, correttore di bozze; accettava anche più grame occupazioni, pure di nutrire con sè il* proprio ideate, e studiare, e far versi. Allora già morì la madre. ' Noi queste cose le seppimo assai lardi, e non da lui. Che taceva nel |a sua mestizia rude e raccolta, e con un sorriso anche. E aveva due modi nel sorridere: uno tra malieìoso (della malizia campagnola che intuisce la frode al mercato) e perdonante, quando si opponeva a un mostro giudizio leggero, o, contrastando un errore, cercava di raddrizzarci la stortura di un ragionamento. L'altro suo sorriso era più lento e soave: gli nasceva splendore negli occhi, gli toccava le labbra quasi tremore in rapimento : ed era il suo sorriso alla bellezza, a una musica, a Una forma d'arte, a l'ideale. E sùbito se ne nascondeva, tornato grave, assorto. Pudore ■ schivo, o paura che non lo intendessimo? Nò ci aveva detto mai che faceva versi. La notizia scoppiò di- colpo, donde come portata non ricordo, ma sicura e definita: Giovanni Cena era poeta: Giovanni Cena aveva scritto un poema per sua madre. Lo affrontai, gli chiesi netto: — E' vero che fai versi 3 — Già. — Dimmeli. —' Non li so. — Dammeli a leggere. - — Non ne sono ancora contento. E scoteva la, testa, insaccandola dentro le spalle, come a ripararsi da una cosa importuna. Ma io: — E' vero che bai scritto un poema} — Già... Volevo continuare avido c su tu* madre? » e non osai. Sapevo che era morta. ' Fu lui che dopo un silenzio aggiunse, risoluto, e alzò il viso a fissarmi: —. Si intitola c Madre ». ■Uscimmo dall'atrio dell'Università sotto i portici, e ci avviammo verso Po. Un improvviso bisogno di confidenze ci accostava ; ma lui era il più tardo alle pai-ole: bisognava svellergliele dal di dentro: e lo diceva piano, a sè stesso Tra il rumor della pento che ci urtava e non curavamo, mi stringevo mi curvavo su di lui per non perderne sillaba. — E' un poema lungo? — No... — In che metro? — Lo più san quartine. C'è qualche sonetto : e una lirica, l'ultima, In versi varii: un ritmo più che un metro. _ Ah, si? uà ritmo? e come? — Non ti so spiegare. Beavamo turbati, entrambi: egli Mafia pena palese del rivelarsi che por gli diventava di parola in parola più necessario: io dal^a vaghezza di quelli accenni che non rompevano il mistero. Facevo varai anch'io. Eravamo dunque in gara. Ma quali ve bì potevano uscir fatti da questo mio sozzo compagno? Lo guardavo nuovamente, gli cercavo nel viso, nella " paa, un indizio a scoprir il ano. gnmtsslasscpradiprdmmmcsslaibdpmgvmmdsdql•mdcfduslgdsnpvlcfrdfscszv<usqtltlecmdrEdqmlnpidsmripnrpridd i o o. genio: seguivo il gesto della sua mano quasi dovesse a un tratto rendermi visibile, in un tocco, lo strumento della sua arte. Ora egli mi diceva della sua passione per la poesia fin clajll'adolesoenza, e del poco tempo a soddisfarla, perchè c'era altro a che pensare, sebbene di nulla infine gli importasse, fuor ohe consolare gli uomini col canto. Ma bisogna pur mangiare... E poi eran brutti versi, i miei, senza rispondenza interna. E a ohe serve allora? Ci avevo come un macigno dentro, che mi impediva il canto. — E ora? ora ti senti libero? — Ah, si: vi ha, picchiato contro il dolore e l'ha spaccato. E parve nella tristezza di queste parole farsi più incurvo, e profondare in sè. — E come non sei ancora contento del tuo poema? Non l'hai finito? — Sì: è finito. Ma certi versi... — Quali? Dimmene uno. — Non posso. Ah, ecco, si, uno; ma si perde, cosi sospeso. Andavamo lungo Po. Egli si ferma, s'appoggia alla spalletta del fiume, a sorreggersi nello sforzo di ricordare qualche verso di seguito, una strofa almeno, che abbia senso: ma subito si impunta smemorato. Dice lentamente con