ZUFFE E ROGHI DI LETTERATI

ZUFFE E ROGHI DI LETTERATI ZUFFE E ROGHI DI LETTERATI Previsioni del Barbanera Da qualche tempo, sopra il chiaro dell'orizzonte, brulica e ronfia una brutta nuvolaglia fitta fitta, che ha l'aria alquanto imbronciata di tirare al torbido, e di minacciare chissà quale pandemonio o giudizio universale. Sono brontolìi, schizzi di lampi, botte e funiigamenti ; le, quali co3e all'anime timorate consigliano di spolverare l'ombrello, e di prepararlo, ripulito e pronto, contro il canterano di casa. Di più, sott'il vento e le nuvole, in silenzio e alla macchia, nonostante gli allarmi rauchi delle scolte avanzate, una specie d'esercito raccogliticcio e male in arnese, una masnada di brutti ceffi furiosi, s'accampa e s'infossa. Nell'ombra, è facile scorgere un brillìo di acciarini, e di pipo accese ; mentre, ogni tanto, tra il lusco e il brusco, scoppia e fulmina un rumore confuso di risse e di bestemmie. Forse, in attesa della battaglia, qualcuno gioca a rubamazzo, e litica per guadagnarsi il Paradiso. Olà!, che mai succede? Cari signori miei, niente paura. Cotesto non è che un esercito di letterati ; di gente elio preferisce al sangue l'inchiostro; che porta la chitarra accanto allo stocco puntuto; e per di più armata come Dio vuole, un po' all'antica e un po' alla pazzarellona : falcioni e baléstre, èrpici e marre, spiedi e archibusi. Se c'è qualche fucile son di quelli rugginosi della territoriale, con il tappo di ceralacca in cima alla canna. Persino il capitano, uomo di scarpe grosse ma di cervello fino, porta a tracolla un paio di tromboni alla Passatore. Come si tvede, si può dormire tra due guan cdali. In' vero, mia voglia matta e disperata di menar le mani e di far baldoria con le robe di città, cotesti ragazzi l'hanno da tempo; e a tale scopo da monti, da valli, e da colline sono calati; e più ancora per ridistendere al sola una lor vecchia ma onorata bandiera, ch'era da vent'an ni in soffitta, tra i ragnateli, i topi, e le rèste di cipolle; ma il nemico, un po' acciocchito dalla vita monda na, sta nicchiando e tentennando : si nasconde nelle cantino, e fa la faccia della gente superba e sdegnosa; op pure, a fin di bene, si dà all'aperta campagna, con tolto il fiato fuori Idal corpo. Spesso, qualcuno crede più coraggioso metterò il capo sotto l'ala ; e cosi attender» che torni il sereno. Qualche altro, più navigato e oleoso, .mand.i raecaniahdatixie, con firme a svolarli, a! campo vy»rso; e intanto affila li rr.!Vrricor<l.'-i. Perciò, in giro l'odor " ."f ■' c'è. o buono; e, presto 0 tarrli, «-sa s"nppierà, lungo la via Emilia, e su per le colline toscane, •otto il verde pallido degli olivi, sì che bello sarà guardarla dall'alto del campanile. Ahi che dolori ! E che botte da orbil I cazzotti voleranno come mosche a far scoppiare zucche, occhi, e pancie ; le ciottolate drizze' ranno le gambe a sani e a storpi ; il fumo degli schioppi salirà al cielo come la nuvola di San Martino; e, dopo tanto fracasso e piagnisteo di ammaccati, ci sarà pur qualcuno che, ancor vivo, inneggierà alla vittoria. * * Vogliam diro che la repubblica delle lettere è sottosopra: da una parte gli strapaesani, dall'altra stracittadini. I primi giurano sopra 1 santi di casa, giocano a scopone, e scrivono parolaccie; i secondi adorano certi feticci esotici, giocano a pocker, e scrivono in francese, per far rabbia alla buon'anima dell'Algarotti. Il quale, scrivendo il c Saggio sopra la 'necessità di scrìvere nella propria lingua >, non s'immaginò certo che, duecento anni dopo, alcuni suoi corrivi nipoti avrebbero parteggiato per quella lingua francese, ch'egli, con fl Voltairo, disse « mancante di precisione, di richezze e di forza ». Or dunque, gli scrittori dello Strapaese, in un modo o in un altro, sono ragazzi che si sentono figli di qualcuno; e nelle sieste rileggono Dante e Bertoldo, Machiavelli e le istorie del Passatore, Leopardi e la Monaca di Monza, venerando così la grande