Ricordi letterari di Leone Daudet di Concetto Pettinato

Ricordi letterari di Leone Daudet Ricordi letterari di Leone Daudet PARIGI, marzo. Nel proprio «esilio» di Brusselles (Leone Daudet continua infanticabilc ad ammucchiare pagine. Dopo i due .volumi del Courrier des Paya-Bas, ecco, stampato dal Gallimard, il primo tomo di un Paris vécu che sembra voler fornirci un eaggio di quel che saranno un giorno le Memorie dell'ardente polemista. Evocati alla rinfusa secondo le opportunità della topografia parigina, i ricordi prossimi <e remoti del condirettore dell'Action Fràncaisc si avvicendano e si acca vallano con la ridondanza caratteristica del suo stile ma non senza una brusca e colorita efficacia. Vedi passare sullo schermo la prima casa dei Daudet nella rue Pavée al Marais, dove il mercoledì sotto la lucerna del tinello il Flaubert, lo Zola, il Turghenieif, Edmondo de Goncourt ■> il Barbey d'Aurevilly si stringevano intorno all'autore di Tartarin in una affettuosa gara di lepidezze e di buonumore. Gustavo Flaubert, gigantesco, tuonava dalla soglia, arrivando : — Buon dì, Alfonso ! Come mi trovi? Sempre giovane, neh? Quando restavano tutti a desinare, il chiasso, le burle, l'enfasi gastronomica, le pistolettate dei turaccioli volanti per aria avrebbero rimesso il fiato in corpo ad un morto. Talora i} piccolo Leone, cui sua madre aveva fatto imparare a memoria l'esordio di f.alammbò, recitava alla brigata ammutolita come per incanto lo squarcio ramoso: « C'itati à Mégara, faubonrg de Carthage, dans leu 'jard'ms d'JIamilcar »; e, quando aveva finito, Flaubert entusiasta sollevava di peso il fanciullo per strofinargli- sulle gote fresche la propria faccia larga e lustra dai mostacci alla Vercingetorige. A quei tempi esileva ancora, se non è una illusione ottica dovuta alla lontananza, un certo cameratismo fra letterati, residuo delle battaglie romantiche, ed era possibile complimentare l'uno di essi senza vedero i colleghi presenti impallidire o torcere il naso. Il suo primo grande successo di libreria Alfonso Daudet lo dovette a 'Frontoni jeune et Ituler ainé, il romanzo cui serve di sfondo per l'appunto il curioso quartiere del Marais, quartiere di decrepiti ma nobili palazzi secenteschi pieni di depositi di stoffe e di prodotti chimici. Un bel giorno, accompagnato dal figliolo, lo scrittore si reca dallo Char- Kntier per chiederà notizie del voile. L'editore li accoglie esultando: — Successo immenso ! Abbiamo già fatto due tirature. Ne faremo una terza e toccheremo, a dir poco, le Venti mila copie. A quell'epoca in Francia venti mila copie significavano un trionfo. In Italia lo significherebbero ancora oggi. Giorgio Charpentier, commerciante dalla cosciènza delicata, abbraccia il Daudet e, sotto i suoi occhi stupefatti, lacera il contratto stipulato poche settimane avanti, per stenderne un altro quattro volte più generoso. Fuori di se dalla contentezza, l'autore prega l'inatteso mecenate di fargli anche il piacere di pagarlo in oro. c Se non si tratta che di questo! i. Padre e figlio tornano a casa con le tasche colme di zecchini, salgono lo scalone di corsa e il romanziere corre incontro alla moglie ballando e scagliando manciate d'oro attraverso il salotto. Negli annali della famiglia quella danza doveva restare memorabile sotto il nome di Passo dell'oro... Di Zola, l'autore dello Stupide ]X1X siede, conserva ricordi che non hanno naturalmente nulla di comune con un panegirico ma che si sforzano di essere benigni, in omaggio all'amicizia che legava all'autore di 'Assomoir l'autore di Sapho. Leone Daudet è parziale nell'odio ma sa esserlo anche nella solidarietà. La palazzina della rue de Bruxelles dove Io Zola si stabili quand'ebbe fatta , fortuna, era adorna di grandi blocchi di pietra portati dall'Italia, cui Edmondo de Goncourt, l'esteta della compagnia, negava ogni valore artistico e archeologico e di cui rideva almeno quanto dei falsi mobili Rinascimento, orgoglio del padrone di casa. La grande passione dello scrittore naturalista erano, in fatto di suppellettile, gli stalli, le cattedre, 1 vetri colorati ; nel che si incontrava, com'è giusto, col più autorevole dei romantici: Vittor Hugo. In conversazione soleva mostrarsi distratto, siedeva con le gambe cavalcioni e un piede in mano pensando a tutt'altro e obbb'gando gli interlocutori a ripetere due volte le stesse frasi. Bleso, diceva: « Z'accufe1! », « Affommoir », ecc. Le riunioni in casa sua non avevano pertanto la festosità calda e scintillante di quelle di casa Daudet. O^ni tanto dava lettura degli ultima capitoli del suo ultimo librò; ma il de Goncourt non si faceva scrupolo di mettersi a ridere sotto i baffi, allorchè una pagina non gli piaceva; e l'altro, strofinandosi con inquietudine la punta bifida del naso, a chiedere: — Orfù, Goncourt, che cofa ne dite? Di Vittor Hugo il Daudet ricorda la rappresentazione di Le roi s'amuse alla Comédie Francaise, nel 1883, in presenza del poeta. 