Tedeschi

Tedeschi Tedeschi — Fermiamo? — Come vuoi. Fermai la macchina. Lungo le strade provinciali, camminando in auto, capita di frequente d'imbattersi in qualche pedone disfatto dal lungo cammino che alza una timida mano al vostro passaggio come per chiedervi se lo prendete su. Io, in genere, se son solo, prendo su. L'amenità dell'incontro, le chiacchiere del nuovo improvvisato compagno mi svagano il cammino. Un prete, una donnetta, una ragazza, un contadino... C'è da divertirsi. — Dove va ? — Al tal posto : la strada è lunga a farla tutta a piedi... — E li giù, di conseguenza, una filza d'interminabili confidenze: un parente malato d'andar a trovare, un affaretto da concludere nella città vicina. Confidenze di semplici pedoni, si sa, di povera gente che non ha da spendere per prendersi un treno, per salire su un'autocorriera. Ma stavolta era con me l'amico Sandro, il sedile posteriore della mia sbyder era ingombro di roba, e non cera più posto per un altro passeggero. Quindi fu con una certa riluttanza che mi decisi a fermar la macchina a venti metri dal luogo dove quei due poveri wanderbursclieti incontrati sulla provinciale ad una trentina di chilometri da Bergamo, alle cinque di sera, mi avevano fatto cenno perchè fermassi. Come mi volsi e li chiamai, essi trottarono felici verso di noi. — Bonasera! — fecero in coro come mi furono davanti. Erano due splendidi ragazzi, due veri campioni della schiatta d'Arminio: alti, biondissimi, ridenti, con quattro magnifici occhi azzurri, pieni, avrei detto di una certa satanica innocenza. Indossavano il costume classico del vagabondo tedesco del dopoguerra: pantaloncini di fustagno sostenuti da un complicato congegno di bretelle, camicia scollata sul petto abbronzato dal sole, gambe nude e scarponi. Di più portava ciascuno uno zaino di pelle di gatto e in spalla, a mo' di fucile, uno strumento musicale ravvolto in una guaina di tela azzurrina. Li facemmo salire e li accomodammo alla meglio nell'auto : poi ripigliammo il cammino. Allora nella sera fumida d'Ottobre, correndo sulla bella strada asfaltata, una rapida conversazione s'intrecciò tra noi davanti e loro dietro. — Dove andate? — A Milano. — Da dove venite? — Da Colonia. Erano partiti di là sin dall'Aprile scorso ed avevano girato a piedi mezzo mondo. Dalla Germania erari passati in Ungheria, poi discesi in Austria, percorsa la Jugoslavia, toccato-Belgrado, avevano risalita la costa sino a Fiume e Venezia, e da Venezia erano adesso in marcia verso Milano. Ci raccontarono di essere due operai addetti ad una fonderia, uno in qualità di disegnatore l'altro di forgiatore. Ma la fabbrica era stata chiusa da un pezzo, attorno non c'era più lavoro, e così essi avevano pensato di mettersi a girare il mondo alla ventura guadagnandosi da vivere cantando canzonette per i cortili e per le osterie. — E avete trovato che si può vivere a questo modo? — In Ungheria — fece il disegnatore — abbiamo avuto grande successo. Facevamo su perfino dieci lei al giorno. In Italia lavoriamo un po' meno bene. A Venezia è stato un vero disastro. Qui abbiamo dei formidabili concorrenti un po' dappertutto. Ma a Milano speriamo di rifarci. — Ve l'auguriamo di cuore. E da Milano dove intendete recarvi ? — Passeremo in Svizzera, l'attraverseremo, poi andremo in Francia dove ci recheremo a visitare i campi di Verdum. — Avete qualche morto là? — Sì, i nostri due fratelli. L'auto correva nella sera fumida d'Ottobre, lungo la strada asfaltata. Ognitanto quando io la fermavo o per far benzina o per domandar la strada, la gente scorgendo quei due visetti biondi e ridarelli sporgere tra i due sacchi dietro di noi si metteva a ridere: — I tudesc, i tudesc! — esclamavano additandoseli. Ma più tardi fermai ad una trattoria di paese. Mi aveva preso lì per lì una gran voglia di udire uno di quei loro canti selvaggi, che tanto mi piacevano. — Volete scendere a bere qualcosa in compagnia? — domandai loro. — Volontieri. Svelti come due leprotti saltano fuor dal loro buco a terra, e ci seguono attraverso il cortile dell'osteria. Il locale era pieno di luce e di gente. In un canto un gruppetto di giovani del paese giocava a carte chiassosamente sopra una tavola ricoperta da un panno verde, tra litri di vino. Sedemmo tutti ad una tavola in disparte mentre altri avventori incuriositi ci si facevano attorno con aria sorpresa commentando un po' ironicamente quei due signori italiani che si portavano attorno quei due tudesc che andavano per il mondo a vivere di carità. Come i nostri compagni ebbero trangugiato un buon bicchiere di spumante e un grosso sandwich, senz altro trassero dalle custodie i loro due strumenti, un mandolino e una chitarra, e cominciarono a cantare. In quel momento io non potetti trattenermi dal pensare, con una certa malizia, che fino a ieri i tedeschi avevano chiamato noi popolo di mandolinisti, e che ora, ahimè, le parti si erano invertite, che ora toccava a e a o i o a a loro ad andar attorno per il mondo a suonar il mandolino! Veduti in piena luce, davanti a noi, mi parvero tuttavia un po' meno simpatici, un po più rozzi di quanto mi erano apparsi