Piccole luci

Piccole luci Piccole luci [Veniva dalla campagna. Era sempre stato con ima maestrina che si faceva chiamare zia, zia Clorinda, ma che aveva per lui i trasporti appas stonati e le tenerezze d'una mamma Era una giovane bruna, sottile, scarnita, con la bocca mesta e gli cicchi che ad ogni momento si arrossavano come per un pianto represso. Se lo teneva sempre accanto, come se non potesse saziarsi mai della sua vicinanza; in classe, proprio lì, ai suoi piedi, sopra un panchettino, e su, nella povera stanzuccia, accanto al piccolo fornello, quando cucinava, accanto, a dormire, nel lettino di ferro. Poi, quando lo portava fuori, per la campagna, seguitava ad insegnargli tante cose, come se temesse di non aver tempo a insegnargli tutto quel che sapeva; soltanto se andavano a trovare la sorella del curato, una santa ragazza, ella abbandonava la sua manina, lo metteva a sedere davanti a una tavola su cui c'era una Bibbia illustrata e gli diceva: « Sta qui savio, Renato, a guardar le figure i>. Renato guardava le figure, mentre la zia Clorinda e la sorella del curato parlavano sommessamente accanto alla finestra. Il piccolo tinello era chiaro, freddo e ravviato come un parlatorio di convento, col suo canapè durissimo, mezza dozzina di seggiole rigide e uno scaffale coi vetri pieno di libri polverosi che pareva non fossero stati aperti mai. Il signor curato veniva più tardi: era un vecchio coi capelli bianchi un po' arruffati, gli occhi pieni di mansuetudine e di bontà; nel parlare si faceva rosso per lo sforzo, essendo piuttosto balbuziente. Si curvava sul bambino, gli metteva la mano sul capo come por benedirlo e. Renato sentiva allora una tal dolcezza di calore diffondersi per tutta la sua persona, che chiudeva gli occhi come un gattino accarezzato e le figure della Bibbia si confondevano nella sua mente. Quando il signor curato disgraziatamente morì, all'improvviso, e quella santa ragazza di sua sorella ?e ne fu andata in un ritiro, la maestrina restò come una sperduta, senza protezione, con la paura di perdere il posto, per via di Renato. E allora lo maudò dalla nonna in città, dopo averlo coperto di baci e avergli bagnato i capelli di lacrime: certi goccioloni ardenti che sembravano punte di fuoco. — Più tardi ti riprenderò di nuovo, amore mio!... La nonna sbava in città, in una viuzza del centro, dentro una di quelle vecchissimo case designate da tempo al piccone e che continuano a star su coi loro muri che sono tutti una piaga e le scale che a salirle ti danno i brividi del ribrezzo, quasi che invece di portare in alto, ti facessero scendere in una cantina piena di ragnateli e le porte che sono antri di buio e il cortile coi cenci tesi da nna finestra all'altra e i mucchi di spazzatura che ti parlano soltanto della disperata tristezza dei luoghi senza sole. Il corridoio delle soffitte, in cima, pauroso, così buio da parere, un labirinto, col tanfo della miseria e il pavimento disuguale ondeggiante, coi mattoni sconnessi che ti fanno inciampare ad ogni passo.. C'è, in fondo, un piccolo taberna colo, una Madonnina di gesso, coi fiori di carta accanto, e il lumicino davanti, dentro un bicchiere, segno (che lassù si prega c si spera, ma le porte sono tutte ferocemente chiuse, a nascondere e a difendere la trage dia d'ognuno. In principio, Renato trascinò febbricitante i passi incerti nel corridoio: sembrava un ammalino sperduto, smemorato, che tentasse i pri mi passi fuor della tana. Appena una porta s'apriva egli tornava pre cipitosamente indietro, aveva intravisto su di una soglia un gatto nero con lo pupille accese o, in un interno misterioso, una specie di fantoccio gigantesco, mostruoso, legato