tradizione italiana. In uno dei loro castellacci alla bandita, tempo fa leggevasi un cartello alquanto perentorio: « Vogliamo, per l'Italia di domani un'aristocrazia fascista : malvestita e bonaria; fra il popolo e per il popolo ; pronta a obbedire fino all'assurdo e a farsi ubbidire con ogni mezzo; capace di grandigia e di umiltà; tradizionalista e spregiudicata; feconda, cialtrona, magnifica... »; e sopra, montava la guardia una specie di carrettiere, con tanto di doppietta tra le mani. E' gente che ama andare a letto a lume di candela, mangiare brustulli, alloggiare alla Locanda del Moro Bianco, e stampare le poesie in carta di granturco, presso la Tipografia all'Insegna della Volpe. Se leggiamo le loro scritture, ch'essi sventolano tra i merli e sulle altane dei loro castelli, par di viag giare, sul far dell'autunno, sopra le diligenze dei nostri nonni, tra schiocchi ^di frusta e odor di foglie morte A sera poi, quando in cielo c'è la solita luna, più che i giornali borghe si, cotesti bravi ragazzi leggono i pianeti della fortuna. Gli altri, cioè gli abitanti di Stracittà, si danno l'aria di viaggiatori ; e magari il naso non l'hanno mai portato al di là delle mura cittadine. Co bie letterati, hanno inventato l'euro peismo, ch'è una specie di parie mol lo in tutte le rigovernature, piovute 'dal cielo di Parigi, e risoffiate da qualche internazionalista mattacchione alle orecchie di certi sudditi indigeni, i quali, a scanso d'equivoci, invano proclamano d'esser liberti. E' naturale che dalle loro male intenzioni salti fuori qualcosa ohe sta fra JltbbssgieamsalspmrdcdttdèlhpissdOQ0rVDED1nfttdlcMddLqpddtnssntppèilptsmGrmSsmpgdstGdPlJfgagpgdaplrbDncdgbscrvIs l'ermafroditismo e la presa di bavero, tra la pariginata mal digerita e la bùbbola provinciale, tra il giuoco di bussolotti e la piroetta dell'equilibrista. Se si aggiunge poi l'andazzo di sottolineare con oh ammirativi tutti gli ammicchi e tutte le girandole ideali dei collaboratori di Commerce e della Nouve.lle lievue Francaise, si arriverà facilmente a comprendere come l'imperialismo letterario degli scrittori stracittadini sia civettuolo e accomodante, e in un certo senso gelatinoso. E' logico che tutto ciò sappia di snobismo, e sia poco italiano. D'altra parte, gli scrittori stracittadini alla musica di "Verdi preferiscono i gargarismi dei sassofoni, alla furlana il delirium- trem.ens del charleston, al coturno delfattor tragico lo zoccolo della cinematografala alla nostra coltura quella che vien loro da ogni parte del mondo. Se gli strapaesani ai danno a una letteratura, il cui centro è lo stollo del pagliaio o il campanile della parrocchia; gli stracittadini hanno preso di mira la torre Eiffel. I primi, quasi quasi, a forza di stare in campagna, tra còlti e mietiture, scriveranno degnissimi poemi didascalici, sull'orme del Vettori, del Soderini, del Lorenzi: Onal cura 11 nuon vlllan de' monti aprici, Qnal donna averne 11 suo slprnore, lo canto. 0 spoprll 11 verno 1 pocgl e le pendici. r> loro torni primavera 11 manto. Voi semplici de' colU abitatrici Donne e donzelle, or' mi sedete a canto: E voi bifolchi ed aralor possenti, Date udienza a' miei veraci accenti... 1 secondi chissà dove saranno trascinati dai voluttuosi mulinelli della fantasia. * * - * # Ora, cotesti due grandi eserciti letterari stanno schierandosi, l'un contro l'altro armati. Gli Strapaesani, dalle feritoie dol Selvaggio, deìVZtaliano, e d'altri fogli burbanzosi, incoccano ogni tanto gli archi. Curzio Malaparte tiene a due mani uno spadone, che par quello di Can Grande della Scala. Gli è d'attorno il Longanese, il quale, per essere alto quanto il capitano, gira sopra i trampoli. Dietro l'armi, si vedono i volti di Bacchelli, di Baldini, di Franchi, di Pellizzi, di Raimondi, di Agnoletti, di Solmi, di Cardarelli, di Montano, di Pavolini ; e se qualcuno ci sfugge, ci perdoni. Gli Stracittadini sono barricati nella roccaforte del novecento: una specie di castello