sulla strada. Nelle loro fisionomie biondissime, fanciullesche, vibrava_ non so che alata e disperata tenacia, mi apparvero quasi erose da un risucchio interiore di volontà felina. Delle gale svolazzanti di vario colore pendevano dalla coccia del mandolino che il disegnatore sonava abilmente. — Cos'è questo? — domandai. Erano ricordi di ragazze incontrate nel loro cammino, ragazze ch'erano loro piaciute, con le quali avevano intrecciato qualche idillio. In Ungheria, confessarono ridendo, avevano avute delle buone fortune cantando pei cortili e nelle birrarie. A ogni ragazza avevano dedicato una gala, e su ogni gala avevano scritto una data, un nome, un motto d'amore. Mi apparve ammirevole lo spirito d'idealità che animava quei due nel loro cammino attraverso il mondo, ch'è 10 spirito stesso della Germania, lo schietto candore serbato intatto anche nelle ore più atroci e drammatiche della fame. Cantavano bene, con voci franche, con ritmo marcato; tenore era il disegnatore, baritono l'altro. Chansons à boirc, canti di strada, wolkslied: in un batter d'occhio essi ci fecero udire tutto un interessante repertorio di musiche popolari facendo echeggiare la piccola sala di suoni nervosi e marziali ma in cui passava di tanto in tanto come una vena d'infantile, cupida e maliziosa tenerezza. La padroncina del locale, una brunetta di grand'occhi con un visuccio pallido e gentile di madonnina campestre, ci aveva osservati dal suo banco, poi come a poco a poco attirata dalla strana bellezza di quei canti ci si era avvicinata timidamente, finché era rimasta li in piedi ad udire. Cessata la terza canzone, il disegnatore alzò eriì occhi e se la vide davanti. Il suo volto si rischiarò d'un tratto. La fissò, poi, dopo un momento di esitazione, le rivolse una frase gentile in tedesco. — Non capisco... — ella mormorò, arrossendo, confusa. — Chiede — soggiunse Sandro, — se può cantare un canto per lei, una canzone in suo oaor<v Ella sedette timida accanto a noi. La sua confusione la rendeva anche più bella e certo doveva infiammare 11 cuore di quel buon ragazzone di Prussiano avvezzo ai modi più spicci e più subitamente compagnevoli delle sue connazionali. Egli allora incominciò ad annaspare sulle corde e a cercarvi un canto, un canto d'amore ; nel fondo dei suoi ricordi fatti di canti di rivolta e di scherno, egli cercò un canto d'amore e di malìa che fosse degno dell'Italia, e della dolcezza delle sue donne. Finalmente si decise e mentre l'altro gli teneva bordone alla meglio un po' con In chitarra e un po' con la voce intonò un lied di Schumann. La melodia malinconica e potente sì propagò per il locale, modulata con una grazia nuova, ch'io non avevo ancora udita. Gli avventori s'erano fatti intorno come affascinati dalla sua grazia pensosa e casta che pareva sgorgata dal cuore di un'antica primavera tedesca. E quando il canto fu finito tutti applaudirono freneticamente. Il cantore si alzò, inchinò, poi improvvisamente vói tosi alla fanciulla le domandò un piccolo premio. — Un premio ? Che cosa devo darle? — ella disse. Oh, al povero wanderbursclicn sarebbe bastato un nonnulla, un piccolo scampolo, una fettuccia. — Ma se ne ha già tante attaccate al mandolino ! — fece la ragazza ridendo. Il vagabondo accarezzò con la mano il mazzo delle gale come una bella criniera, poi disse una frase che Sandro tradusse: — Il passato è passato e solo il presente è nei tuoi occhi. Un po' vergognosa, la ragazza si decise, si slegò dal polso un nastricino che le ornava la manica e glielo diede. Ma ecco che mentre si volgeva l'uscio si spalancò e fece ingresso nell'osteria un giovinottone alto e dinoccolato che col cappello tirato sugli occhi si avanzò fino alla nostra tavola e attraverso alla folla mise una mano sulla spalla della fanciulla. — Che fai qui? — le disse con voce burbera, cupamente irosa. Ella si volse, lo vide, e tremò. — Non so... ascoltavo... — Poi come fosse stata presa da un matto spavento s'alzò e fogo via dietro a lui. E i due sparirono nella stanza attigua, dalla quale, di lì a poco, si levò il clamore di un alterco sussurrato e violento. Noi partimmo quasi subito. I due tedeschi rimessi nelle custodie i loro strumenti saltarono dentro l'auto e la macchina si rimise in moto. — Che è successo? che è successo? — ci andavano chiedendo, intontiti per la scena veduta. Non riescivano a capire. — Abbiamo fatto qualcosa di male? Abbiamo sbagliato? Sandro allora riassunse la situazione con una parola : — Gelosia. Ma ancora essi non compresero. Che strane cose accadono in Italia ! Parevan dirci con quei loro grandi occhi smarriti. Arrivati a Milano, li discendemmo alla barriera. Essi avevano l'indirizzo di un Ospizio Notturno : ve li avviammo, poi li salutammo cordialmente, dando loro un po' di danaro e augurando la buona sorte. E mentre rincamminavo l'auto verso il centro della città li vidi per un'ultima volta di lontano che curvi sotto i loro zaini, gli strumenti sotto braccio, si perdevano a passo cadenzato nel viavai della gente e dei veicoli che in quell'ora aveva invaso le strade. CARLO L IN ATI.

Persone citate: Arminio, Bonasera, Schumann