a una sedia: era un povero scemo vestito con un grembiule di donna. Rientra va tremante nella soffitta della nonna, grande, pulita, abbellita dalle immagini dei santi alle pareti, ma soffocata dai cenci tesi ad asciugare sulle corde, intorno alla stufa accesa, dall'odore umido e acre di sapone e di lisciva. La nonna, alta, scarna, taciturna, faceva la lavandaia di panni in colore, con l'attività, lo zelo inesorabile di una religiosa che espia i suoi e altrui peccati : il peccato suo, di aver messo al mondo Clorinda, senz'aver preso marito; il peccato della figliuola, eccolo lì, quel bimbo dagli occhi troppo intelligenti, che la seguivano sempre e sembravano scoprir tutto. Un giorno scoprirono che il lumino del tabernacolo era mantenuto acceso dalla nonna e che da tutti i vicini essa era considerata come la persona più pia, più degna di quell'ufficio, una specie di sacerdotessa del luogo. Allora egli si rassicurò e prese finalmente confidenza col corridoio. Proprio lì, accanto alla Madonnina, c'era una porta, che quando s'apriva era come se uno spicchio di cielo balenasse per un attimo nel corridoio. Stavano là dentro due giovi nette anemiche che facevano le cuci trici in bianco e tutto il giorno lavo ravano sotto la finestra, tra il sofà coperto d'una fodera a righe bianche o rosse o la macchina da cucire. Segni di gentilezza, di sensibilità erano dappertutto: le pareti, abbaglianti di candore, le pianticelle sul davanzale della piccola finestra, proprh contro il cielo, la macchina semun forbita, che luccicava come se fosse d'argento e quella carta rosa frastagliata che ornava la cappa del camino, e quello tazzine da caffè bianche e celesti sul cassettone... Entrando là dentro la prima volta, Renalo fi era fatto rosso di emozione :■ aveva seditrmdupegicochpam10camcicicodenavocadiposiQanlalambdravaunlefivipommremchsosc« vostnMmerMtia 11 inapsppgouvglavoavvvanavatrichadconglafozaleqsuocuvafrled—laRchcQcunstsun-sochLstz1leaqptapmlacnlàzladngdmadndgv"mpuscuslal entito la stessa dolcezza di calore di quando la zia Clorinda lo teneva tra le braccia o il signor curato gli metteva la mano sul capo. Uua delle duo ragazze, la minore, sfaccendava per la casa, usciva cento volte al giorno, per andare a prendere o a consegnare il lavoro, e cuciva a macchina alla disperata, come se galoppasse : era bruna, piccina, solerte come un'ape. Quando vedeva Renato 0 sbaciucchiava rapidamente o giocava a nascondino con lui, per cinque minuti. La sorella invece non lo baciava mai, ma se lo faceva seder vicino e quando erano soli gli parlava continuamente. Ella non s'occupava della casa e non cuciva mai a macchina, tagliava, imbastiva, faceva i lavori fini, difficili, gli occhielli, i ricami... — Io sono molto anemica — diceva con un sorriso languido — non posso stancarmi. Io dovevo nascere signora, una specie di principessa. Quand'ero piccola come te e avevo ancora il mio papà e la mia mamma, a gente si fermava a guardarmi pola strada, piena di stupore e di ammirazione. <t Ma quella non è una bimba, diceva, e un angelo del para diso! ». Un giorno, una carrozza tirata da quattro cavalli si fermò davanti alla porta di casa mia, scese una signora: era una principessa reae. « M'hanno detto che avete una figlia che è una bellezza, una meraviglia, la voglio adottare, un giorno potrà sposare un re, essere regina, me la volete dare? ». La mia mamma, figurati, disse : « Non c'è re, nò regina che tenga, questa bimba ò mia!... ». Io dico che fece male; ora chissà dove sarei... Un'altra volta ero sola in casa: ecco tre uomini mascherati che entrano all'improvviso. « Non spaventarti, mi dicono, non vogliamo farti malo