tricuspidale, la cui architettura, un po' futurista e un po' cubista, un po' metafisica e un po' surrealista, è fatta apposta per accontentare i gusti di tutti. Massimo Bontempelli, a cavalcioni d'un cavallo alato, sopra il cui dorso egli stesso ha dipinto il motto della compagnia: fantasia, passa in rivista gli ardenti commilitoni: Alvaro, Aniante, Solari, Gallian, Napolitano, Diotima. C'è pure qualche novecentista onorario, come Emilio Cocchi, Vergani, Barilli, Spaini, Campanile; ma questi mostrano un volto turbato e afflitto, come se non gradissero troppo la compagnia, e attendessero il momento giusto per squagliarsi. Sulle pareti della roccaforte, bene incorniciati e spolverati, si possono ammirare i patroni di casa: Paul Morand, Ivan Goll, Pierre Mac Orlan, Jack London, Joseph Conrad, James Joyce, Philippe Soupault, Ramon Gomez de la Sema, Blaise Cendrars, Max Jacob. :n Intanto, il Malaparte ha già dato fuoco alle polveri: « Sta di fatto che gli scrittori stracittadini incarnano alla perfezione l'ideale piccolo-bor ghese del letterato alla moda, sempre al corrente delle novità di Pari gi, di Londra e di New York, e indaffarato a tradurre in un italiano approssimativo il gergo dovizioso e preciso dei porti dell'Atlantico e delle città del Pacifico. I libri dei letterati stracittadini vanno per le case borghesi, eredi legittimi dei volumi di Da Verona, di Pitigrilli e di Mariani, che si posson ben chiamare i precursori, i pionieri, i profeti dell'ideale europeismo della società borghese contemporanea. Che la nostra borghesia abbia assoluta urgenza di una propria letteratura moderna, da sfoderare come un ombrello nuovo nelle grandi occasioni, per non aver l'aria di codini agli occhi delle borghesie senza tradizioni delle due rive dell'Atlantico, è cosa ormai risaputa da tutti. Ed è anche pacifico, piaccia o dispaccia agli italiani ammalati di europeismo letterario, che Bon proprio essi, gli scrittori di Stracittà, quelli chiamati a realizzare l'ideale artistico della nostra borghesia. Son proprio essi, i Goll, i Joyce, i Morand, e i Gomez d'Italia, quelli chiamati a perpetuare il cattivo gusto del borghesume italiano ». A dire il vero, cotesto sono nespole sode. Ma il Malaparte, scrittore di vena e uomo di fegato, ci pare veda chiaro nel facilonismo europeo. Intanto la zuffa è appena aperta ; e già Franchi interloquisce da Solario chiamando « il novecentismo e il paesanismo due tenutine grandi quanto un balocco da ragazzi ». Noi non lo crediamo. Crediamo piuttosto che il disaccordo sia profondo, e nasca dall'intimo della nostra razza italica. Da una parte, una gente che più proviene dall'istinto che dalla cultura, e che riscopre ogni giorno la novità eterna della tradizione, e sentesi stretta al passato e alla terra nostra da una indistinta gerarchia spirituale; dall'altra, dei romantici, i quali credono in una novità esteriore e piatta, donde tutto può nascere, fuorché la giustezza e la necessità di sentirci classicamente moderni. Ad ogni modo, v'è in giro aria di bufera; mentre l'organo di Strapaese suona a rottadicollo : Gente, cjuest'e nottata di battaglia appaga 11 sangue e sprona fantasia: rlsconfigglamo merda e plcclnaglla siamo l crociali della poesia. Noi, di quassù, si starà a vedere. GIUSEPPE r.AVEGNANl. rlVelpCcBsus L'Acerba Sono trascorsi seicento anni dacché Cecco d'Ascoli, l'astrologo, il poeta, sali il rogo fuori Porta alla Croce, in Firenze, e la sua catta nativa ne celebra la memoria con una bella edizione delVAcerba, lo strano ed irto poema, che ebbe in tempi lontani una fama, ed una fortuna, ben presto oscurato: basti avvertire che fra i primordi della stampa e la metà del Cinquecento il libro fu riprodotto ventiquattro volte: poi non più, fino al 1820, in un'edizloncina assai guasta, e per alcune parti ridicola, del t Parnaso italiano», che provvide a migliorare, dopo un altro secolo, il Rosario nella collezione « Scrittori nostri » di Lanciano (1916). Nel