L'Ottocento, secolo di lotte e di speranze

L'Ottocento, secolo di lotte e di speranze La Mostra centenaria della « Proniotrice » L'Ottocento, secolo di lotte e di speranze i Roma, 2i notte. Fu nel 1830 — in piena Roma romantica e reazionaria — che il cardinale Della Somalia, segretario di Stato di S. S. Leone XII, istituì quella società tra gli amatori ■€ cultori di belle arti di cui oggi si celebra il centenario. Un secolo di gloria e di lavoro intenso, un secolo di procreazione feconda, che ormai si può considerare serenamente anche da coloro — come è colui che scrive queste note — che pure presero parte alle ultime battaglie e si gettarono appassionatamente nella lotta. Perchè io non capisco veramente la ragione per la quale 1 giovani di ogg.l se la prendono tanto con l'Ottocento. L'Ottocento ormai è andato «col settemila anni di Ieri « e può essere considerato con la stessa serenità con la guaio si considerano i suoi prede cessori. Chi oserebbe oggi, senza de stare le risa, prendersela col settecentisti o col quattrocentisti? Il tempo livella tutti, a seconda del loro merito e delle opere che hanno prodotto, e nell'anno di grazia 1930 Giovanni Fat tori diviene contemporaneo di Sandro Botticelli, e l'opera di Antonio Canove va giudicata collo stesso sentimento col quale si giudica quella di Gian Lorenzo Bernini. Un secolo rivalutato Questo preambolo non è del tutto ozioso se .si pensa che intorno alla Mo stra odierna si sono fatti molti discorsi e si 6 anche cercato di creare osta coli da quei giovani, i quali temono sempre che l'esaltazione di una gloria passata sia quasi un attentato alla loro gloria futura. Si potrebbe dire che questo timore Implichi già in sè una debolezza, ma non sarebbe giusto. Certi, dopo aver tanto gridato contro l'Ottocento dichiarandolo un secolo stupì do, inetto e inferiore a ogni altro, sono un po' sorpresi dalla smentita che deriva dai fatti. E poi oggi esistono uomini di trent'anni, nati, cresciuti ed educati nel secolo XIX, i quali aweb bero pur dovuto produrre qualche ope ra definitiva. Nel 1830 Canova era già morto. Verdi era giù illustre, Manzoni aveva già pubblicato i « Promessi Sposi » e Leopardi le suo poesie. Si erano già avuto alcune fra le più ardenti opere di Mazzini, e Garibaldi cominciava già in America la sua epopea guerresca. In fondo, nei suoi primi trent'anni, il povero Ottocento non era tanto spregevole. Solamente, a cento anni di distanza, molto cose e molte dato si erano dimenticate e questa dimenticanza favoriva l'equivoco. In un'epoca in cui si vogliono rimettere in efficienza tutti i valori tradizionali della stirpe, era giusto ed era onesto riabilitare anche quell'arte, che, pur non avendo raggiunto le somme cime del secoli precedenti, aveva non pertanto dato alcuni esempi di probità, di onestà e di nazionalità, che non dovevano essere dimenticati. Con l'esposizione odierna, l'arto ottocentesca entra nelle gallerie; i giovani possono continuare a non volerla cono- scerc, ma 1 critici e le persone colte sono obbligati a studiarla, anche perconstatare che la catena non è spezza-ta, e se gli anelli sono talvolta dì un materiale meno prezioso pure riman gono ancora saldi e legano il presente al passato con indistruttibile solidità. Importanza storica e sentimentale Ma, a parte queste considerazioni, la Mostra centenaria della Società Ro mona di Amatori e Cultori ha ancheun'altra importanza, un'importanzadie direi storica e sentimentale a untempo. Nata in un periodo di reazione, per volere di un Pontefice che, nonostante le facezie di Pasquino e le accuse dei liberali, compì molte buone cose e giovò a ricostruire lo Stato dopo la tremenda bufera rivoluzionaria napoleonica, cominciò a vivere sotto . la tirannìa borghese di Gregorio XVI, cospirò sotto Pio IX, cercò di affrancarsi col Regno d'Italia e tramontò placidamente, sopraffatta da organismi nuovi e da nuove idealità sociali col secolo attuale. Morta del tutto? Questo non si può dire e forse non sarebbe bene che lo fosse, perchè certe esprbssioni di pensiero non debbonodel tutto cessare, ma trasformarsi eporre la forza della loro costituzioneal servizio dell'idea per la quale hanno combattuto. Cento anni di attivitàspesso