Plenilunio su Carcassona

Plenilunio su Carcassona Plenilunio su Carcassona o e a r o i i n e i o e , n o i l o i a o t t o e . o n n , , ò n i r e o a a i o a sn isà CARCASSONA, settembre. Appena il tempo di depoiTe là valigia nell'hall, e già domando all'albergatore : — Quanto tempo occorre per salire alla Città vecchia7 — Venti mimmi. Ma an-dTete di quest'ora? A piedi? — Se non c'è un fiaccheraio byroniano, di 'buona volontà... — Sarà difficile... Ma le imprese audaci trovano sempre i loro uomini. Il fiaccheraio c'è, davanti al Giardino delle Piante: è un vecchietto che, piegato in dare, dorme a casse-ita, mentre il suo antichissimo quadrupede cede sotto il peso di un sonno che sembra millenario. L'insolita avventura galvanizza i due fantasmi senili, e partiamo a vari trotto insolito, sui lastricati risonanti. Verzieri e fontane Mezzanotte rintocca già dalla torre di San Vincenzo, che siamo già nel, cuore di Carcassona nuova. La città capoluogo del dipartimento dell'Aude. fa pensare, per le sue eleganze architettoniche e vegetali, a una Torino in miniatura. Sotto le saracinesche calate a metà, i garzoni dei caffè e i rari nottambuli di provincia guardano lo strano equipaggio e il turista folle. Piazze e viali alberati sono ormai senza nome. Una notte ideale cancella tutte le etichette: « Rite de la Liberia, Boulevard Jaurès, Square Gambetta... ». Non ci sono che sfilate di platani, misteriosi verzieri, mormorii d'acque. In una vasta spianata zampilla una magnifica fontana. — E' marmo d'Italia! — spiega 11 eoe cbiere. Intorno, nei folti, cantano gli usignuoli. Notte di Linguadoca, plenilu nio di trovatoril Si comincia a salire. Passiamo il Pornte Vecchio, sull'Aude. La luna sparpaglia nell'acqua monete d'oro. Ma la Citò, la città vecchia e turrita, rimane ancora invisibile, dietro lè gobbe della collina e le piante fogliose. Siamo nel sobborgo della Trivalle, l'antico sobborgo romano, in una viuzza tortuosa, dal le piccole case aggrondate, illuminata ancora da fanali a gas dalla luce cadaverica. Ci sono delle porte socchiuse, passano delle ombre, risuonano del passi solitari. Da una persiana rigata di luci, viene un ridere di donne. Malavita o interni famigliari? Ora si rampa lungo una costa deserta d'uomini, popolata di piante. La luna, nel suo pieno, è stanotte senza macchia, come l'oro nuovo. E' una notte senza nuvole, splendida e ventosa, piena di mormorii e di fremiti. Non *o da qual parte si sia levato questo ven to asciutto e vasto: forse dalle Cevenne, che inazzurrano laggiù verso est l'orizzonte, forse dai Pirenei boscosi; fors'anche dal mare... Cori di grilli cantano a distesa. L'erta si fa più ripida: il cavallo sale ormai al passo, Dove sono dunque le torri e 1 merli di Carcassona la Vecchia ? Non si scor gono ancora, e sembra che non si debbano vedere più. Dissimulata come in un agguato eppure incombente, la città feudale dev'essere prossima, forse dietro quella cortina di altieri secolari. A un tratto si odono i lamenti dei chiù Sono le voci dei ruderi. E d'improvvi so, come allo spartirsi d'un velarlo appare uno scenario enorme, un ba luardo ciclopico: la Porta Narbonese Cinquanta torri a cono La visione è immensa, oserei dire pa radossulie: è una fungaia di tetti a cono, appuntiti come berretti di maghi e di astrologhi neri. E' una visione di fiaba. Avevo concepito con l'immagi nazione, un castello gigantesco, una mole medievale serrala, complessa strapiombante. Ma questo paesaggio di costruzioni millenarie supera ogni immaginazione. E' tutta una distesa di castelli e di chiese, di torri e di merli di mulini e di fucine, con cinture e piazze, ponti e caponiere, lizze e bar baoani. E' un enorme sistema di baluardi, creati da diversi popoli e da diverse razze, elevatisi e stratificatis attraverso i secoli, dai primi cippi gal liei e dai primi blocchi romani, fino alle ricostruzioni visigote e alle più formidabili superstrotture