Wildt, l'ultimo gotico

Wildt, l'ultimo gotico Wildt, l'ultimo gotico Wldt,Milano, 3 notte. Si inaugura oggi in due sale del Castello Slorzesco la mostra postuma dello .scultore Adolfo Wildt. Attraverso le grandi trifore, la luce verdolina e ùmida che si posa sulle statue, filtrata nel fogliame del Parco, accresce il senso irreale e il tormeno delle sculture. Nello studio dell'artista, in via Vivao esse avevano un aspetto più pacato e più vivo. Erano ancora unite all'ispirazione; non completamente reciso dalla nia.no piccola, nervosa, nocchiua die le aveva modellate. Piuttosto che un « atelier » alla franciosa, era una disordinata ardii lettura ili tettoie frettolose e provvisorie. Nessun arzigogolo ornamentale e nessuna cianfrusaglia preziosa come usava fino a pochi anni or sono negli studi degli artisti. Gli arnesi del mestiere, ì ferri del mestiere nella pettraiiià frantumata delle luci, e dipinta sulla parete una piccola croco con scrittovi di mano dell'artista: « Dove sci non so ma ti sento ». Motto ansioso e mistico della sua vita, formula della sua statuaria che è come tormentata sempre da una volontà di evadere dalla materia in cui fu modellata. Lo studio di via Vivaio era un'amplissima reggia in confronto al misero locale In cui per anni lo scultore lavorò fino agli albori della sua fama. Sempre a Milano, sempre al- « ombra del Domm ». Quando noi lombardi usiamo questa locuzione dialettale non è tanto per significare la presenza materiale n fondo ad ogni via sopra ogni tetto e ogni campanile di quella mole candida e rosea del Duomo, quanto per ndicare gli influssi che dominano il nostro spirito e la nostra arte, in virù della tradizione che risplende come il testamento marmoreo trasmessoci dai nostri padri. Essa pesa sulle radici della nostra razza e la allea al nord senza chinarsi alle sue ossessioni e alle sue oscurila. Verso il Duomo confluiscono duri tesori del nord per rigermogliare nel fiore della nostra primavera. Bel marmo di Candoglial Marmo del Duomo, cavato dal filone roseo della montagna, al di là del Toce, calato a furia di traini e di corde fino alla riva argentea del fiume, avviato nel ilo della corrente sui barconi che, giunti al Lago Maggioro, alzano la velacela quadra, riprendono la navigazione di canale in canale, approdano (appiedavano) a Milano, all'ombra del Duomo. Bel marmo di Candoglial Prima di airrivaro in città, prima di giungere in blocchi alle botteghe degli scalpellini ha attraversato la Lombardia, è passato lungo lo biughiere e lungo i campi rasentando i mulini e le filande: ha il bel colore del monte «la cui neve è rosa », la fragilità e la rigidità delle nostre donne, le vene azzurrognole e plumbee dei laghi alpini. Marmo prezioso e buono; marmo lombardo per eccellenza, marmo del Duomo. Le maggiori sculture le più belle opere di Wildt furono cavate e tagliate in questa materia; e, prima di tutte, il complesso gruppo della Fontana dove il santo il giovane e il saggio si abbeverano alle sorgenti della vita. Gruppo monumentale che esposto alla Biennale di Brera nel 1912 valse all'autore il Premio Principe Umberto. E' qui che incomincia la sua arte più grande: nel cammino che l'ha preceduta una specie di purificazione vien sgombrando la mente e quasi la mano dello scultore, perchè se da un lato egli rinuncia sempre più alla dominazione del verismo e del realismo, dall'altro rinuncia al fascino dell'abilità per l'abilità e dell'arte per l'arte. Egli discerne ormai, di penetrazione in penetrazione, lo premo dell'arte nell'unità dell'esecuzione e dell'ispirazione. Nell'economia distributiva della sua opera non c'è posto più per il cincischiamento piacevole e per il dilettevole superfluo. No; la sua aite non è piacente nè dilettevole. Un certo arcaismo tormentato non è in lui una maniera; ma un modo di sentire e di esprimere rudimentale. Raccontava d'esser rimasto abbagliato, nei giovani anni, dalle statue elleniche dei Museo Nazionale di Napoli e di aver sempre appeso un exvoto di meraglia aila cosidetta « Psiche » di Capua. Ma bisogna poi riconoscere elio l'ispirazione di Wildt fu cristiana e non pagana e il suo spirito più medioevale che classico. Nella rappresentazione del dolore, più vicino alla rassegnazione del Cristo crocefisso che alla disperazione del Laocooute. Fu così: gotico. La sua origine e la sua vita lombarde, ci danno, in un certo senso anche la spiegazione della sua austerità settentrionale e dPlla sua parentela coi nordici. Contro un'arte di lussuria la sua è arte di castità: i suoi eroi, le sue eroine sembrano tutti, sempre, dominati da un pensiero di morte, da un appassionato dolore, in contrasto con le sensualità di un Rodin o le tensioni dinamiche di un Bourdelle. Se quella dolorante espressione della vita maturò in lui e nell'arte durante la giovinezza vissuta poverissima, nei contrasti della, miseria conservata pura per la salvezza dell'arte; nè la cecità del pubblico nè l'Incomprensione della critica lo smossero mai dai paralleli del suo « credo ». Una volta rimase tre giorni chiuso nello studio senza toccar cibo nè chiudere occhio. Furono le affettuose e mteiWigeivti parole dei suoi che interruppero quella minacciosa e ascetica interrogazione intorno all'arte e a se stesso. Ed egli confessò di aver superato negli anni della maturità il nero fiume di uno scoramento pauroso di una ncertezza avvilente; o se riguardavr» verso il baratro di una follìa nella quale pareva si dovessero spezzare la comparitele del marmi e l'airmonla delia ispirazione era per ritirarsene terrorizzato. A veder le sue statue adunate, dal l'ir temporis acti al recentissimo Parsifal, e schierate contro le pareti della Sala delle Asse sotto la volta verdedorata che Leonardo tracciò, si nota qualche eccesso di espressione, qualche esa.