una voce spersa che appesantisce ogni sillaba. Pure a me i versi, anche avulsi e rotti, suonan belli, e suoi, suoi soprattutto. Chi ha discorso di influenza dal Graf? La potremo ritrovare nel secondo volume c In Umbra »: reminiscenza, meglio che influenza, alla superfice: un volgersi riconoscente dell'alunno al maestro amoroso e benefico, rammemorando la sua poesia, e riecheggiandone qualche movenza, fugace. Ma il sentimento donde poesia saaturisce, il dramma per cui precede, le vie, i fini, quanto diversi nei due! Poeti del dolore, entrambi, si: fuor che, nel •maestro, il dolore discende in lui dalla meditazione, gli si trasfonde dal cervello nel cuore in una disperata filosofia: e nell'alunno invece ascende sgorgato dall'essere profondo; è un dolore che si potrebbe chiamar fisico, anche là dove più si fa spirituale, tanta è la sua realtà innata, tangibile: e quello del Graf non conclude perchè non può concludere, e si smarrisce nel dubbio, e naufraga nel nulla.; ma questo del Cena, che è una parte della vita e non la rinnega, trova una speranza che lo conduce, lo lenisce, gli insegna i modi onde placarsi, lo consegna rasserenato alla fede. A distruggersi ned • nulla » si rifiuta: ■ Ma li nulla, noi Strana parola. Nomai Il Graf nel suo dolore, nel ano dubbio, s'estrania dagli uomini, solo fiso a sè, dentro sè. Il Cena sopra la sua pena non sente che amore, delle cose, degli nomini : il suo cuore si spande ad accogliere tutta la sofferenza umana, e si compenetra con l'universo. E turni Adente nel silenzioso ordine onde son parte, ove pur oso, nulla essendo, sentirmi l'Universo. ' Così chiude il suo ùltimo volume < Homo ». Ed era incominciato con un saluto al rapimento dell'uomo : Benvenuto sii tu, col tuo tesoro d'amore. E vlvll Nulla al mondo vale la tua lagrima prima e 11 tuo vagito I Tra questo due strofe, sta compresa in pienezza la vita del poeta. Al quale, se dovessimo cercar radici letterarie, che non ne è qui il luogo, le troveremmo paesanamente nella sua terra piemontese: in quel sano realismo che fu di tutti i suoi scrittori : e limitò la visione, avvalorandone anche troppo taluni elementi casuali, ma la schiarì e la rese intima : e potò dare nel povero, non mai nel vano, e riuscir disadorno anzi che orpellato E per quel suo andar cauto, e rassodarsi prima di gettar fronde, gli piacquero sempre le vie piane, e un esprimersi diretto, senza raggiramenti e leziosaggini. Di suo il -Cena vi innestò quel continuo contrasto fra il poter essere e il non essere: tra la impossibilità dell'uno e Ja possibilità del tutto: e la sua arte, al pari della sua vita, insieme accordate perfettamente corno' rarissimo si vide mai in artista, fu un indefesso tentativo di risolverlo. E quando a questo non gli parve bastar-l'arte, egli sboccò, franco da rammarichi, nell'azione: divenne apostolo, sgominatore di ignoranze e di superstizioni, fondò, lui povero e semplice, scuole fra l'Agro e le paludi Pontine, le nutrì della. sua fiamma, non esistette più che nel centro luminoso della sua umanità. Verace umanità, signori mici, non di quella ohe mi siete andati pitoccando qua e 4à nei romanzetti in figure d'accatto acconciate per l'occasione da scrittorelli impotenti, e ce ne avete saziato tanto quasi da ripugnarcene il nome : carità chiamiamola dunque, alla cristiana, questa del Cena; e gli ispirava «Gli Ammonitori» e gli im-. poneva di seguirne il verbo. Che fece Giovanni Cena, se non mirar di conseguire, operando e amando, quello che Stanga l'eroo degli Ammonitori aveva additato con la sua morte? Rileggiamo, questo libro, tanto insolito ai climi della nostra letteratura. Non è scritto: c una voce che parla di là dalle