11 pubblico si annoiava talmente, che non gli parve yero di approfittare della vista dei polpacci finti dell'attore Got messi alla rovescia per abbandonarsi a uno sfogo di ilarità. Lo stesso accigliato 6arcey rideva a crepapelle. All'uscita, Aureliano Scholl osservò, infilando il braccio sotto quello di Alfonso Daudet:' Il n'y a que le 'Boi, 'Alphonse, "gui te toit amusiI Spettatore del disastro, il vecchio (Hugo, cui non restavano più se non pochi mesi da vivere, sembrava assente, quasi appartenesse a un altro sazietà. Meno olimpico si mostrò, in ousfi analoghe, Paolo Heryieu. DcPsFmscfistlaelddsaIdvpPzflsnpvarzprDrpssrFBaadpfiglm1lsddsFsfintmnacpanlqdltpbngvtmztbrptneDguncnagtg«nmqsumtsjNm1mBmllCCLfsmsdgaddmdttSccfrdlLlv Dopo una prova generale finita anch'essa in un mezzo fiasco, Marcello Proust, allora poco noto, era salito sul palcoscenico della stessa Comédio Francaise per fargli i propri complimenti. Sarebbe stato meglio astenersene, ma Proust aveva troppo buon cuore per non dirsi che un autore fischiato doveva sentire maggior bisogno di complimenti che non un autore applaudito. Disgraziatamente l'Hervieu, che bolliva dalla collera, al sorriso angelico del giovanotto esclamante a mani giunte, dondolandosi sui due piedi: « Monsieur, monsieur, que ceta.it beaul » perdette la pazienza e lo apostrofò chiedendogli : — In tal caso perchè avete riso, signore ? — Ma, signore, io non ho riso 1 — Vi chiedo mille scuse, signore: avete riso due volte. Qualcuno gli aveva fatto la spia. Il futuro autore di A la rechercke du temps perdu voleva sfidare l'Hervieu a duello. Toccò al Daudet appianare l'incidente. Giacchè Marcello Proust era tutt'altro che un ammazzasette ma, come tutti i timidi, soffriva costantemente della paura che lo sospettassero di aver paura e questo lo spingeva talora a velleità cavalleresche esagerate. Fortuna che nessuno attribuiva loro soverchia importanza. Uno dei luoghi dove lo si vedeva spesso, la sera, prima che si ammalasse, era il caffè Weber sulla rue Rovaio. Vi giungeva verso mezzanotte, imbacuccato in un enorme pastrano, siedeva al tavolo dei letterati, dove già tenevano circolo Leone Daudet, Paolo Souday, critico letterario del Temps, sempre furibondo perchè qualcuno era passato senza salutarlo o fingendo di non riconoscerlo, Alfredo Capus, il caricaturista Caran d'Ache, il marchese de Flers, e ordinava un'uva o due mele. Beccando la propria frutta, badava a distribuire complimenti a dritta e a manca, col suo fare da signorina di buona famiglia: - Oh signore, signore, quanto mi piace il vostro nuovo libro!... Avete finita la vostra bella commedia, signore?... Scusate, signora, di che colore è, di giorno, cotesto incantevole mantello?... Sdolcinato e insinuante, molti non 10 potevano soffrire. Una sera, poco lontano dalla sua tavola, un celebre spadaccino, il marchese Lagrenée, disse ad alta voce: « Eh, va donc, dreyfusard I ». Proust credette la frase rivolta a lui e pregò Daudet e de Flers di recarsi tosto a chiedergliene spiegazione. Lagrenée rise tanto, che finì per alzarsi spontaneamente e venire a stringere la mano del suscettibile scrittore, che sino a quel momento non conosceva nemmeno di nome e del quale divenne poi ottimo amico. — Capite, signore — diceva Marcello ai vicini di tavola — avrebbe potuto credere che la sua forza alle aimi mi incutesse paura: ora questo non posso assolutamente ammetterlo l Il duello che non ebbe col Proust, l'Hervieu doveva averlo di lì a qualche anno con Leone Daudet, cui davano sui nervi il suo arrivismo e la sua servilità verso il potere. Partendo da questo principio, il feroce polemista avrebbe dovuto, per verità, battersi con mezza Parigi: ma è innegabile che dove non poteva giungere con la spada, egli giunse effettivamente con la penna. Fra le sue teste di turco favorite, dopo l'alta magistratura, colpevole a suo giudizio di aver lasciata impunita la morte di suo figlio Filippo, figurano Gabriele Hanotaux, José-Maria de Hérédia, Abele Hefmant e sinanco la principessa Matilde. Gabriele Hanotaux, entrato nelle grazie del padrone del Journal dopo l'affare Dreyfus, ebbe il torto di spingerlo a