Melanconie e miserie del teatro di varietà nelle memorie di Viviana

Melanconie e miserie del teatro di varietà nelle memorie di Viviana Melanconie e miserie del teatro di varietà nelle memorie di Viviana In Questo terzo capitolo delle sue pittoresche memorie — scritte per « La Stampa „ — haffaele Viviani rievoca le melanconie e... t'appetito del suo tirocinio in quel «teatro di varietà >-, rial quale egli seppe poi assurgere, per virili d'ingegno creativo, alle scene dei l'arte. Sempre a Milano, nel 1906. dopo la chiusura dell'Esposizione fui scritturato dall'agente Vittorio Nipi al famoso concerto Morisetti al corso Venezia, con la paga di lire 8,50 serali e con l'obbligo del vitto in locale. L'obbligo del vitto in locale era una delle cose più tipiche che siano un di esistite nei margini del « varieté ». Le canzonettiste, e per conseguenza anche gli altri « numeri » che componevano il programma, dovevano mangiare a mezzogiorno nei ristorante annesso al piccolo teatro, dall'una alle tre provare con l'orchestra, innanzi ad una sala di giovani schiamazzanti che lanciavano lazzi di ogni sorta, ora spiritosi ora feroci, alle sette pranzare, alle nove dar spettacolo e dopo lo spettacolo rimanere nel locale fino alle tre del mattino. Il nutrimento non era tutto ciò che si potesse desiderare e costava parecchio. Questa vita vissi io colà (per otto giorni e per fare si che della paglietta mi rimanessero almeno i soldi per la casa e per la lavatura della poca biancheria, ad ogni pasto mi ordinavo un minestrone che il proprietario usava preparare in apposite ciotolette di latta, messe in fila l'ima dietro l'altra a raffreddare. Questi minestroni erano le cose più a buon mer cato del menu: costavano ottanta cen- tesimi; ed io con quel po' po' di appe-tito( per secondo piatto facevo bis. Un particolare curioso: il soliitto della sala da pranzo del « Morisetti » era cosparso di piccole lampadine elettriche, e vicino al bureau vi era una Ala di interruttori. Ad ogni bottiglia di allampanile che una canzonettista faceva stappare, il proprietario girava una chiavetta ed il soffitto si accendeva, di un gruppo di lampadine, e cosi ogni sera tra le artiste del « Morisetti » si ingaggiava una gara: a chi faceva accendere più lampadine, ossia a chi faceva consumare più bpttiglie di champagne, e quella canzonettista che riusciva per prima a fare accendala tutto il soffitto, passava nella sera seguente a fare il numero di centro 1 II debatto torinese Dal « Morisetti » passai al concerto * Emilia » di Torino a Porta Palazzo. La proprietaria, signora Margherita Manavello, mi aveva scritturato a mezzo dell'agente Giuseppe Ferri a lire 10 serali. Sapeva, per sentito dire, che io avevo delle possibilità, ina non mi conosceva. Mi presentai all'» Emilia» la sera del debutto, senza soprabito. Erano i primi di dicembre, e necessariamente ero intirizzilo dal freddo. Mi feci aiutare dal vetturino a "scendere la piccola cassa dalla carrozza, e mi feci annunziare. La signora Manavello mi venne incontro, e quando io dissi: « Viviani », mi rispose premurosa: « E'-arrivato? metta la cassa sul palcoscenico... lui dov'è? ». Mi aveva preso, si capisce, per' il segretario di Viviani, se non per il facchino. La lingua non voleva saperne di rispondere. Se avessi avuto i soldi per ritornare indietro avrei risposto: a Viviani ha ripreso il treno ed è ritornato a Milano », ma dovetti dopo qualche minuto di silenzio, fiocamente pronunziare : — Viviani sono iol — Uh scusi! Una enorme risata e scomparve. Dissi con una certa filosofia ad un cameriere che aveva assistito alla scena e che mi guardava con un certo sorriso sarcastico: « Meno male, se cosi accadrà per il debutto, stasera otterrò il trionfo ». E la sera debultai. Una sala gremita, dalla platea mi accolsero prima con diffidenza, con i diversi: « Ma chi è? Ma chi ò? Andiamo, facci riderei», ecc., ecc., poi a poco a poco acquistai terreno e Unii