feconda, sempre improntata a un senso nobilissimo di patriottismonon possono gettarsi proprio nel momento in cui la tradizione nazionale ritrova tutta la sua forza. « Ex corde antiquo ars novissima •, è stato detto; non bisogna dimenticarlo, e quegli stessi giovani che si proclamano neoclassici dovrebbero essere meno sdegnosi per quello che è stato fatto prima di loro. La storia della Società fra gli Amatori e Cultori di belile arti — un titolo troppo lungo che si abbrevia comunemente chiamandola con più sveltezza « la Promotrice • — si può dividere in due grandi periodi, quello pontificio o di preparazione, quello itaMano o di lotta. Il primo si svolse interamente nel piccolo palazzetto di Piazza del Popolo, che Pio VII aveva fatto costruire da Valadier « ad incremento e a beneficio delle belle arti >. Accanto alla Porta del Popolo, fra il Pincio e la'Villa Borghese, era in pieno centro mondano, dt facile accesso e di sicuro richiamo per coloro — ed allora erano tutti 1 romani — che andavano a passeggio nella vecchia villa principesca e nei nuovi giardini napoleonici. Le prime esposizioni Le esposizioni di Piazza del Popolo furono illustri e giovarono tra - l'altro anche a richiamare a Roma gli spiriti più liberi e più ribelli di quegli anni che si potrebbero chiamare di aspettativa. E infatti fei videro le opere di Girolamo Inanno che nel 1849 si era battuto accanto a Garibaldi sui bastioni di San Pancrazio, accanto a quelle del Caffi, che doveva morire gloriosamente a Lissa, dove sulla Vittorio Emanuele seguiva le fasi della battaglia per tramandarle alla storia. E Nino Costa, romano, insidiato dalla polizia ed esule a Firenze mandava i suoi quadri, insieme con quelli di Onorato Carlandi che, romano anche lui e quasi adolescente, era scappato di casa per andare a combattere gli austriaci sulle balze del Trentino, nelle rosse schiere del dittatore. Di questo periodo la mostra attuale ha una raccolta di opere veramente notevoli, che cominciano con gli Iconoclasti del Morelli, il quadro che gli ha dato il battesimo di gJo ria e lo fece giudicare — lui pensionato di S. M. borbonica — quasi un rivoluzionario, per arrivare alle grandi tele patriottiche del Cammerano, che illustrano i fatti più gloriosi del Risorgimento. Ma la storia della Società' comincia anche prima; comincia con le accademie dell'Appiani, coi mirabili ritratti dell'Hayaz, con le scene religiose del Camuccini. del Podesti e di quell'Agricola, per il quale si rinnovarono a un certo punto i tripudi popolari onde è rimasto celebre Cimabue. Ed ecco intanto che cominciano qua e là le note ribelli, i primi tentativi di reazio ne anti-accademica: la scuola di Po-sillipo, i. quadri stupefacenti del Tomaa Napoli, i paesi laziali di Nino Costa e le grandi visioni romantiche dell'agro di Alessandro Castelli a Roma, i macchiatoli toscani a Firenze, Tranquillo Cremona e Mose Bianchi a Milano, fino ai mirabili tentativi del Fon- nPcrptgmh . anesl in Piemonte, fino- a quei singo ,3are ZandomenicM a Venezia, che, a "vederlo qui nel complesso della sua 'opera, ci apparisce come un precurso- re di Rennard. Basterebbe questo periodo per stabilire l'importanza della mostra. Periodo che ci dà i paesi e le scene popolaresche di Telemaco Signorini, i soldati e i contadini di Giovanni Fattori, gli insuperati borghesi di Silvestro .Lega, je paesane dì Cristiano Bantl a g,]j animali del Palizzl, le marine di .EdoardO Dalbono, i magnifici ritratti e o i n e o! e di Scipione Vannutelli, le figurine romantiche di Tranquillo Cremona, tutta una vita e tutta una preparazione, che porterà più tardi buoni frutti nel secondo periodo e che ci permette di giudicare quel cinquantennio che va dal '20 al '70 eóme uno dei più fecondi e del più importanti per la tecnica pittorica del secolo XIX. U palazzo di via Nazionale Trasportata a Roma la capitale del Regno, te cose cambiarono d'aspetto. Il piccolo palazzo dì Piazza del Popolo non era più sufficiente; bisognava creare un nuovo edificio più vasto e più monumentale, affinchè Roma poe!tesse centralizzare tutte le forze vive, a , e dell'arte nazionale. 