liquidare Daudet, Barrès e Mirbeau, da lui giudicati troppo compromettenti in un momento in cui era preferibile nuotare tra due acque per non veder calare la tiratura. Hérédia e suo genero Enrico di Régnier collaborarono alla defenestrazione e questo ci spiega perchè il Daudet votasse tanta antipatia all'autore dei Trophies, « negro sonettista balbuziente », e al « poeta dal mento di galoscia ». Meno comprensibile appare la sua animosità contro Abele Hermant, del quale evoca con soddisfazione i magri successi teatrali al Vaudeville, dove un impresario troppo longanime gli metteva in scena un lavoro ogni tanto, stimando che a per scarsi che fossero gli incassi, cela lui ferait toujours un peu de monnaie de poche ». Nemmeno le commedie cavate dai romanzi di Alfonso Daudet conobbero 11 trionfo. Dobbiamo attribuire tanto malanimo al fatto che Abele, detto Bebèl, è membro dell'Accademia, mentre non lo era Alfonso come non lo furono Balzac, Baudelaire, Michelet, Flaubert, Mistra}, i de Goncourt 1 Certo è, in ogni caso, che l'illustre Compagnia non gode delle grazie di Leone Daudet, sempre pronto a rinfacciarle di accogliere nel proprio seno una collezione « di vitelli, di molluschi, di torsoli, di zucche, di residui, di salottaj, di sottopedanti e di recar più nocumento che vantaggio alle lettere francesi, avendo adottati i fetenti costumi dei corridoj della Camera, con qualcosa di più dissueto, se è possibile, di più chiuso, meschino, viscoso e grottesco ». In quanto alla principessa Matilde, quel che gliela rende insopportabile è anzitutto l'aver rappresentato a Parigi dopo la catastrofe del Settanta il Secondo Impero, o Second Tant-Pire, come dice lui ; in se condo luogo il genere di persone che frequentavano il suo salotto della rue de Berry, dal Renan al Taine, dal Masson all'Houasaye; in terzo luogo la sua gelosia del salotto e della cucina della contessa di Loynes. La cucina dell'i arpia a testa d'aquila» era infatti, per consenso uni versale, infame. «Le gelatine sape ano di colla, i pesci puzzavano, i ini erano artefatti». Per di niùjja ozzfta di ^g*ahteschi llomesxici^n rache scarlatte che servivano a tavola versando le salse -nel collo dei commensali facevano pesare sull'adunanza un senso d'uggia funesto alla spontaneità del conversare. Lamartine scriveva impavido: Mais qne la coiislne d'Augusto M'Invile en sa riche maison Je pars, J'arrive à l'heiira Juste, Chansonnier, vous avez ralson. Ma fino a qual punto Lamartine si intendeva di culinaria? In fatto di scienza gastronomica i romantici peccavano di ingenuità, mentre la generazione di Leone Daudet ha ritrovato, vivaddio, il gusto della buona tavola. Sempre eclettico, l'autore di Paris vien, non tralascia occasioni per raccomandarci un piatto o un trattore di merito: le carni fredde al ramolaccio della Brasserie Universelle, passione di Mounet-Sully, la zuppa di cipolle della rosticceria Hans, le pernici ai cavoli che il Capus assaporava al Café Anglais, le ostriche di Drouant, le sogliole alla salsa di gamberi del ristorante italiano della Place du Tertre e cento altre glorie della cucina della metropoli. Dotati di stomaci meno sani dei nostri, i romantici preferivano bere. Alfonso Daudet diceva al figlio: «Non puoi immaginare la par¬ te avuta dall'acquavite nelle vicende dellaynia_ generazione I *^And^& Gill, caricaturista di vena, finT al manicomio per alcoolismo. Catullo Mendes, ventruto ed anfanante, girava pei teatri e le redazioni in soprabito giallo e marsina, con lo sparato coperto di macchie e la zazzera bisunta sul bavero, recitando versi di Hugo o di Banville e soffiando sugli uditori un alito d'alcool e d'etere che appestava. Un giorno nel vestibolo del Figaro, la cui redazione trovavasi allora nella rue Drouot, Leone Daudet e Maurizio Barrès sorprendono Verlaine intento a riscuotere agli sportelli la modesta pensione che il giornale gli faceva perchè non morisse di fame. Al solito il poeta era ubbriaco e, alzando in aria un grosso dito sudicio sentenziava, con un sorriso che voleva essere malizioso: «Nondimeno... Tuttavia...». — Fa pena vedere un grande poeta ridotto così ! — sospirò il cassiere. Ma Barrès, sempre filosofo : — E' l'ilota ebbro. Col suo esempio ci distoglie da un vizio tremendo. Di aneddoti pittoreschi il piacevole libro del Daudet non ha penuria. Un anno e mezzo di lontananza forzata ha infuso nello scrittore una nostalgia di Parigi che si risolve in un ottimo stimolante sentimentale della memoria. Concetto Pettinato.

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