L'orso Imbriani

L'orso Imbriani L'orso Imbriani Lo chiamò orso Scarfoglio, reccuJsendogli la novella -O.'o ne scampi dagli Orsenigo. E Croce, in quel saggio che fu considerato come una rivendicazione, rispondeva alcuni anni dopo: «Senza dubbio: ma, poiché nella fauna della letteratura compaiono tutte lo specie di animali, dagli usignoli ai cigni fino ai forti leoni e agli agili leopardi, non si Vede perchè non possano iucontrarvisi anche degli orsi. T^tto sta che Biano orsi al naturale, non orsi che si provino a ballare dietro la guida del cerretano che li mena in piazza. E Vittorio Imbriani era, se mai, un orso al naturale». Scarfoglio seguitava: «Lo facoltà mentali di Vittorio Imbriani non sono bene equilibrate»; il suo intelletto «ha tutte le ardenze incomposte e tutti gl'impeti inconsiderati e tutte le esuberanze della gioventù: col crescerò degli anni, col crescere della cultura, è rimasto sempre il medesimo, senza potere o volere ascendere mai a quella serena e sublime sfera della sofios.me della moderazione, ove lo spirito umano si libera da tutte le intemperanze ». E' facile vedere in queste parole, fra l'altro, un segno dei mutati ideali letterari della generazione somniarughiana; poiché pretendere da Imbriani, che aveva stroncato il Faust di Goethe, proprio «la sofrosuue della moderazione», cioè un atteggiamento mentale olimpico, significa non soltanto volere cosa impossibile, estranea al temperamento imbrianeeco, ma anche un'altra cosa; e cioè che fra la generazione di Imbriani, che fu la seconda generazione del Risorgimento, e quella che aveva fatto di Roma una Bisanzio («Bisanzio essi le han dato») c'era uno stacco profondo, un abisso. In quest'abisso, di Imbriani s'era perduto quasi anche il nome, se poi Croce, in Dalle ^Memorie di un critico, poteva dire che la nuova generazione ignorava di Vittorio Imbriani persino il nome. Si vede abbastanza da come ne parla Scarfoglio, che abbozzò il suo profilo d'Imbriani, uomo e scrittore, un po' a orecchio, servendosi in parte d'un vecchio cliché, e aiutandosi molto col suo gusto di lettore, non sottile ma sufficientemente esatto. 'Esatta a esempio ò l'osservazione sullo stile imbrianesco, «mezzo popolare mezzo cortigiano», e sulla sua lingua «tra di ciompo moderno e di Bcrittore cinquecentista». Ma i versi d'Imbriani è probabile che non li avesse letti, o li avesse scorsi in fretta, se può dire che «si è buttato alle •braccia di Polinnia con tanta fogai di passione, che è miracolo se non l'ha strozzata col suo inno al canape»; mentre essi sono proprio ciò che li chiamò l'autore, esercizi di prosodia, compreso il famigerato «inno al canape», in cui, a parte l'intento reazionario, c'è evidente, nel gioco degli endecasillabi e decasillabi alternati, preceduti da un quinario e chiusi da un settenario, tutti sdruccioli, il gusto della bizzarria metrica, eseguita a freddo. Altro che foga di passione ! Foga non c'è nemmeno negli altri esercizi, ma piuttosto un gusto descrittivo tendente allo scultoreo, e quasi direi al parnassiano, come nell'ode a Venere Capitolina, che il Prati trovò «piena di grazia e di pensiero». Parnassiano, è superfluo avvertirlo, non è l'animo d'Imbriani, perche egli della bellezza, classica o neoclassica, non si compiace, non si bea, pago di belle forme, ma A l'alta specie, che inconsapevole D'umano strazio, Eternamente verdine e giovane. Non ha mai lagrime egli antepone volti esagitati dall'affetto, labbra che parlino, braccia tenaci e cuori angustiati e mortali. Meglio la scarsa vita degli uomini Conscia di limiti. Dotta del tato, del tato giudice. Tutta opre e limiti! Che la infeconda beltà lapidea. Lo immortai tedio. Onde- a le vacue dive tantaslme Gli stolti invidiano. . Così finisce l'ode a Venere Capito. Una; è v'è, direi, concentrato l'ideale romano e attivo del migliore Carducci: un ideale tutto azione, nel cerchio della rugosa realtà, e con un sentimento della caducità dell'azione ch'I schiettamente moderno. L'attivismo di Vittorio Imbriani si riversò intero nella polemica, letteraria, politica e di costume. Poco più ohe quindicenne, era stato garibaldino; direttore della Patria, giornale politico