risveglio della scuola storica, Cecco d'Ascoli porse argomento alle ricerche di vari studiosi, dal Barala al Bofflto e al Beccaria, i quali attesero, su pochi documenti superstiti, a svincolare la figura del poeta dalle ombre che intorno le aveva addensato la leggenda: una leggenda che finiva per confondere i tratti propri dell'uomo con quelli d'un tipo generico, il mago del Medio evo. Gli aneddoti più curiosi e pittoreschi' che s'attribuirono a Cecco sono gli stessi che si narravano di Alberto Magno, di Pietro d'Abano, di Michele Scotto-(colui che, a detta di Dante, « veramente Delle magiche frodi seppe il gioco»); e son quelli che nel cuore del Rinascimento si raccolgono, come su di un ultimo eroe maledetto, nella figura del Dottor Faust. Ad esempio, • ritfovandosi una sera in una nobile conversazione di dame in tempo d'inverno in una casa a diporto, dove eTa preparato un bellissimo convito », osservò una signora che meglio sarebbero state in un bel giardino, ed in più piacevole stagione; c Cecco fece loro chiudere gli occhi, e subito mise mano al suo libro d'incanti, e « si trovarono in un bellissimo giardino adorno di piante e pergolati, e una pergola superbissima, tra' quali, copriva tutta la mensa, ove erano 1 grappoli di uva di tutte le sorta più belli che non sono alla fine del mese di settembre... ; ma volendone una dama spiccare un grappolo con le mani, disparve ogni cosa e tornò il luogo al bell'essere di prima, dicendo sempre Cecco che quelli erano giochi di astrologia ». Non v'è mago che si rispetti che non abbia compiuto questo prodigio ; uno di essi, come narra il Decameron, fece sorgere per l'amante di Madonna Dianora il più bel giardino che mai si fosse veduto, con alberi e fiori e frutti, nel mese di gennaio ; e l'illusione dei bei grappoli è queilila ancora del Faust nella cantina di Auerbach. - E l'inganno In cui l'arte diabolica travolse lo stesso Cecco, — il quale sapeva di non poter morire se non « fra Affrica e Campo di fiori », e quindi si teneva sicuro a Firenze, fin che non apprese, troppo tardi, il nome del torrente Affrico che vi scorre vicino, e capi che quello di Fiorenza stava benissimo per « campo di fiori » — tale Inganno corrisponde anch'esso al falsi presagi che tradirono Macbeth, e Gerberto, e tanti altri armici delle streghe. Ma, uscendo da queste favole, alla memoria di Cecco d'Ascoli fra i lettefata nocque poi l'invettiva, che si contiene nell'opera sua, contro Dante; de' suoi versi i più noti, certo, son quelli che oppongono con superbia la poesia dell'acerbo alla Divina Commedia: Qui non si canta al modo de le rane, Qui non si canta al modo del posta Che finge lmaglnando cose vane; Ma qui rlsplende o luco ogni natura Che a chi intende fa la mente lieta. Qui non si gira per la selva oscura, Qui non veggio Paulo nè Francesca... Infatti, povero Cecco I non ce 11 vediamo neppure noi: nè Francesca, nè Ugolino, nè altro di simile agli, episodi danteschi ch'egli cita con disdegno... Ma non occorrono a Dante avvocati, e possiamo guardare all'<4ce7ho senza le intenzioni di vendetta che hanno guidato per lo più i suoi critici. L'Ascolano chamò Acerba l'opera sua per avvertire ftn dalla soglia ch'essa era cosa aspra e difficile: la parola stessa gli era spontanea e cara, tante volte - ricorre sotto la sua. penna, ed una, fra l'altre, verso 11 fine, a vera spiegazione del titolo: Or alma graziosa, puoi vedere Quanta dolcezza è in questi acerbi fogli i Il poema è una somma della scienza del tempo: come un «Tesoro», un « Libro di Sidrach » in versi. Il prof. .Achille Crespi ne addita le fonti filosofiche, da Aristotele ad Alberto Magno, in un vasto ed utilissimo commento che accompagna l'edizione del centenario (Ascoli Piceno, Casa editr. G. Cesari, 1927). Prima si tratta dell'ordine dei cieli, degli elementi, degli astri ; poi dell'uomo, ch'è loro sommesso, e delle Virtù, e dei Vizi; poi dei simboli del regno animale, e delle prò prietà misteriose delle