pagine impresse, e racconta una vita, tante vite, non per tesser casi attraenti, o giochi nuovi di passione, ma per necessità di liberarsi, e insegnare come si possa non vivere, vivendo. Un libro di ribellione. Eppure no, con tutte le sue ribellioni ; che dallo strazio levasi l'anima e si tranquilla in una visione d'amore. E che delicata gentilezza di sentimento sboccia da quelle soffitte di Acropoli ! Una opera informe. Ma se ne forma in noi una dolente armonia, che rimane a renderci migliori. E' un segno che xon passerà. Giovanni Cena vive tutto lì, « homo patiens » e più apertamente che nelle liriche di « Madre », di < In Umbra ». Fo»se egli ne vagheggiò nei sonetti di «Homo » jl compi--jmunC«««««««««««retslpeasdvPctgnladnsfaddspmvsnCvimllcriscoca o a e i e e a , ò e e l a à a n i i e a i o e e e e , i -. e e i è à a i , e e a i a e o i --j mento. Non alludeva già a questa sua ultima opera là dove sugli « Ammonitori » celebra così il libro del poeta Crastino ? « Una collana di sonetti densi e per « me alquanto oscuri racchiude in bre« vi sintesi i concotti moderni della «yita umana: espansione libera della « infanzia, rivelazione scientifica della « vita, l'iniziazione dell'amore, la fu« sione di due esseri, la propagazione « della esistenza nello spazio e nel tem« po, ai contemporanei c ai posteri : « idee astratte, rese sensibili con parole « viventi, più che con Immagini. Qui « egli mostra veramente la via della « poesia di domani: è un precursore ». Sì, non v'ha dubbio: trascrivendolo ripasso tutta ila materia di « Homo » e intendo insième quello che egli tentò, e non si poteva raggiungere tanto s'era fatto trascendente, e disciolto, lasciando in sua' vece l'aridità di un programma, ohe solo qua e là si colora e s'accende. Scostiamoci dalla immane meditata aspirazione di « Homo » per riaccostarci alla reaitò spontanea di « Madre » e ritorniamo, dopo il lungo divagare, a quel giovine giorno, lungo Po, coi buon compagno di Università: che ci si stacca insieme dola spalletta, e si va e si va discutendo, in gran fervore, di versi e lor varii suoni, e di jati e dieresi et similia, frolle e inutili minuterie, per cui solo al ricordarle, non spero, se prego, perdono,'dal timorati critici moderni, nonché dai poeti di questo giovanissimo tempo mal covati alla scuola definitiva del filosofo partenopeo. Ebbene, chi — o meraviglia! — avrebbe imaginato il poeta di « Madre », con quei suoi abbandoni e rudezze, e il suo pianto da cullare, e i suoi gridi filiali che trafiggono i cieli per riabbattersi sulla terra contro il male voluto dagli uomini, chi lo avrebbe immaginato intento a batter sillaba con sillaba, e ascoltarne il suor no, e provare e riprovare, incerto? Così avveniva, e avverrà sempre, con vostra pace, o romantici nuovi della intuizione: che al vero poeta ogni minimo suono della parola è sacro, non in sè, ma per quello ohe spreme d'anima e d'intelletto insieme: e se l'animo detta, l'intelletto vigila, e l'un l'altro soccorre, tanto ohe un'unica forza li diresti e non sono : e adoperare disgiunti mai non possono : che, intervenendo chiamato l'uno, l'altro si sveglia, por tornare in commossa comunione: e dove credi che uno solo operi e freddamente, entrambi invece caldi ricreano. E mi ricordo di un poeta, canavesano anch'esso, che si doleva con me avessero giudicato trasandati di fattura i suoi versi, e lui trasognare sfatto nel crepuscolo. £ E un-po' sorrideva, e poi si adirava. —* Bestie. Sapessero quanto mi son costati di fatica ! e come li ho portati in me, li ho rimasticati sillaba a sii laba, li ho volti e rivolti di qua e di là fino a renderli i-nà-mo-vi-bi-li. Ora non ironeggi più, caro Guido, nè