con riscuotere il consenso generale. Ricordo che feci otto macchiette ; la signora Manavello quando scesi a mangiare, mi fece chiamare e volle, bontà sua, farmi complimenti come artista e le scuse come uomo, per la « svista presa ». — Scusi, sa — mi disse — vedendola senza paletot con questo freddo... — Che vuole, noi altri meridionali abituati al caldo... sentiamo caldo anche d'inverno. La signara sorrise ancora, ma la sua risaia questa volta era diversa, più breve, meno forte, meno allegra, quasi un sorridere di convenienza, ed io capii che si era commossa ed aveva avuto pena del mio... caldo l L'agente Fèrri qualche sera dopo mi regalò un costume suo ed un soprabito nuovissimo, con un garbo ed una signorilità che mi palesavano tutta la gentilezza dell'anima torinese. Mi disse: — Sai, dopo la malattia, sono ingrassato talmente che un vestito nuovo ed un paletot mai messi non mi vanno più. Difatti erano nuovi fiammanti; il mantello di Casimiro mi stava come un amore e provai tanto un senso di benessere che l'anima mia era tutta pervasa di infinita riconoscenza. La mamma Dafl'« Emilia », passai all'«Alcazar» di Genova in via della Casana e poi al concerto » Roma » di Alessandria scritturato in copia con mia sorella perchè stanco di stare solo e deside rando il fiato di mamma mia feci scritturare anche Luisella con me e ad Alessandria avemmo un contratto di lire 22 serali, vitto in locale e obbligo di fare tre » numeri ossia numeri a soli e duetto I Vitto in locale : 3 a mangiare e non c'erano minestroni' Nel febbraio del 1907, ero con mia sorella e mamma al Concerto « Cavour » dì Vercelli. Una sera fummo invitati ad un veglione che i giornalisti davano al Teatro Municipale. Mamma mia, donna alla buona, voleva rimanere a casa. Noi non volemmo lasciarla sola, ci eia così caro poterle procurare un piccolo svago. Insistemmo porche fosse venuta anch'essa. Senonciiè badammo a la sua ■ mise ». — Dovete mettervi il cappello — le dicemmo. Mamma, che in vita sua non aveva mai portato il cappello, protestò dapprima, ma alle nostre affettuose insistenze cedette. • Lasciarti sola a casa non è giusto, e a venire senza cappello non e bello ». Eravamo in due ad insistere e vincemmo. Luisella appuntò con tre lunghi spilloni un suo cappello grigio con piume in testa a mia madre, e ne curò la stabilità. Stava bene, ma mia madre cambiò d'umore. Con quel fastidio in testa si diede tale un contegno severo che qualche cosa di grottesco si mescolava alla sua sostenutezza. Non potevamo ridere per non dissuaderla ed uscimmo di casa. Ma che veglione! Il nostro andare era funereo; mia madre corrucciata non profferiva parola nò rispondeva più a qualsiasi nostra domanda. Camminava col posso piccolo e svelto e con una certa rigidezza. Non curvandosi mai e con la testa dritta come se il cappello fosse stata qualche cesta da mantenere in equilibrio. Cominciammo a guardarci, io e Luisella e con gli occhi ci dicemmo : « Povera mamma, l'abbiamo avvelenata ». J Entrammo' al veglione. Sfarzo di iucli maSciiere d'ambo i sessi festanti, 1getto di coriandoli. Credevamo di po¬ a i a e a a i a 0 e i o a e i l a l e i a i a d i o a lerci divertire... Macché... Mia madre seduta in un angolo sembrava una « pupa » talmente era immobile e dritta. Non mangiò, non bevve, non rise. Ad ogni nostro sguardo pronunciava: « M'avite 'mpelicitata! * .