pietre; per assurgere in fine ai problemi generali della Natura e della Morale. Il pensiero direttivo dell'/lcerba non è più cosa nostra; ma a<ttirav«rso quel disegno dottrinale e quell'aspro lavoro, traluce una passione fantastica che vuol trarre daill'immagiiine delle cose aiaia loro significazione spirituale apporre ima cifra ed un simbolo sulle apparenze esteriori, e frattanto le mi ra lunga.meu.te, le vagheggia, ne co glie, come per sorpresa, una nota poetica. I nuovi simbolisti riconobbero al cuni spunti dell'arte loro nelle mone allegorie del Medio evo; e tutta la tra dizione della « magia natuira'e », ne gli stessi spiriti più liberi ed elevati (fino al Campanella, nel Senso delle cose), è costellata d'Immagini d'un intenso e sincero valore artistico. La feinice, il pellicano, la salamandna, la cicogna, la cicala... e nel lapi dario, lo zaffiro che riceve la sua virtù dal pianeta di Giove, lo smeraldo da Mercurio, l'agate e il berillo da Venere, il topazio, ohe • resiste alila lunatica malìa»... si rilevano come flguT* a smalto, alternate di gemme: su di uno scrigno bizantino: Il cigno e bianco senza alcuna m&vcnia E dolcemente canta nel morire Cosi è bianca l'alma per vii-ture Volendo questa donna conseguire... E canta nella morte. Innamorata Andando al suo Fattor cosi beata. 11 verso di Cecco d'Ascoli è rude scabro, dissonante; ma non è volgare non è pigro, e accade più d'una voli» ch'esso si annunzi felice nella prima movenza, nell'invocazione che prorompe ammonitrice od accorata; t o Siena, posta sotto il bel sereno... », « O madre bella, o terra ascolana... », « Or vi ricordi come le nude ossa... ». L'accento dell'ira e del rimpianto si mescola improvviso e frequente nella grama dottrina, e par che allora si scopra il segreto animo del poeta. Questo è un lamento d'o.more: Io mi ricordo che già sospirai SI nel partire da miei dolce loco Ch'Io dir non so perchè 11 cuor non lasciai; Sperando di tornar, passo martiri Struggendosi lo core a poco a poco Nanzt ch'Io tragga gli ultimi sospiri. Versi che si accostano naturalmente alile liriche di Cino da Pistoia, al tramonto doloroso del « dolce stil nuovo»; mentre questi altri risalgono agli albori, alle canzoni dei due Guidi: Amore è passlon di gentil core Che vlen da la virtù del terzo cielo Che nel crear la forma ai suo splendore. Pur così rozzo, l'Ascolano non fu estraneo aiffla poesia del suo tempo; e se venne a contrasto con Dante, perchè si credeva una testa più « scientifica » (ma s'avverta che le villanie in rima non eirano poi tinto rare nelle tenzoni, e Dante ite subì da amici come Forese, e da colleshi bizzarri come l'Angiolieri), io credo che nel canto dei cieli e della laico, nelle pagine di più ardito volo dell'acerbo, egli abbia oscuramente sentito la grandezza dell'arte dantesca: quella delle pensose canzoni del Convivio, quella stessa della Commedia, di cui più d'un verso echeggia fra le sue cobbole faticose. Persino il metro dell'acerba non 6i spiega se non come una foggia della terzina dantesca, serrata in periodi più brevi. Più che un vero nemico di Dante, egli ne appare un seguace riottoso, avvolto ancora fra le superstizioni, illuso da un tesoro che gli si mutò in un cumulo di foglie secche: ma non ne ridiamo, pensando che a quelle foglie s'appiccò 11 fuoco, e gli arse le misere carni. Quésto temeva il poeta, nel canto dell'Acerba in cui tratta dell'interpretazione dei sogni? Certo, egli vi prega il « buon Apollo » che non l'abbandoni « alla mercede altrui », o che almeno gli dia « per rimedio » la morte. Ed è un tratto che salverà la memoria di Cecco d'Ascoli; che aiuterà a discernere, di sotto alla sua arroganza, alla sua vanagloria, alla sua vana scienza, il carattere dell'uomo che soffriva per la sua fede intellettuale (l'Acerba era per lui una « cosa seria », e la 6ua durezza risente talo ra d'un reale strazio) : questo avrebbe contato assai, se avesse avuto a giudicarlo Dante FERDINANDO NERI. ssmdssgd