Storia di un monumento

Storia di un monumento Storia di un monumento DaJ bronzo a! marmo E. Filiberto a Carlo Emanuele I, tutti lo sanno, fu un Sovrano geniale, dall'attività multiforme c inesauribile, pensava a tutto, sì occupava di tutto; fra lo strepito delle fruerre conduceva difficili negoziati diplomatici, e intanto vagheggiava riforme edilizie, incoraggiava artisti, raccoglieva quadri, scriveva versi, promuoveva gli studi letterari, fondava Santuari, riformava Opere Pie, e... trovava ancora il tempo per corteggiare le più belle dame del Piemonte. Fra i tanti progetti che occuparono la niente di quel grande Principe e che non poterono attuarsi, vi fu pure quello di un monumento equestre a Emanusle Filiberto, da erigere in una piazza della capitale; e se si l'osse realizzato, la nostra città avrebbe avuto fin eia allora quel famoso cavai d'bróns che ebbe solo nel 1S33. Per contro, le sarebbe mancato un altro quadrupede quasi altrettanto popolare, quel non mai abbastanza lodato cavai d' marmo che da) 1633 s'impenna immobilmente in una nicchia sullo scalone del Palasso reale minacciando due poveri diavoli di schiavi. Fra questi due cavalli — o piuttosto fra i loro cavalieri — corrono rapporti abbastanza complessi. La statua di bronzo che inforca il corpulento destriero di marmo raffigura Vittorio Amedeo I, e la sottostante epigrafe del Thesauro lo conferma; ma il vestito è 1 mDa pV. Amedeo l't'gdnmlmctqPctsnnalParidelia foggia che si usava, a dir poco, |nmezzo r.ecolo prima. Dobbiamo de .lume che Vittorio Amedeo per economia portasse i vestiti di suo nonno Emanuele Filiberto, come i bambini portano, ridotti per loro, i pantaloni smessi di papà? La spiegazione è un'altra, quel bronzo è la statua dell'avo ron la testa del nipote, come scopri fin dal 1867 un benemerito studioso, il maggiore Angelucci. Ma la storia del mancato monu- rtscltdm~- -- , Cmento al Duca Testa di ferro è P»« tampia, e per narrarla nella sua ime- ' grità conviene prender le mosse da un documento che si conserva a Firenze, nell'ai-chivio Buonarroti: una lettera scritta a Michelangelo il 14 novembre 15j9 da Caterina de' Medici, vedova di Enrico II re di Francia. La regina voleva innalzare un monumento equestre al marito, e pregava il grande artista di occuparsene; prevedendo però che egli, oramai ottantacinquenne, avrebbe ' declinato l'incarico, scriveva con molta grazia: «Benché io sappia « che gli anni forse con altra persona «vi potriano scusare, credo che meco «non vi vorrete di tal scusa servire, «si che almeno non pigliate il carico «del disegno di detta opera, et di «farla gettare e polire ai migliori « maestri che di costi potrete trovare». Un rifiuto era impossibile, e il Buonarroti acconsentì proponendo per 1 esecuzione del lavoro, che egli stesso avrebbe diretto, Daniele Ricciarelli da Volterra. Le cose andarono per le lunghe; nel 1566, alla morte del Ricciarelli (Michelangelo era morto due anni prima) di fuso non c'era che il cavallo. C erano però i modelli, e con essi due scolari del volterrano, Michele Aliberti e Feliciano da S. Vito, si assunsero di finir l'opera. Ma poco dopo cominciarono in Francia le guerre di religione i re ebbero altre gatte da pelare, e il cavallo con gli accessori restò a Roma, affidato al banchiere Orazio R^eUai- Carlo Emanuele, che sin dagli albori del suo regno vagheggiava di ampliare ed abbellire la sua capitalen grande stile, appena seppe di questo cavallo modellato sotto la direzione del gran Michelangelo e rimasto abbandonato, pensò di acquistarlo per il monumento che voleva innalzare a suo padre in una piazza di Torino. In quale? Non in piazza S. Carlo che a quel tempo non esisteva; probabilmente in piazza Castello che, nel geniale concetto del Duca, doveva divenire già allora il centro della città e della quale il Vittozzi, proprio In quegli anni (1583-84), studiava la sistemazione. Cosi nel dicembre del 1583 Giacomo Corte e Filiopo Bucci iniziarono trattative a Roma per conto del Duca di Savoja per acquistare il cavallo e quanto altro si poteva dell'abbandonato monumento. Ma la cosa non ebbe esito, e il bronzo rimase per allora al Rucellai, che nel 1586 lo collocò nel cortile del suo palazzo. Solo nel 1638 il destriero prese _ finalmente — la strada di Parigi; ma era destino che non dovesse portar la statua di Enrico II. Vi fu posta invece quella di Luigi XIH, modellata da Biard; il monumento cosi completato sorse