feudali. Da! primitivo castellani romano, la sago ma di Carcassona s'è venuta complicando, moltiplicanido ed elevando in queste cinquanta torri ohe giganteggiano d'oltre cinquanta metri dal suo lo. E tutta questa molo è frazionata spezzata, scavata in cento scompaiti memi e cento ridotti, ognuno dei qual doveva, secondo i precetti dell'arte mi litare e della tecnica d'assedio, per mettere la ritirata progressiva, la di fesa a palmo a palmo. Perciò questa paurosa fortezza dell'Età di Mezzo, ta gliata d'ombre, scavata d'abissi, bu caia di trappole e di gole di lupo sbarrata di catene e piena di ponti le voto-i, appare in tutto il suo nero orrore, rievoca in ogni pietra e a ogni passo, lotte feroci e zuffe disperate, oro dulia ed eroismi senza nome. Queste cinquanta torri, incappellate d'enormi coni, sui quali la luna stam pa riflessi azzurri, dominano col loro silenzio la notte. Cinquanta giganti sepuzidiludaseSfeciorodpiritrricrlege1idtobesu« nScougforrat bcavrapgscpvLWnmsdCiduintacnl'11bl'inelddtzmmEtasstailPingccdsgftrdtogpcUnfpnepsmbsimrsdmscrtpgz Cembrano dormire, sotto i loro capucci, un sonno da leggenda. Interpretazioni Ma questa è, comunque, una spiegaione romantica. Iva nostra inquietuine d'uomini nuovi cerca un'altra souzione, meno descrittiva e più profona, a questo oonglomerato di storia, questo paesaggio di torri nere che embrano un fascio di secoli pietrificati. Siamo avidii di entrare in questa città eudale, per interrogarne ogni cantucio recondito, chiedere ai bastioni il oro segreto, alle pietre il loro misteo. Come ha potuto sorgere questo proigio di architettura militare sopra un iccolo colle, quasi senza rilievo, nelimmensità d'una pianura pacifica, icca di vigne, di grani, di frutti e di ranquille industrie? Quale ragione stoica ha permesso questa formidabile reazione, questo monumento mondiae? Forse la sterile follia degli Albiesl, questi malthusiani medievali che, sommo della loro eresia, mettevano 1 principio che « procreare è un deitto »? O forse le orociate di Simone i Montone, il loro spietato macellaore, l'uomo che — secondo la sentenza enedettina — « ebbe una passione smiurata di grandezza • e tu altrettanto duro, vendicativo, crudele e sanguiario » quanto eccellente condottiero? Sono ragioni parziali, anguste e die omunque inclinano alla settarietà. C'è una ragione etnica e cosmica nelle grandi creazioni, una ragione più proonda. La patria di Fabre d'Eglantine So bene che storici e letterati vi daranno invece le più svariate e dispaate interpretazioni. E qualche esteta in J * _ «■_:..;„ ^1 i »A ni <-> rrn *>i nho far. berretto frigio vi dirà magari che Carassona è celebre per aver dato i natali a Fabre d'Eglantine, il poeta della Rivoluzione e della • Marsigliese ». Oppure i più moderni esegeti vi dtanno che Carcassona è celebre come patria del generale Sarrail, il sanguigno e sfortunato condottiero, che si laciò sfuggire il bastone da maresciallo per eccesso di critica. E non mancherà l'americanista che vi citerà il romanzo americano « The Ligtnlnq Conductor » di C. N. e A. M. WilHamson, al quale Carcassona deve non soltanto il suo nome, ma la sua moda nel mondo... O piuttosto la interpretazione più emplice e più pronta ve la darà il Sindacato d'iniziativa, col concorso della «Camera d'industria turistica» di Carcassona, e cioè che la Cité è stata deata dal buon Dio e fabbricata dagli uomini guerrieri per rimanere il più nsigne monumento d'architettura miliare della Francia e il più formidabile contro di turismo tra Cevenne e Pirenei. In questo caso Prospero Merimée, 'autore di Carmen, nel 1835 lanciò 1 primo grido d'allarme contro l'abbandono in cui era lasciata la Cile, e 'archeologo Cros-Mayrevielle, che con ntelligenza di storico, influito d'artista e pazienza da certosino la reintegrò e a restituì alla sua primitiva bellezza, diventerebbero i nomi più formidabili della storia di Carcassona. ad