Tedeschi di ieri e di oggi

Tedeschi di ieri e di oggiGLI STRANIERI A ROMA Tedeschi di ieri e di oggi ROMA, agosto. Il giorno in cui i signori Bruning e urlius arrivarono alla staziono eli Terìini, trovarono una l'olla di compatriotclie li salutava coi loro odi! nazioiali. C'era anche un certo numero di lomani che si contentarono di levarsi cappello e tutt'al ■più di applaudirli attendo le mani alla maniera latina. laudile cives: questo almeno è un salilo romano intorno a cui non ei sono dubbi ne discussioni. Del resìo, se colonia germanica è abbastanza numerosa a Roma — artisti, pasticceri, (iccoli commercianti, impiegati di ban, professori e istitutrici — bisogna diche ò sempre vissuta in buona arinola con la popolazione, anche quando loro Governo non si potesse dire Rostro amico. A gironzolare per i veci quartieri romani, ci s'imbatte spcsnella testimonianza storica della loro gressività guerriera. E come se non stasse, si dove ai lanzichenecchi di rio V d'Asburgo quel terribile sacco jl 1538 che fu ira le più sanguinose e più irreparabili distruzioni della citCon tultcì ciò, passata la guerra, techi e romani tornarono amici o, iper pieno, buoni conoscenti. Perchè il teiCo ha la grande furberia di non ur8 lo consuetudini e le manie/dei po-I dove si trova sia per suo alile che : suo divertimento, elle anzi, contamente a quello che fanno i fran- li, si asliene nel modo il più assoluto '|uella blaoue che tanto danno ha fntalla Francia nelle sue relazioni coi ari ipopoli coi quali si trovava in conilo. Per il tedesco gli spaghetti sono ^ionissimi, il vino dei Castelli eccellenit le donne tutte belle, gli uomini tutti simpatici, e se c'è da sopportare qualche burla è lui che la sopporta, ma non la fa. Di qui l'accettazione bonaria lei popolo da conquistarsi, cosa che lon ottiene mai il francese col suo chezìous oltre al quale non c'è bellezza, ion c'è eleganza, non c'è giustizia, non l'è sapienza nel mondo. II diavolo e il Vescovo Garbarlo Inoltre la razza germanica ha lasciato Jiella storia di Roma alcune tracce che (dimostrano l'influenza subita dal barbaro settentrionale nel contatto con la civiltà latina. La più significativa di Itutte è forse quella dell'imperatore OtItone I.U, che venuto a Roma alla fine del X secolo per farsi incoronare e anche per riordinare le cose della città che non andavano bene per la sua podestà Imperiale, s'innamorò talmente della città, della sua vita e delle sue consuetudini, che lasciate le rozze fogge del suo paese nativo, si vesti alla moda di Bisanzio, che era allora quelle* adottata dai patrizi romani, si costruì un palazzo sull'Aventino e sognò veramente di far rinascere l'antico Impero. Del resto egli era tedesco solo a metà, che sua madre fu quella Teofania, patrizia di Roma, donna di grande animo e di forte intelletto, che rimasta vedova ed essendosi ribellata la sua città natale, vi giunse in gran fretta e seppe governarla più da Imperalo? — come dice un cronista del tempo — che da lmperatrix, tanto che nei Regesti farfensi è curiosamente menzionati come Theophanius impcrator oiigustus, così al maschile, mentre si trattava di una donnal Strano periodo, per la storia romana, quello die precedette immediatamente II sorgere dell'anno mille. Sul seggio pontifìcio era asceso quel papa Gerberto — un francese di Aurillac in Provenza, che era stato maestro di Ottone — così dotto e cosi versato nelle scienze fisiche e matematiche da esser ritenuto mago. Le cronache di quegli anni sono piene di leggendo a suo riguardo: la magìa che egli esercitava e per la quale era stato assunto al Sommo seggio, lo rendeva padrone di grandi tesori, cosi come la sua scienza — di origine diabolica — lo metteva al di sopra di tutti 1 suoi contemporanei. Di origine diabolica, ho detto, perchè così