11 luogo scelto fu il palazzo in via Nazionale, che mon signor De Merode. aveva incominciato durante gli ultimi anni del Governo pontificio e che In quel tempo segnava come l'estrema avanguardia della 'j^o" nè'autorità per gli" stranieri, 1 nuova città. Architetto del palazzo fu |**Pio Piacentini, padre dell'attuale ac¬ cademico d'Italia, Marcello, che, Ispirandosi a certi scenari prospettici del padre Pazzi, seppe genialmente adattare lo stile barocco alle nuove esigenze. Il trionfo di Michetti Fu nel 1883 che si inaugurò solennemente il nuovo palazzo. Si inaugurò con un'esposizione internazionale d'arhe e con un congresso artistico nazionale. L'esposizione fu, per quello che riguarda la nostra pittura e la nostra scultura, un trionfo e alcuni nuovi artisti si rivelarono coaie felici promes se. Francesco Paolo Michetta, che fino allora era stato ammirato come piacevole pittore di piccole figurine contadinesche, si presentò col « Voto », che parve veramente l'annuncio di una forza nuova. Il D'Orsi espose la statua del « Proximus tuus » il Barabino aveva una delle sue spettacolose Madonne. E vi erano opere del Monteverde e di Ettore Ferrari, di Iacovaccl e del Cammerano, grandi quadri storici che rievocavano — in piena libertà finalmente — gli episodi più gloriosi del Risorgimento. Paesaggi sesquipedali, che davano l'illusione di un'arte grande, laddove non era che un'arte grossa. Il congresso artistico, che ebbe luogo nella grande serra del palazzo, fu meno decoroso e si sciolse prima della fine, concludendo poco o nulla, come tutti i congressi, ma stabilendo un principio che doveva riuscire dannoso all'arte. Si trattava di questo; le mostre attuali dovevano rimanere isolate oppure continuarsi negli anni successivi? In una parola si dovevano avere esposizioni permanenti a Roma o circolanti nelle varie città d'Italia? Le discussioni — come si può immaginare — furono violentissime. Disgrazia-tomento i romani ebbero cattivi aratori. Si ricorda ancora fra gli al tri il pittore TriatellI, romano, che per argomento Anale trovò questa frase ri masia celebre: .... « Li cuattrinl (i quattrini) so nostri e se li volemo magna noi ». E' naturale che con simili patrocl natori la teoria delle circolanti ebbe il sopravvento. Si era, come ho detto, nel 1883: bisognò aspettare là anni perchè Venezia realizzasse il voto di una Mostra internazionale permanente. Allora si credette favorire l'originalità regionale, stabilendo una Mostra an nuale in ognuna delle grandi città italiane. 11 tentativo si rinnova ancora negli anni successivi a Torino e a Milano e, mi sembra, a Napoli. Poi cadde perchè quelle Mostre campanilistiche non avevano e non potevano avere nè importanza per il pubblico ita- ufGagangcpsmi a l a e e u o o a L'antica gloria Dopo il 1883 il grande palazzo, creato per la grande esposizione, si limitò a ospitare le Mostre della Società di Amatori e Cultori: ma il successo andava diminuendo. Si cercò allora di risollevarne la sorte con vari espedienti: si tentò di galvanizzarla con l'organizzare Mostre retrospettive, alcune delle quali — come quella del ritratto nel secolo XIX o come quella riuscitissima dei Pirix de Rome, nel centenario della Accademia di Francia, ebbero una vera importanza storica e artistica. Poi cercò di ingrandirsi ospitando altre società: quella antica e non del tutto trascurabile degli acquerellisti e quella detta « In Arte Libertas», the fra il 1886 e il 1907 fiori a Roma e non inutilmente e si sciolse quando vide realizzati i suoi priwcipii con la Biennale veneziana. Oggi ha ritrovato l'antica gloria e ha voluto mostrare agli italiani tutto quello che in un secolo di lotta, di lavoro, di speranze e di ideali, ha saputo compiere nella evoluzione artistica dell'Italia. Per l'attività instancabile del suo segretario Aebenle, che è stato l'anima di questa impresa, e l'ha condotta a termine attraverso difncol ta nun lievi, oggi la vecchia Società può dire al pubblico di Roma e di Italia: ■ Ecco quello che ho fatto In un secolo di vita: ecco gli artisti che sanostati miei soci; ecco le opere che hofatto conoscere al mondo. Giudicatemi voi. non attraverso le Ire di parie o le impazienze giovanili, ma per quel che ho dato alla Patria e per quel che hocontribuito — io tempi non facili — alla sua grandezza spirituale ». DIEGO ANGELI.