uso dei turisti internazionali. Ma nonostante tutte queste spiegazioni, il mistero turrito di questa formidabile improvvisazione guerriera in mezzo a una pacifica pianura, rimane. Essa è la nera «Città morta» in cui canano le civette, mentre il plenilunio stampa riflessi azzurri sulle ardesie sterminate. Vita notturna Ma la città non è morta e disabitaa come sembra. Dopo aver lasciato l naccheraio al ponte levatoio della Porta Narbonese (« E' rigorosamente nterdetto l'accesso alle vetture ») salgo per un vicolo serpentiforme che si chiama Rue du Piò. Si sentono voci, cicalecci, finestre che si chiudono. C'è dell'umanità che vive. Non si tratta soltanto di guardiani tassativi e di figure burocratiche; ma di donne e di fanciulli. Il polline della vita è rientrato in questo gigantesco ammasso di pietra morta, si è annidato, ha creao. Non c'è soltanto un grande albergo, nel cui bar alcuni anglosassoni paonazzi succhiano dei cocìctails, ma ci sono caffè, negozi, case, focolari. Una donna spagnuola culla, nel suo negozio di cartoline illustrate, un infante cantandogli una nenia di Paraplona. Seppellita tra questi muraglioni la vita umana sembra più intima e più preziosa; si abbarbica con radici più profonde. C'è tutt'intorno un brusio di villaggio che stenta ad addormentarsi perchè la notte è troppo bella. Ripugna pensare che questa vita non sia che il prodotto artificioso d'una iniziativa turistica, una collocazione di mano d'opera, una ripopolazione decorativa ad uso dei visitatori e a soddi sfazione dei loro bisogni. Ad ogni modo e ad onta di tutto ciò, è una vita meridionale che soverchia i freddi schemi, sforza le convenzioni, erompe come il sangue, si sovrappone ai ruderi archeologici, e ne assimila e ne trasforma le cellule morte. Salgo alla torre di Saint Martin per una scalinata da teatro antico, tagliata nella pietra. Qui lo sguardo spazia nella notte lunare e le orecchie si ssriempiono di vento come conchiglie. Non è un vento basso e bonario, un vento locale. E' un soffio vasto, perenne, continuamente ritmato da un cuore profondo, da un'ansia marina. Di fronte a me, sia pure lontano cinquanta, sessanta chilometri in linea d'aria, non può esserci che il mare. E' il Mediterraneo. Il cuore si sfa di dolcezza: sento l'ansito della Patria, dell'Italia. Più in là, lungo la costa sempre più rocciosa, flutti più azzurri, cercano nelle insenature i palmizi e gli olivi, le piccole case dipinte a colori vivaci davanti alle quali sono sdraiate le barche e si stendono le reti dei pescatori. Più in là dopo Ventimiglia, e giù giù verso Capo Mele e Capo Noli ed oltre, c'è la nostra Riviera, i suoi colli, i suoi torrenti, le ombrelle dei suoi pini, le sue vigne, i suoi fichi succulenti, il suo settembre gravido e dolce, il suo paesaggio vario ed unico, versatile e originale: in cui povertà e signoria si compongono nobilmente in un unico volto. E' l'Italia. Così d'improvviso, attraverso il soffio carico di salsèdini e d'aromi, anche il significato di Carcassona mi è palese Questa città forte, che nel suoi lineamenti guerrieri ha conservato duramente e perennemente i-impronta del castellum, il creatore segno di Roma, non & la città dei Visigoti o del Trencavel, degli Albigesi o del Crociati, dei Monforte o dei Re di Francia. Posta tra Pirenei e Cevenne, al centro del Mezzogiorno ricco, polposo e canoro, nell'unico varco attraverso il quale l'urto settentrionale premeva verso il Mediterraneo, Carcassona è storicamente la guardia del Sud, la difesa di quel mare più azzurro e più fausto di tutti gli altri, verso il quale ì barbari nordici dalle epoche remote hanno eternamente spinto le loro cupidigie. Perciò essa mi appa re degna di quel nome di « Pulcella della Linguadoca » che gli storici le hanno assegnato ; perciò la sento più vicina al mio cuore, e, oserei dire, più italiana. Curio Mortarì.

Persone citate: Cros, Fabre, Gambetta, Monforte, Ventimiglia