moderato, avventò strali e sciabolate senza risparmio contro gli ex-servitori delle dinastie cadute che ora si camuffavano da ultraliberali («portava a sua difesa, dice il De Cesare, non un bastone, ma un randello, e temendo violenze, aveva sul tavolo dell'ufficio la rivoltella ») ; critico e polemista, scrisse quelle « stroncature» contro l'Aleardi, lo Zanella, il Fornari, che son rimaste famose; ^difensore del trono (non dell'altare, fed è questa una delle sue contraddirioni, che si spiega pensando alla tradizione del pensiero meridionale, al suo curioso hegelismo, a Spaventa, a De Meis, e in genere alla polemica dei giuristi e degli statisti na berregeImuulolache mtel'urizasptpctàutncmnacItrlEldbmZLlanlvstpNflmdpemIcreaamczpertrfinrdspoletani contro la Chiesa) si doleva : -'di dover essere più monarchico del Re e di sentire «più di lui la dignità dell'ufficio e l'amore della dinastia». («Se si potesse cambiare a posta propria di convincimenti e di affetti, vorrei proprio cavarmi il gusto —- scrive in una lettera a Bertrando Spaventa — di divenire repubblicano e nemico di casa Savoia, come il presidente del Consiglio dei Ministri...*). Non ci fu patriota, uomo d'azione, polemista meno arrendevole di lui dal '60 in poi; da quando cioè, dopotin paio d'anni di soggiorno a Ber-lino, tornò a Napoli, dove mancava da tredici anni, e fece della Patria un giornale aggressivo, vivacissimo, De Sanctis temperamento essenzialepiente equilibratore e realista, con o e a e o , i n i i i e ai n ò i o e , n , o è a l e a a n e e i o. arel n osi eù ie e li e li e nul rina, e; e, ia e, nea una punta di benevolenza e quasi di ottimismo, a paragone di lui può sombrare quasi un consigliere di debolezze, un persuasor di rinuncio. Non era naturalmente tale; ma la differenza dei due temperamenti si scorge esattamente da alcune lettere ad Imbriani, dalle quali questi risulta un orso arruffato e selvatico, proprio un orso al naturale. Do Sanctis, che lo aveva capito benissimo, con quella sua pronta duttilità psicologica ch'era una delle sue anni più sottili e forbite, gli scriveva : « Il primo tuo moto è di paragonare il di fuori con te, secondo la stregua e misura dell'universo, invece di sforzarti ad uscire di te e comprendere il di fuori; il che, mentre ti dà l'intelligenza delle cose, con la varietà dello spettacolo arricchisce e rinnova il tuo spirito. Questa tua abitudine ti porta a veder tutto in nero, a giudicare con parzialità, con poca generosità, e talora senza giustizia». E in un'altra lettera: «Il tempo e la sventura t'insegneranno che tu non sei nato imperatore, a cui tutti debbono chinare il capo, o frate segregato dal mondo; ma che, volendo mescolarti nelle umane faccende, sei obbligato a quel cambio di concessioni, che richiede la società». Da quest'orecchio Imbriani, si sa, .non ci sentiva; e il tempo e la sventura non gl'insegnarono nulla. Anzi, caratteristico, per la sua ingenuità, questo episodio. Era vacante il posto alla cattedra di letteratura italiana nell'Università di Napoli, dopo la morte di Settembrini. Imbriani ai presentò. Tra i membri della commissione c'era lo Zanella, e presidente era l'Aleardi, Le due « stroncature » contro l'uno e l'altro erano uscite già da alcuni anni: nel '65 quella sull'Aleardi, nel '71 quella sullo Zanella. Nel '77 le raccolse, con quella del Faust in volume, e come se niente fosse presentava le Fame usurpate fra le altre sue opere al concorso «per comprovare la sua capacità letteraria». Naturalmente, fu bocciato. E questa fu la prima volta che l'orso usci dalla tana, che ii frate segregato dal mondo chiese alla a società» un segno di riconoscimento. Pensate se glielo potevano dare. La seconda volta fu quando lo elessero consigliere provinciale per il mandamento di Pomigliano d'Arco. ddturl'dddp«aqdgecstpspdsI cast di quella elezione e gli strascichi che ne seguirono sono da lui narrati appunto in un 'opuscolo faceto e amaro. Poi non uscì più. Si diede all'erudizione; lo Scarfoglio dice a con una frenesia ardente e con un meraviglioso ìmpeto di pazienza ricercatrice; scrisse il saggio Sulle canzoni pietrose di Dante; nell'83 apparve la novella Per questo Cristo