vuole la leggenda che Martin Polono riporta nelle sue Ilisloriae Pontificiiim, die sono del secolo XIV. Secondo questa leggenda il Véscovo Gerberto avrebbe avuto dal Diavolo l'onniscienza e l'onnipotenza: da nulla si doveva guardare e di nulla doveva aver timore fuorché « di entrare in Gerusalemme Sicuro di sè, il futuro Silvestro li aveva cominciato la sua. ascesa mirabile onde a traverso le tre R — lettere cabalistiche del suo destino che egli stesso si era compiaciuto di fermare in uno di quei singolari esametri di cui è pieno il medioevo — fu vescovo di Reims, vescovo di Ravenna e vescovo di Roma, il che vuol dire Papa. Tutto dunque andava per il meglio, Quando un giorno, assistendo a una lungone religiosa nella basilica di » Santa Croce in Gerusalemme », capì l'inganno Sèi Diavolo e, certo oramai della sua jjorte prossima, s'inginocchiò in mezzoSa chiesa, si confessò in faccia al polo di tutte le sue colpe e chiese che suo cadavere, dilaniato come quello fii parricidi, fosse posto sopra una mia e sepolto dove essa si sarebbe fermata. Ila Iddio accolse quel suo pentiiljento e perdonò. Essendosi fatto come jwtva chiesto, la mula, appena carica §fil suo tragico fardello, si diresse verso S. Giovanni in Laterano, entrò in Chiesa e si fermò proprio accanto alla porta nella navata di destra. Li il papa fu sepolto e la lapide che copriva la sua tomba vi si vede ancora. Ne la leggenda lo lasciò in pace dopo inorlu, Ria fche si disse allora che quella lapide avrebbe trasudato tutte le volte che un papa stava' per morire e le ossa che essa conteneva si sarebbero mosse nella loro fossa. Le ossa oggi non si muovono più perchè andarono disperse nei molti rimaneggiamenti che la basilica lateranense ebbe a subire, ma la lapide trasuda sempre. Almeno cosi pensa ancora qualche vecchio « romano de Borgo », che. appena un papa si ammala corvè a S. Giovanni per vedere se il sepolcro di papa Gerberto ne predica o no la morte — e un potpa cosi singolare, un Imperatore anche di più, che OttoneIII fu veramente l'uomo « Un di secolo » e di quel secolo X che aveva come limite della sua esistenza la line del inondo. Già, al suo primo contatto col mondo latino aveva preso talmente in uggia il suo paese che si era permessi, di non ritornarci mai più. Roma, e non altra città al inondo, avrebbe dovuto essere la capitale dell'Impero. E questo impero non doveva essere quello immaginato da Curlomagno, ma piuttosto la risurrezione dell'altro, di quello vero, che aveva trovato con Traiano il suo perfetto equilibrio. Di qui, abbandono non solamente «Iella patria germanica, ma anche della sua lingua; adottamento non solo delle vesti bizantine, ma :erimoniale tutto nuovo che riméttesse n onore gli splendori degli antichi lemvii. Per sè, si costruì un palazzo magli ililco sull'Aventino, a specchio del T'ovete, poco, discosto dalle rovine del Tem¬ pio di Diana, e non potendo avere accanto il suo grande amico Adalberto, vescovo di Praga, che era morto martire e che la Chiesa aveva santificato, gli aveva fatto erigere un tempio nell'Isola Tiberina, tempio che poteva vedere dalla sua reggia e che esiste tuttora sotto l'invocazione di S. Bartoloinrneo. I romani erano stati sempre restii ad accogliere i santi nordici, che guardavano non senza diffidenza. Un tedesco rinnovatore dell'Impero Ma queslo adattamento architettonico non bastava all'Imperatore. « Ottone — scrive un cronista tedesco — voleva rinnovare i costumi degli antichi romani caduti in disuso e molto cose fece che furono variamente considerato. Soleva sedere solo ad una mensa di figura semicircolare, sopra un trono che superava di altezza gli altri ». Il suo sigillo portava in esergo la dicitura: Renavamo impera romani. Nella sua Corte la lingua tedesca era severamente bandita e tutti