-peraz.ione straziata nel giuoco dei muscoli che forse nacquero dal ricordo del buio spirituale in cui il creaore aveva minacciato di inabissarsi, e più dalla concezione della vita intesa come mia sofferenza o tome un castigo dalla nascita penosa alla morte liberatrice. Soltanto la maternità si salva, eletissima, e santa, in questa selva di spasimi di passioni e di incubi, la ma¬ S?£2JÌUj timo gotcel a e e o, nao io unue. e e eel a e o: a e a n mioa l- eo e o nr il rosa ie o oael a a a el e, a iamdi e l è i na izi. o el le adi ngla o12 pe te a ne a n a ao er eua 'è aternità die procede austera e casta come la figura che regge diritto il bimbo sulla falda di una benda e tra le dita la fiammella accesa, forse dal flato vitale o dalla speranza: la maternità che egli mise cosi, diritta, sopra una tomba. Lo studio era la sua « bottega »: era hotega di fatica e di eroici furori, di placido conversazioni e di parelio merende corno usava presso gli antichi. Wildt vi passava intera la giornata: di prima mattina soleva andare alla Accademia di Brera tra i ragazzi della scuola del marmo che egli prediligeva come figlioli; a mezzogiorno, seduto su uno sgabello, improvvisava quello colazioni (degne com'egli diceva d'un maautt) che consistevano in un po' di verdura, o di frutta. Con una tazza di caffé" e la furuntina di un mezzo toscano o di una pipa si prendeva quell'uomo semplice il suo breve riposo quotidiano. Gli amici lo andavano a trovare; qualche volta s'abbandonava a rievocare gli anni del passato' e le sue prime fatiche nello studio di Giuseppe Grandi dov'egli aveva lavorato come semplice sbozzatore e formatore di statue. Da tempo si adoperava perchè l'opera maggiore e minore del Grandi fosso salvata dalla dispersione. Al Grandi non era soltanto unito dalla memoria di quel passato in comune: ma proprio da uifinvisibile parentela artistica, Gli pareva d'intravedere nel maestro il migliore e il più gagliardo dei simbolisti: la interpretazione eroica delle « cinque giornate » sulla base del monumento, tumultuoso e squillante come una campana rivoluzionaria, accanto all'opera di Segantini e di Predati. Sradicava, sul finire dell'ottocento, l'arte lombarda dalle posan tozze realistiche e dalli! e preoccupazioni veriste. Il cnrllinua.tore di quella tendenza, il più sincero e il più schietto fu Wildt perdio in lui la vita e l'urlo si accostavano e rifondevano senza confini. Scono della sua vita eral'arte; non per rappresentare la vita ma per rintraccia ine ed esprimerne Je supremo leggi. E sapere il « mestiere » insegnare il «mestiere» completava gli scopi della sua missione Non c'era segreto della materia, cecità o penetrazione degli strumenti, possibilità o limiti della mano che egli non sapesse conoscere e indicare con cautelosa e guardinga prudenza con un richiamo ai grandi maestri antichi e moderni. E il parlarne, un po' lo esaltava, un po' lo immalinconiva. Con trepidazione accompagnava la statua in tutta la parabola, dalla nascita al compimento cominciando dalla scelta del blocco nella cava fino all'estrema patina alla ultima rifinitura del marmo. Era sempre a tu per tu, se così si può dire, col marmo e tojneva in gran dispregio i facili ino1 donatori della morbida creta e quanti lasciano all'appuntatore di trasferire gli effetti ottenuti, da una materia nell'altra. Cosi riconduceva la scoltura alle grandi fatiche e alle eroiche durezze che amavano di affrontare 11 divino Michelangelo o i greci. Aveva dettato al suo miglior biografo Ugo Bernasconi, al figliolo prediletto Francesco, un decalogo di umiltà: « dedizione piena della miglior parte di te all'opera tua: umiltà profonda dinanzi agli insegnamenti della natura: abbandono ribelle di tutte le consuetudini errate: sincerità e lealtà assolute: impeto nell'affron tare l'aspra materia: ardire nell'affldarti alle tue ispirazioni: volontà paziente e indefessa al lavoro ». Lavorare, lavorare sempre: unico suo svago era di accompagnarsi agli amici che nelle giornate di primavera andavano nei dintorni di Pavia a partite umili di pesca. Buttava la lenza o il tramaglio: si vedevano riflessi nel fiume austeramente deserto l'aejrea cupola del Duomo la facciata Uj tloro cli 5311 Michele, le cuspidi di terracotta del Carmine. E le lavandaie sull'argine cantavano: RAFFAELE CALZINI.

Luoghi citati: Lombardia, Milano, Pavia