ebbi a farmi turco; raccolse le Lette re di Alessandro Poerio, e morì mentre curava la stampa dell'ultima opera di Francesco Fiorentino. L'Amalfi, nelle Onoranze, a cui collaborarono il Torraca, il De Cesare, il Talla rigo e altri, racconta lo ultime ore di Vittorio Imbriani ; e fa specie leg gere che poche ore prima di morire egli gridò: «Più lucè!», come Goethe. Dobbiamo notare che mai ùiio stesso moto fu pronunciato da due spiriti così diversi, in una stessa occasione ? Che cosa fu Vittorio Imbriani? Cosa resta di lui? I contemporanei non gli riconobbero in genere qualità d'artista. Sì, Settembrini, che appartiene alla prima generazione del Risorgimento, gli riconobbe e ammirò con benevolenza «la vena feconda e il facile brio», ma naturalmente gli piacque di più il aoarattere in domito, che t'induce a menargli buone perfino le impertinenze». De Sanctis, della medesima generazione del Settembrini, e suo maestro, anche se lo esortava a uscire nel mondo, a far qualche concessione alla società, apprezzò, in fondo, di più questo suo « carattere meravigliosamente inflessibile » ; e così, più o meno, gli altri. I suoi coetanei riconobbero il suo talento d'erudito, e la forza e l'estro della sua polemica. In quanto all'artista, credo che si uniformassero suppergiù al parere espresso poi da Felice Tocco nella prefazione agli Studi danteschi: «Non era artista, ed egli per il primo più degli altri lo riconosceva, ed i suoi versi intitolava esercizi di prosodia, e nei discorsi intimi le sue novelle chiamava ore d'ozio ». La critica posteriore, da Scarfoglio a Croce, ed ora più decisamente Francesco Flora, che ha egregiamente curata per la collezione ojettiaua dei Treves una scelta delle più belle pagine di Imbriani, è invece sempre più propensa a considerare la parte artistica dell'opera imbrianesca come la sua parte migliore. 11 Flora auzi, in un punto del suo bel ritratto (un ritratto compiuto e vivo di Imbriani patriota, uomo e scrittore) osserva che «il meglio del suo animo, e quello che più conta fu un dono artistico, sia che scrivesse teorie e critiche, sia che seri vessa romanzi, novelle ed aneddoti; ma a questa sua qualità ben pochi fecero attenzione : eppure era la qualità che intona tutti i suoi scritti e in fondo li riscatta anche dall'asprezza e dalla violenza ». Ora, eccetto in pochi brani delia novella delle Tre maruzze, in qualche pagina del Per questo Cristo, e qua e là negli aned gfnvqrfsgacnrtcacgeCnpponStlfnva doti briosi, arguti, alcuni dei quali -''il Flora ha tratti anche dalle el iaofto do a il ie, operecritiche, ben poco questo « dono artistico » si vede, non dico splendere o fluire, ma correre spedito, senza impaccio. E non è detto che talvolta gl'impacci, Imbriani non ce li metta di proposito: anzi ci si diverte. Si diverte a esempio nel bel mezzo della novella delle Tre muruzzo a notare che in un'arietta di Metastasio: Di chi mi fiderò Se tu m'iugaunil c'è una cacofonia: forse la sola, av-ui poverte, commessa da quello sdolcinato r-;verseggiatore. « Di chi mi fi! miseriva cordia, quante i ! Ih ! Ih! Ih ! ». ia Certo è divertente; e qui perchè il o, rilievo è brevissimo, ci sta bene. Ma ale in altri luoghi non è sempre così; on e non vorremmo aver l'aria di notar delle quisquilie. I brani, I Proci della principessa, della novella Matr'Impicca a esempio, sono d'un umorismo greve, monotono: l'invercaimiglianza del tema non tocca 'arte. Meglio, come dicevo, gli aneddoti; che gli esecra dalla penna vivi di qncWiniprovviso ch'è tanta parte del suo temperamento, anohe nella polemioa. Ed è forse in questa « estrosità >, in quel suo subitaneo accendersi del riso e della beffa, in quel calare della bottata e del fendente, in quelle insospettate « originalità » cho colpirono la fantasia e attirarono la simpatia di Croce ancora scolaro di liceo, il meglio dello spirito di Vittorio Imbriani, cioè il tratto suo più vivo, personale; il suo più intimo succo. La sua fisonomia, così cruda, tesa, severa, alla Barbey, si ravviva all'improvviso, per questi giochi dell'estro, d'un'aria quasi liete, vicina allo scherzo. L'orso sorride. 0. titta rosa.

Luoghi citati: Napoli, Roma, Savoia, Talla