i suoi cavalieri, gente dura e rozza delle Provincie germaniche, aveva dovuto imparare quel greco che era la lingua elegante dogli ultimi imperatori romani. Inoltre fece comporre un Liber ccrimonialis, dove erano prescritte e descritte le foggie del vestire, gli ornamenti che spettavano a lui e ai suoi cortigiani, le formule di saluto, le armi, gli strumenti di musica, le suppellettili che dovevano essere usate. E cosi grande era il rispetto per l'antichità romana che vi si trova questa esplicita prescrizione: «A nessuna potestà, a nessuna dignità, a nessuna anima vivente nel mondo romano, né pure all'eccelso monarca, è lecito salire il Campidoglio di Saturno, capo del mondo, so non vestito di abiti bianchi. Quando poi il monocrate vuole ascendere al Campidoglio deve prima vestirsi, nello spogliatoio (mntatorium.) di Giulio Cesare, della porpora bianca, indi, circondato da musici di ogni maniera, andare all'aureo Campidoglio, mentre a lui si acclama in lingua ebraica, greca e latina. Colà tutti debbono prostrarsi tre volte innanzi a lui, rendendo grazie a Dio di averlo posto a capo del mondo romano ». Mai, forse, da quando Costantino aveva trasportato la capitale a Bisanzio, si era avuta una più appassionata rinascita della romanità classica. Disgraziatamente il bel sogno imperiale doveva svanire come tutti i sogni, bolli e brutti, di questo mondo e l'idea del nuovo impero romano finiva con colui che l'aveva immaginato, il 23 gennaio dell'anno 1002, quando, appena ventitreenne, il figlio della lmperatrix romana spirava nel suo castello dell'Aventino, fra le braccia del suo maestro, il Papa Silvestro IL Cosa singolare, quell'Imperatore tedesco, che tanto aveva disprezzato da vivo la patria germanica, volle dopo morto essere sepolto nel sepolcreto imperiale di Aquisgrana. Un'altra figura di sovrano — sovrano delle arti, questo, che lasciò a Roma una traccia profonda, è quella di Wolfango Goethe. Per lui, che aveva imparato a conoscere la città papale attra.verso una serie di stampe onde suo padre aveva adorno le .pareti della casa di Weimar, il viaggio a Roma fu per lunghi anni l'aspirazione della sua vita. Vi giunse il 28 ottobre del 17SG, discendendo in quel palazzo Randanlni sul Corso dove l'amico Tischbein gli aveva trovato un appartamento accanto al suo. Vi giunse in incognito, non come ministro di S. A. R. il duca dì Sassonia Weimar, ma come il pittore Muller, che viaggiava in Italia per studiare. E l'impressione che ricevette dalla prima vista della città fu così grande che scriveva subito dopo il suo arrivo: « Vedere questo paese era una sete che mi divorava. Ora che ho raggiunto il mio scopo, niente più turberà la pace di cui gioisco, perchè veggo realizzati finalmente tutti i sogni della mia adolescenza... ». La romanità di Goethe Del resto anch'ogli — come il suo grande compatriota medioevale, si romanizzò. Visse cioè la vita del popolo, volle conoscerne gli usi e i costumi, volle adottarne le abitudini e le maniere. Nei due viaggi che vi fece, riuscì a inurbarsi completamente, così completamente anzi che s'innamoro di due italiane: la Faustina delle Elegie romane e la « bella milanese » del secondo soggiorno. La prima fu una popolana del rione Ripa, figlia dell'ostessa di quella Osteria della Campana » che le recenti demolizioni hanno irreparabilmente distrutto. A leggere i bei distici appassionati c'è da credere ch'egli corresse gravi pericoli per frequentare la bella scrivente la quale era costretta — secondo lui — a tracciare col roseo dito segni cabalistici sul rozzo tavolino dell'osteria, materna iper fissargli un appuntamento. Ma pur troppo i documenti trovati dal Voleri dimostrano il contrario. Faustina era una giovane vedova, perfettamente libera di sè. Del resto la libertà non contava