sulla Place Boyale e vi rimase fino alla Rivoluzione. I progetti edilizi di Carlo Emanuele, come i lettori sanno, rimasero a lungo in sospeso; l'ampliamento di Torino non ebbe inizio che nel 1620, e in modo ben lontano dalla grandiosità della prima concezione. Mancano pure per molti anni notizie del monumento, ma certo il Duca non ne aveva deposto il pensiero; e forse, se si fosse accontentato del marmo, avrebbe potuto realizzare il suo desiderio senza difficoltà perchè fin dal 1603 sinpcgpPcmera stabilito a Torino, e lavorava perla Corte, un artista non volgare, ilromano Andrea Rivalta, che aveva studio in una casetta, appiè del campanile di S. Giovanni. Ma questi non lavorava che il marmo, e Carlo Emanuele che voleva ibronzo si rivolse a Pietro Tacca, fiorentino, scultore del Granduca di Toscana, e autore fra l'altro di una celebre statua di Enrico IVi che ebbe curiose vicende. II fiorentino fece il mo dello di un cavallo impennato, « In una postura veramente fiera e nuova», dcui il Duca fu molto contento, tanto contento che, quando dal fratello dello scultore glie ne fu portata una prova in bronzo, egli andò « a un certo stipo, e tiratone fuori un cassettone pieno dbelle doble, trattene quante in quattro volte ne poterono abbrancare le sue mani », mandò al Tacca tutto quell'oroinsieme con una lettera di lode. Inoltre, avendo saputo che il re d'Inghilterra voleva da quello scultore due statue equestri, pagandole ventimila scudi l'una, Carlo Emanuele si dichiar-_«._ „ .vtwrare. e d'assai, quell'ofpronto a superare, e d'assai, queir feria . Ma non si combinò poi nullaperchè il Duca voleva che l'artista venisse a lavorare a Torino, e 11 Taccnon potè mal ottenere 11 permesso aaauo sovrano. Fa forza accontentarsi 3eT BIvalta ma per non rinunziare in tutto al bronzo fu convenuto che l'artista romano avrebbe studiato tutto il monu1 mento ed eseguii te le parti in marmo; per la statua invece avrebbe dato sol'tant0 Ù modello, che sarebbe stato poi 'gettato in metallo dal mastro fonditore delle artiglierie, Federico Vanelli da Lugano, salvo la testa c le mani che dovevano esser fatte in marmo dal Rivalta. L'inventario delle cose trovate nello studio del Rivalta poco dopo la morte di questo (aprile 1624) rivela che non mancava molto al compimento dell'opera; con tutto ciò, per quasi quarantanni non se ne sa più nulla. Perchè tutto rimase in tronco? Mistero! Sappiamo però che nel 1663 il cavallo con gli schiavi si trovava « in una casetta appresso a San Gioanni », e la statua senza testa e senza mani in una « citrenera appresso la fontana » ; e di 11 furono tratti e riportati alla luce del sole per ordine di Carlo Emanueel II che stava per sposare Francesca di Valois e voleva per quell'occasione far finire e decorare il nuovo palazzo. Il capitano Carlo Morello, « ingegnerò industre per le glorie di Marte, e d'Amore, che poteva dirsi benemerito della Guerra e della Pace con l'arte della Fortificattionc e dell'Architettura* (come sentenzia l'abate Valeriano Castiglione) ebbe l'incarico di disegnare un piedestallo per il gruppo, e al Thesauro furono ordinate due iscrizioni, naturalmente in latino. Due, non una sola; il che, unito a qualche particolarità del piedestallo, fa pensare che non si fosse ancora del tutto abbandonato il pensiero di collocare il monumento sopra una piazza, o in un giardino, comunque in posizione isolata e visibile da tutte le parti. Ma le vicissitudini di quel gTuppo non erano finite: da monumento di bronzo si era già trasformato in bronzo e marmo; la testa marmorea di Emanuele Filiberto si era mutata in quella metalli¬ ca del nipote, gettata, come pure le mani, dal francese La Fontaine; non restava che finir di snaturare completamente la statua destinata a campeggiare all'aria libera e non si mancò di farlo, relegandola in un nicchione. AdsTante metamorfosi concorsero forse|fleggende, e mentre qualche eruuito at- Intribuiva le statue degli schiavi a.ddirit- I tura a Michelangelo, o almeno a Gian'gBologna, e altri faceva omaggio della j statua al Tacca, a un Dupré, a un Sai--1 razio di Noyon, il popolino favoieggiò ifche lo scultore che aveva modellato il 1 lrcavallo di marmo era stato accecato perchè non potesse più ripetere un simile capolavoro. Tale è la storia del primo cavai d'bróns di Emanuele Filiberto, divenuto pian piano, un po' alla volta e quasi per caso, il cavai d'marmo di Vittorio Amedeo I. E. B. cfstactvcd