tu, caio Cena, ti adiri. Non mai veramente ti adiravi, presto salito al disopra di te stesso, là, dove .l'offesa non tocca. Ma'l'ingiustizia per gli altri ti turbava, accendeva in un impeto di sangue, i tuoi zigomi. Saresti1 balzato « a stritolare, a infrangere ». A qua! fine di inutile vendetta? E ti ripiegavi, e ti innalzavi, a discoprir le vie per cui l'uomo ridiventi giusto. E questa era la tua legge, d'amore. Per te un'ingiustizia non poteva che accorarti, ua attimo, appena. Tu ti confondevi con gli altri; e come ti piaceva mescere la tua voce nel coro della Stefano Tempia, fraternamente umilmente, per suscitare un'armonia concorde, così gioivi di sentirti trasfuso spirito con la torma umana. Avre sti dato la tua voce a tutti : sognavi che la tua poesia diventasse una mu sica di tutti. Non penso che si possa amar l'arte più puramente di quel che tu l'amassi. « Madre » uscì : cominciava la fama. Ma non questa importava al poe ta, all'uomo. Cominciava piuttosto con la fama, una maggior facilità di contatti, una più piena aderenza alla vita. Cena anela di spaziar la sua conoscenza nel mondo: va a Parigi, a Londra: il campo degli affetti gli si amplia : spaiti fraterni lo incontrano, lo aiutano. La « Nuova Antologia » 10 richiama a Roma, nell'uree. Di qui la sua missione mistica si afferma, si irradia; e la morte non l'ha compiuta ancora. • Lo vede l'ultima volta davanti ad una sua scuola in costruzione nell'Agro: basso, inspallato, come al tempo dell'Università: e più misero contro 11 gran bianco abbagliante del muro incalcinato di fresco. Ma egli mi. parla dell'oper» sua, e grandeggia: e subito mi saluta : non- può darmi retta: c'è da far tanto, tutto: il tempo non è suo. — I bambini non devono aspettare : arrivederci, a Roma. Riodo l'ammonimento religioso di Stanga: « ...concentriamo la nostra attenzione noti sulla morte ma sulla nascita. Allora soutirenio la necessità che ciascune nasca nelle condizioni più favorevoli, e circonderemo di benessere di rispetto e d'amore l'età in cui l'individuo diviene ». — Parto. Non torni mai in Piemonte? — Sì, a Montanaro: le mie va canze. — Verrò a trovarti quest'anno. — Allora, arrivederci, là. E si allontana agile, ilare. Sono andato quest'anno, e proprio a trovar lui. Strade incassate fra le robinie, un lieto trepidar d'acque nei fossi, traini lenti di buoi, gran carri aerei di saggina e'cestoni sonori di melighe: ecco Montanaro, in un giorno d'autunno un borgo tutto vivo di opere agresti, alle soglie del bel Canavese : e laggiù a l'orizzonte la gloria del Rosa. Mamma, questa d'ottobre cosi gala giornata, sembra d'una primavera ultima. En*To nella piazza della chiosa, rac¬ cochè bncae anaqastcvhPsuNnucodbsotedziqnteosecucisicovsagcdqtddsifsscu[efPdifsdscmlubsdEtvngqsfomvvlrispvlnsdsSiaas1Let»tsBomatNcslCtteio r e e o a o e e e n i i , i l a i1 A i r . e i i o e a i a l o i a a a i , » i i a d o o o e o i a a à colta in pace, col castello bonario, che non minaccia (l'erta che vi mena è piena* d'erba) e lì a fronte, piccola, bianca, un poco spaurita, la casa dove nacque Cena. Ma non è la sua casa, la casa a cui si rivolge in « Madre » O di fraudi vestita e di corolle casa nativa, devo cose amare e dolcissime vedo, e risa Ignare odo... e verso cui sospira nostalgicamente ancora in « Homo » Montanaro, casetta mia, com'exl piccala e tristo, e n'ho triste la villa; ma come ai mio pensiero era Infinita la traoda. Intorno a te, de' tuoi sentieri! La casa ohe vive nella sua memoria affettuosa, è un'altra: è là dove nacque poeta, dove gii occhi si apersero al sogno, dove morì sua madre. Questa casa non conta: egli la identificherà con l'altra, ohe diviene la sua vera casa