I sonetti e le grandi "odi,,

I sonetti e le grandi "odi,, I sonetti e le grandi "odi,, Ricanta nella nostra memomia, nel primo centenario della sua morte, quella parte della sua poesia, in cui più rifulge la sua arte divina, e cioè: ì Sonetti, le due odi A Luigia Pallavicini e all'Amica risanata, il carme dei Sepolcri e i frammenti delle Grazie. Si sa che qui in questi smaglianti componimenti, s'apre leggiadro e vivace il più bel fiore della sua poesia. Qui, trasfigurata in lucidi e variopinti fantasmi, ride serena la bella e ardente anima di questo irrequieto e magnifico, ma troppo « parco tessitore di versi ». E pare un miracolo che questa poesia armoniosa e pittrice abbia attinto quasi di colpo le sue vette più alte, mostrandosi, la prima volta, nella sua forma più bella in alcune liriche splendenti, scritte in un periodo, che direi fatidico per il nostro poeta. Sì; questa poesia personale e inconfondibile, — che nella grazia delle linee e nella sua plasticità riflette gli incanti della classicità greca e latina disposati alle eleganze della favella italiana e che nella leggiadra e forte elocuzione ' respira i fiati delle primavere elleniche, si rischiara quasi di colpo nello spazio dei soli quattro anni che corrono dalla morte del Parini (1799) a quella dell'Alfieri (1803). Sì rischia ra, si illumina, si determina in questo breve periodo, e, uscendo dalle incertezze dei componimenti giovanili non immuni d'influssi troppo evidenti — l'Ode a Napoleone, gli sciolti al Sole, ecc. — raggiunge, come d'un tratto, una rara originalità, una ricchezza grande di suoni e di colori e una flessuosità squisita di forme. A questo periodo, vigilato dall'ombra gloriosa del Parini e dalla veneranda figura dell'Alfieri — i due numi protettori della patria nel suo primo risorgimento e i due grandi ispiratori e fecondatori del pensiero morale e della fantasia del Foscolo — appartengono i più mirabili dei dodici Sonetti e le due grandi Odi alla Pallavicini caduta da cavallo e all'amica risanata, Antonietta Fagnani-Arese. Ora, queste liriche, che furono scritte in tempi turbinosi per il poeta, fra tempeste di passioni violente o fra pericoli imminenti o in mezzo al fragore delle armi, hanno il carattere e il pregio essenziale di non rivelare nessuna traccia di preoccupazioni pratiche o di turbamenti incomposti. Tenui ricordi parinia ni risuonano appena fra accenni de. sunti dai classici. Nessuna ansia, nessuna eco di eventi estranei alla foro ispirazione le increspa e neppure le sfiora. Ci si immerge, leggendole, in una tranquilla serenità e quasi, direi, in un'immobile pace ridente di una luce eguale, mentre l'animo si raccoglie in un soave desio di dolcezze e di grazie femminili. Eppure, l'ode alla Pallavicini fu scritta a Geno.va, nel 1799 (o nel 1800), in mezzo alla miseria e alla disperazione, fra il tumulto dei soldati e del popolo e il rombo dei cannoni; e i sonetti furono quasi tutti composti nello stesso periodo fra vi¬ gldziEsdtmnovttlsfzntsinn i gilie e viaggi faticosi; e l'ode all'amica risanata fu dettata, poco dopo, nel 1802-3; per una donna bizzarra e sensuale, amata dal poeta impetuosamente e tumultuosamente. E ciò non ostante, queste liriche sorgono circonfuse dell'alone d'oro di una perfetta calma e pace spituale e si direbbero composte in momenti di estatico rapimento. Questo completo astrarsi del poeta nel regno incantato della fantasia, oltre tutte le cure quotidiane della vita, colpisce; di maraviglia ogni lettore del Foscolo e si spiega ammettendo che, nel periodo più aspro della sua vita nomade e guerriera, egli sia riuscito finalmente a toccare il fondo della sua più sincera aspirazione, a convertire le incerte imagini della giovinezza poetica in fantasmi luminosi, e a tradurre l'indistinto in distinto nel punto stesso in cui trovava la sua più bella e nuova parola. Allora le figurazioni mitologiche, che erano per lui verità idealizzate, si connaturarono con questa sua genuina ispirazione e non furono più un vacuo apparato esornativo, ma divennero la forma stessa del- suo pensiero estetico. Ecco, così, la Pallavicini trasformarsi nella stessa deità di Venere ferita, a cui Diana è compagna -di sventura, e la Fagnani-Arese trasmutarsi anch'essa in una dea (Té, dea, mirando, obliano — 7 garzoni le danze). Ecco sguardi