alcuno, è il nostro signore che ci ha imposto di venirti a rapire, sei tanto bella!... ». Mi portarono via in un castello, in mezzo a uua foresta : tutti i lumi erano accesi e i servi ad aspettarmi. Mi portarono in uta camera imbottita di seta celeste ricamata d'oro: a mezzanotte la porta s'aprì: era lui, 1 signore che m'aveva fatta rapire, ino splendore di giovanotto... Ti enato stava a sentire a bocca aperta, e ogni tanto si scoteva, sospirava profondamente, come a rompere un incanto, a liberarsi da un godimento troppo profondo, simile a una sofferenza. La ragazza aveva una voce meravigliosa, dolce, leggera, argentina, una voce che avrebbe fatto la fortuna di un'attrice... Con quella voce, ella raccontava a Renato le avventure più fantastiche, che, diceva, le capitavano ogni volta che usciva, sempre per quella sua straordinaria bellezza: uomini che la seguivano disperatamente, proposte di matrimonio a bruciapelo, offerte di ricchezze favolose, minacce di suicidio ai suoi rifiuti... Intanto le sue mani di rachitica, bianche e lunghissime, con le dita sforacchiate dall'ago, spia navano il percalle sull'asse, per tagliarlo e Renato, in estasi, seguiva la strada che facevano, cigolando, le forbici lunghe e lucenti. Poi egli alzava lo sguardo sul petto scarno di lei, sulle spalle aguzze, una delle quali era molto più grossa dell'altra, sulla faccia severa e lunga, dove gli occhi d'un grigio sbiadito avevano uno sguardo sdegnoso e lontano, ma vedeva soltanto il riflesso del sole che accendeva la sua fronte bianca e la frangia dei fini capelli biondi, sollevata come un'aureola. Poi il passo della sorella risuonava nel corridoio. — Zitti ora, che Ninetta non sa nulla di queste cose!... Taceva e con Renato, nel silenzio, scambiava occhiate fuggevoli e di dolce complicità, e sorrisi, che essi solo capivano. Quest'intesa durò fino al giorno in cui (era prossima l'estate e le giornate snervanti, piene di malsana stanchezza) ella si rovesciò sul sofà e sulla fronte cadaverica le colava il n-elido sudore dello svenimento. La sorella si buttò disperata su lei, a chiamarla come se fosse morta: — Lina! Lina!... E le strappava le vesti di dosso, dimenticando la presenza del bimbo, scoprendo, per ridarle 1 respiro, il misero* petto incavato, le ossa appuntite, lo scheletro che già appariva sotto la pelle giallastra e quelle spalle da gobbina. E sul suo povero viso spento il sole non batteva più. Accorsi i vicini la misero a letto ed ella non fu più che un povero cencino umano incapace ormai di reggersi in piedi. Renato non la vide più: ella non lo fece mai chiamare, fingeva sempre d'aver sonno, si copriva il viso eoi lenzuolo e là sotto, forse, piangeva. Renato tornò in campagna dalla zia Clorinda e solo al finir dell'estate, la nonna, scrivendo una cartolina, diede la notizia: ir La povera gobbina e. morta ». — Chi era la povera gobbina?... domandò la zia Clorinda. Renato si strinse nelle spalle come se non lo sapesse. La rinnegava: aveva per lei una specie di rabbia, di ribrezzo, un odio di amante ingannato. Perchè gli aveva fatto credere di essere tanto bella?... Ma più tardi, quando fu in collegio, a studiare, e la fanciullezza finiva, ed era l'ora dei turbamenti strag "enti e delle confidenze fatte all'amico più caro, egli disse piano, palpitando: — Era una meraviglia di ragazza, un angelo, sembrava che il sole le splendesse sempre in fronte... S chiamava Lina. Ed è morta. E mentre diceva questo, sentiva una felicità intima, profonda, come se gli fosse dilagata nell'anima una luce inaspettata. E ancne l'amico aveva, nel sorriso, un riflesso di quella luce. Carola Prosperi.

Persone citate: Carola Prosperi