(Mi avete infelicitata). Alla fine, per toglierla da quella esasperante estaticità le dicemmo: — Volete togliervelo? E6sa con voce adirata, ma contenuta, rispose : — No, me l'avite fatto mettere?... mo me Vaaaia tenti — quasi per vendicarsi I Uscimmo e andammo a casa. Se lo strappò sdegnata e poi... ne fece quasi una malattia. Certo ci portò il broncio per qualche settimana. D'allora in poi nienta più cappello... La prova del fuoco Restammo per qualche anno nell'Alta Italia facendo e rifacendo tutti 1 locali di second'ordine, migliorandoci sempre, e finimmo per andare all'Eden di Bologna il cui proprietario, signor Cesare Medica, mi scritturò dopo vivissime insistenze e forse stanco delle mie suppliche. L'c Eden » di Bologna era considerato, ed era di fatto, il locale più terribile da « passare ». Un artista che « passava » all'» Eden » di Bologna, acquistava di considerazione in tutto l'ambiente di varietà. Come uomini vi passavano solo i grandi stelloni di allora: Maldacea, Pasquariello, Villani. Mai comico di valore inferiore aveva potuto calcare quelle scene ed io « vergine vergine » capitai giusto dopo Villani, il quale era stato preceduto da Pasquariello che, a sua volta, aveva sostituito Maldacea. Eia per me tale una prova che non potevo assolutamente sostenere. Quando Medica mi vide, ebbe una occhiatura scrutatrice che corse rapidamente dal cappello alle scarpe, e rispose con un lieve cenno del capo alla mia scappellata. — Che vuole — mi disse — ieri sera hd finito Villani. Vedrà che stasera sarà un disastro. E' inutile, qui, tranne quei due o tre, gli uomini non vanno I Con questa incoraggiante premessa io debuttai la sera. Tremai per la prir ma volta. Un fremito s'intpadroni dei mio spirito. Mi vidi un microbo 1 Non fu proprio un disastro, ma fui inquietato dal pubblico, per la maggior parte studenti, e si abbassò il velario dopo la terza « cosa » con mio grande sollievo. 11 successo era stato freddino... ed io umiliato ed avvilito, m'indugiavo a scendere in sala per paura di Medica. Quando, ultimo di tutti, passai davanti al suo bureau, mi disse con voce annoiata e cantilenando: — Gliel'avevo datto che qui non è cosa per i comichetti. Stasera c'era Maria Campi da giù' che sosteneva, applaudendo con tutti i suoi amici. E domani che la Campi partirà?... Difalti la Campi, ottima compagna, che mi aveva incoraggiato, parti l'indomani, e la sera seguente, prima di uscire in palcoscenico, mi feci il segno di croce; ma con tutto Iddio nel cuore il successo non mutò. Appena appena mi salvavo con lo « Scugnizzo », che rerò trovavano lungo. Era il primo uomo che si presentava ad una folla di studenti, convenuti all'«-Eden» per fare chiasso, con gli abiti laceri, con la non lieve protesa di far [pensare e di sostituire alle lepidezze maliziose qualche squarcio di vita, ai gilets multicolori, i pantaloni strappati e al colpi di gran cassa la risata beffarda. Tutto un piccolo mondo nuovo portavo con me e prima che gli occhi attenti si fermassero, che i più sensibili mi additassero all'ambiente distratto ci vollero sere e sere. Alle ultime rappresentar.ioni io piacevo, ero ascoltato attèntamente, cominciai a persuadere e a suscitare anche interesse. La sera che mi congedai dal pubblico fu, ricordo, una piccola ovazione. Medica mi strinse la mano per la prima voltai Tardi allo sposalizio Tornammo a Napoli. Mi capito per la domenica successiva a'di fare uno sposalizio, ossia andare 3■ a cantare al festino che due freschi sposi, la figlia di un fotografo di ■'Sorrento e lui figlio di un armatore di Meta, davano per le loro nozze. Mi dissero: «Voi partirete da Napoli col vaporetto di Sorrento la domenica alle 3 del pomeriggio e vi troverete per la cerimonia che avrà luogo alla sera » Mi diedero un piccolo anticipo di lire dieci e fissammo il compenso in lire 30. L'anticipo, si capisce, spari subito; e la domenica mattina presi la mia valigia con dentro cappelli curiosi, carte di musica, nasi finti, baffi, qualche giacchetta tipica a quadretti, qualche gii et sgargiante e il bastoncino, presi un biglietto di terza classe e mi mbarcai. Arrivai a Sorrento verso le sei di sera. Si era in inverno e quindi già notte. Era la fèsta del Patrono dell'incantevole paese S. Anto-nino. Ban carelle con torrone, nocciuole, caramelle, frutta, sorbetti, acqua ed altro ben di Dio. Domandai in paese ove abitasse il fotografo, trovai la casa, salii, sempre con la valigia ed il bastoncino, ad un quinto piano. Bussai, mi venne ad aprire una vecchia e