nulla perchè la prima di tutte a incoraggiarla e a chiudere tutti e due gli occhi era proprio la madre, felicissima che sua figlia trovasse un buon aiuto nell'amore del ricco signore tedesco. In quanto alla « nella milanese » l'affare fu più grave, perchè quella voleva essere sposata e ih questa via onesta la spingeva Angelica Kauffmann, amica sua e del gran Wolfango, che le procurava sì gli appuntamenti con lui ma non la lasciava mai sola. E a sposarla, forse per un certo momento ci pensò. Poi lo riprese la manìa del viaggio e il ricordo di Carlotta, così che non ne fece più niente. La luminosa villeggiatura, d'Albano si concluse con un romantico addio sotto la finestra di via Ripetta dove la bella dimorava e dove lo aspettava vestita di un casaechlno di caranché a mille righe violette. Qualche pianto, qualche sospiro, poi l'ultimo addio. Ma ella si consolò presto, sposò poco dopo il tiglio dell'incisore Volpato, e mori vecchissima, adorata dai suoi numerosi nipoti. Ma inianto lei e la sua più umile compagna «riparola» avevano lasciato un po' di nostalgia nell'anima olimpica dell'impassibile poeta. Nostalgia che qualche tempo dopo doveva prorompere nel grido immortale delle sue Elenio nomane: « O Roma, tu sei ini mondo, ma senza amore Roma non sarebbe Roma e il mondo non sarebbe il mondo! ». L'ultimo sovrano tedesco romanizzato fu Luigi di Baviera, colui che doveva finire la triste vecchiaia sotto la ferula di Lola Montes. Ma la giovinezza era stata ben diversa. Principe ereditario era venuto a Roma e — artista conio tutti i Wittlesbach — aveva volino fare il pittore e il poeta, frequentatelo lil Caffè Greco, e andando a pranzo nell'Osteria del Baiocco a piazza Barberiini dove s'incontrava con Bartoloinrneo IpineUi e col Thowuldsen, non che con lutti i modelli e lutti gli altri artisti della vicina via Sistina. Anche lui a Roma si era innamorato e da vero principe romantico il suo amore aveva avuto principio come in un racconto di fate. Una sera, in casa Torlonia, una contessa umilia aveva condono — senza prima chiederne il permesso alla padrona di casa — una sua amica perugini. Stupita di un lui modo d'agire la principessa nel riceverla le. aveva detto: a Queste cose si faranno a Perugia, ma a Roma usa altrimenti » e le aveva voltato le spalle. Pianti della nuova arrivata e freddezza generale. So non che alla prima contraddanza ecco un giovane biondo farsi largo tra la folla., presentarsi alla respinta e chiederlo l'onore di ballare con lei. Stupore generalo: il giovane biondo era niente meno Che il principe Luigi di Wittlesbach, erede del trono di Baviera. Inutile aggiungere che un i simile protuzione mise di moda la bella signora perugina — che era la marchesa Florenzi — e che la prima a farle le sue scuse fu proprio la principessa Torlonia. Dal resto la marchesa essendo bellissima e intelligentissima fece molta strada e più tardi segui in Germania il suo illustro protettore, dove era stato chiamato a succedere al padre. La sera della partenza tutti i frequentatori del Cafro Greco, vollero improvvisargli una dimostrazione. In folla, con le torce accese, si recarono sotto le finestre dell'albergo d'Europa, dove abitava, e lo acclamarono lungamente ben augurando al « re nostro ». Luigi I, si affacciò sul balcone a ringraziare e quando rientrò nella stanza, i suol cortigiani si accorsero che piangeva. Piangeva la bella libertà che slava per perdere o la giovinezza oramai al tramonto? Prevedeva forse i tumulti che lo avrebbero un giorno caccialo dal trono e mandato in esilio in terra straniera? Allora nessuno avrebbe pululo dirlo, ma è certo che l'ultimo re germanico romanizzato dava il suo addio a Roma con le. lacrime agli occhi. E veramente con lui si chiudeva tutta una tradizione. D'EGO ANGELI. | [■ lj jjiI