ridenti e il soave parlare e il bel ca^nto e la danza farsi divini, e la bellezza corporea attingere, come cosa spirituale, l'eterno. Che la bellezza è, per il Foscolo, « genio benefico », « eterna vita dell'universo », « ristoro unico ai mali ». Basta che questa celeste bellezza sia minacciata nella " Pallavicini da ' uno sbalzo di un cavarlo o insidiata nella Fagnani-Arese da una malattia, perchè il poeta si commova e tutta una teoria di stellanti immagini venga a incoronare la fronte di queste due nuove divinità dell'Olimpo della poe sia italiana. Dai fastigi attinti nei Sonetti nelle due Odi la poesia del Foscolo non discese più.. Raggiunta questa altezza, il poeta vi si mantenne, ma non potè più superarla. Però, nutrito di maggiori esperienze e di più forti pensieri, égli dettò, qualche anno dopo, i Sepolcri, che per grandezza morale vinsero ogni altra sua poesia. La virtù, che spira dall'« urne dei forti » e accende l'animo dei generosi; il pensiero sempre presen te della patria; il concetto della « morte immortale » dei grandi, intorno a cui non gravita l'ala pesan te del silenzio ma palpita la benedizione dei figli (perche dalle tombe si perpetua la vita della nazione e i morti parlano un eterno linguaggio operante nella memoria dei nennti: e, infine, la concezione profonda e acuta, che interrogare la storia significa rivelare l'umanità a se stessa, sono tutte cose che conferiscono a questo carme una impareggiabile dignità. Anche nei Sepolcri il Fo siasmrgcllemndscfrssebvsriempmv scolo intese rivolgersi, come scrisse, ic non al sillogismo dei lettori, ma alla fantasia ed al cuore», persuaso di aver desunto dai Greci questo modo di poesia, mentre l'aveva in realtà derivato unicamente dal suo genio poetico. Per questa ragione, egli andava cercando e ricercando le imagini più lucenti e gemmate che gli fornisse la sua portentosa attività creatrice e le foggiava e rifoggiava in nuovi modi; ma la trasparenza e la luminosità e la perspicuità e l'equilibrio delizioso dei Sonetti e delle Odi, prescindendo dall'altezza morale e con cettuale della sua nuova poesia, se furono ancora da lui felicemente raggiunti, non furono più oltrepassati. Il Foscolo aveva già toccato la sua particolare forma di perfezione estetica. . Quando nelle Grazie s'industriò di brunire e d'ingioiellare ancor più il verso e di arricchirlo di imagini sempre più sfavillanti, la possa gli resse sino ad un certo limite, oltre il quale non gli fu più concesso di estrarre nuove e sorprendenti gemme dallo scrigno della sua fantasia. E le Grazie rimasero incompiute. Ma puT frammentarie, nella loro immensa bellezza, ingentiliscono tuttavia e confortano ancora il mondo. Educano alla virtù e dispensano ancora agli uomini i munifici doni che ricevono dai Numi, e suscitano ancora, per opera del Foscolo, nuovi, improvvisi e teneri sensi, pur che si abbia un animo virile e gentile in cui vibri caldo e sincero l'affetto per la patria, perchè a cnieste Dee non favella chi la patria oblia. Poesia anche questa, come quella dei Sepolcri, alta e animosa, a cui fanno degno riscontra la. grandezza dell'animo e la nobiltà di carattere dell'uomo. Poesia sostanziata di solenni pensieri e di austere ispirazioni, entro cui è passato lo spirito del Foscolo con la ricchezza delle sue virtù e senza le labili scorie dei suoi difetti. Quel bisogno di perfezione morale, che lo faceva piange re sulle sue debolezze, si rispecchia nella meditata ed elaborata elocuzione, che attinge una chiarità cristallina attraverso un profondo e tormentoso travaglio. Nella sua in contentàbilità artistica quasi si ri flette il vigile e* forte sentimento che egli ebbe di sè, e il suo smisurato amor proprio. Ma la dolce e inarrivabile armonia del suo verso ci dice la tenerezza dei suoi affetti, ci svela l'indeterminato senso del dolore che portò nel cuore e che cercava di confortare, come il povero Ortis, col balsamo della bellezza, e ci fa sentire e amare il suo rimpianto per il rapido sfiorire delle cose care e condividere la sua amarezza profonda per i mali della sua patria, ai quali non vedeva rimedio. Donde quella malinconia soave e quel con tenuto accoramento che si avverto no. come una venatura romantica nel fondo del suo classicismo. GIULIO BERTONI dell'Università di Torino. tutfdecssFretlpsgsdtlagc