quando io le dissi: — Io sono Viviani, sono venuto per cantare. La vecchia mi rispose : — E venivate domani? la festa è stata ieri, sabato. Oggi, domenica, gli sposi hanno sposato alla chiesa ed a mezzogiorno sono partiti per il viag-' gio di nozze. Dopo di che, chiesi : — Io che debbo, fare? — Ve ne dovete andare. Non pretenderete di cantare le macchiette a me? Con un nodo alla gola ridiscesi le scale. Non mi sembrava vero. Chiesi al portiere giù, un vecchio esile, curvo, con berretto da ufficiale sgallonato : — Gli sposi son partiti a mezzogiorno? — Voi chi siete? — 11 comico che doveva cantare allo sposalizio. Ah ! E quelli ieri vi aspettavano. Si sapeva che doveva venire un « buffo » da Napoli. Poi cantarono alcuni degli invitati. Due passi a piedi Mi allontanai. Per il paese ferveva la festa: bancarelle con torrone, nocciuole, caramelle ed io con un soldo in tasca! Stanco e più sfinito dalla « mazzata » ricevuta mi sedetti a terra davanti alla statua di S. Antonino, che quella sera era tutto illuminato ed aveva una grande espressione di dolore. Io non ero più allegro di lui. Guardavo con raccapriccio la via di Napoli lunga, sterminata, buia, che avrei dovuto a piedi percorrere... Avevo sete. Ad ogni passo la mia valigia aumentava di peso, sicché a mezza notte io ero a S. Agnello. All'una di notte a Piano di Sorrento, ove feci una sosta di un'ora. Ripigliai alle due la via di Meta, ove arrivai all'alba. LI *'era un caro amico, certo Francesco Colombo; avrei potuto chiedere in prestito almeno i soldi per il vaporetto, onde proseguire per Napoli non a piedi, cosa impossibile in quell'abbattiménto •morale, e con la valigia che era diventata di tre quintali. Ma alle 4 del mattino come trovarlo; E mi misi a girare per l'ameno paesello fino a scendere giù alla marina. Li vidi alle sei il primo vaporetto che si accostava nella rada ad imbarcare passeggeri per Napoli. Tra i passeggeri raccolti su di una passerella di legno e pronti per scendere nelle barche, le quali poi li portavano sotto bordo, notai un mio ex-amico di Mela e mio impresario, signor Antonino Porzio, il quale vedendomi si felicitò assai di avermi trovato e di dover fare il viaggio per Napoli insieme. Al momento che egli scese nella barca mi tese la mano per aiutarmi a scendere, ma io che non avevo i soldi per il viaggio, e che non avevo ancora raccontato a lui la mia triste peripezia, mi attardai non sapendo in quell'attimo quale decisione prendere che non compromettesse la mia dignità. Quando lui sorridendo soggiunse : — Vieni, doveva partire anche mio fratello, mi ha fatto fare pure il biglietto e non è venuto. Allora io con un 6alto, valigia e bastone, piombai nella barca e appena accanto a lui: — Uh, non ho fatto 11 biglietto. — E io ne ho due, fa niente. — Ma perchè ti vuoi incomodare? — Figurati. — Troppo gentile, grazie... -* e salimmo a bordo. Era così bella la vista, cosi accese di tiepido sole le colline, che le mie sofferenze sparirono per incanto dal mio corpo e dal mio spirito. Più il vaporetto si allontanava, più svaniva il triste ricordo. Mi sentivo sazio di luci e di poesia. Porzio mi domandò: — Da dove vieni? — Sono stato a Sorrento a fare uno sposalizio. — E ti sei imbarcato a Meta? — SI, ho voluto fare due passi a piedi. — Due passi? da Sorrento a Meta? — io sono un forte camminatore. — Com'era la sposa? — Cosi... Ed il vaporetto filava e si accostava a Vico Equense. Miriadi di barche circondavano il bordo, il sole si faceva più caldo r quel brivido di freddo che m'era penetrato nelle ossa per la brez za e per l'avventura, spari man mano ed io acquistai il mio buon umore Ero in un mare di bellezze, ove non era possibile esser tristi: Giunsi a Napoli. Mammà alla mia bussata venne ad aprirmi sorridente. Aspettava il figlio che avesse portato il ricavato della sua fatica. E quando io narrai la non lieta istoria, gli occhi di mamma mia si velarono di lacrime. RAFFAELLO VIVIANI p'