nativa: e giustamente ne hanno intitolato la via al suo nome. Piccola e triste, sì, accasciata, col suo basso loggiato di legno. E muta. Nessuno la abita ora. Sua sorella se ne è andata col marito e coi figli in una casa nuova. La sorella è che mi conduce, e me la riapre. Nella prima stanza, a fior di strada, un banco da bottega ancora e la bilancia (venducchiavan qualcosa le sorelle per sostentarsi, aiutare il fratello lontano) : immediata, la camera della madre. Qui è mancata. Desolazione, nudità: una luce, come.un'acqua verdognola, dalla finestretta: non resta che una specchiera settecentesca, strana, alla parete, con i suoi ori galanti a render più tetra la miseria intorno. — A Giovanni piacevano queste cose vecchie ! Si esce In un andito umido, si sale una scaletta soffocata, di legno che cigola; urtiamo una porta slabbrata: siamo nello studio del poeta. — E' come lo ha lasciato lui. Una povera stanza di quattro passi con l'ammattonato corroso, i muri lividi. Presso lo stipite un gesso del Bistoilfi, di Leonardo suo, uno dei primi amici e più fidi : stampe di quadri, in giro, dal Peilizza, di Segantini, dedicate : e su una c'è anche un biglietto del Segantini t ... io dalle alture di questi miei monti raccolgo riconoscente questi fiori e ve li mando augurandovi ohe il Dio del sentimento grande dell'arte sia sempre con voi... ». Uno scaffale di libri, la tavola al mezzo, ingombra di carte, riviste, giornali, fotografie alla rinfusa. Sopra un cassettone una coppa colma di pezzi di scavo, donatigli dal Boni. Ricordo una visita al Foro, con lui, con Boni : [e il suo fervore devoto, e quel suo fuardair « fiso ed attento » qual dice •-ante, che è il guardar dell'anima. Prendo fra le dita ima testina, di donna: bella, ma.ha una bocca dura impenetrabile. Da un tiretto vengon fuori sue lettere: mi cadon gli occhi su usa da Roma;'.con l'intestazione della « Nuova Antologia ». Scrive alla sorella, paurosa per lui, di una donna che egli ama « io,, tu lo sai, sono molto cauto... Se tu la vedessi, le parlassi, cambieresti pensiero... Noi siamo una cosa sola, per sempre ». - - Oh, in anima ingenua, inestingui bile fede! . Per-sempre. — Non credeva di poter morire. C'era una vecchia, su una porta. La salutammo. Novantacinque anni; io dissi : bella età : piacerebbe arrivarci E lui: non mi basterebbe. E intanto tossiva. E' vero, non bastavano alla sua vita, piena di cose da fare. — E disprezzava le comodità, il denaro — prosegue il cognato, sopraggiunto in quella — perchè non ti metti quaìchecosa da parte? per quando sarai vecchio? — Ci sono i ricoveri — T'è fol, t'è fai. — E lui rideva. Così nascono e vivono i tuoi poeti, o Italia. Giusto che tu li commemori, morti, e grandemente. Pur converrebbe celebrarli anche un poco da vivi, o leggerli almeno, che è infine la celebrazione più degna. Riesco nel sole della strada, e mi ripeto a conforto una dolile più soavi strofe di « Madre » : Era un di quel di miti, pallenti velati di sottfti trasparenze. In cui tutte le cose hanno parvente vergini ed musati vi tiramenti. Come vi patisce l'esile grazia della primavera, nell'atto di sciogliersi dal verno! ... Cosi, lucidi aprili d'infanzia fiorire lo vi senUt. Badate alla dieresi che deve prolungar la pronunzia di « infanzia » e non è segnata, perchè egli non voleva segnarla, t II lettore deve comprenderla: è necessaria ». Gli sarebbe sembrato di offenderlo altrimenti. Sentite in quel suono assotigliato di i, la gracilità del bimbo che si inizia alla sensazione dolorosa del mondo, anche quando ne gode? Leggiamo, leggiamo ancora: per sempre. FRANCESCO PASTONCH! dh1chpcdfgsdmlezvaQusnspltv1pdgpctammrdpuvtpcCcCvlrcpdcrcddcrcoiai