La morte di Aristide Sartorio

La morte di Aristide Sartorio La morte di Aristide Sartorio Giulio Aristide Sartorio siTs&n-to alle ventidue di lunedì nella suavaia agli Orti di Galatea, alla Pas-segnata Archeologica. Aveva set-tantadue anni, ma, fino agli ultimigiorni, ha conservato intatte e luci-de le facoltà della intelligenza, insi-stendo perfino per essere trasportaito nel suo studio ove ha voluti met-tere come il sigillo finale alla vastadecorazione preparata per il Duomodi Messina. Al momento supremo era-no accanto al morente la moglie si-Smoro Margherita Sevilla, i figliuoli,padre Alessandrini con il suo fratello medico curante, il notaio gr. uff. Trombetti. La salma è stata poi rivestita degli abiti da lavoro, secondo la volontà dell'artista. Fra le mani dell'estinto sono stati posti un piccolo Crocifisso e una Madonnina rozzamente incorniciata, quella che raccolse e gii fu fedele compagna durante la guerra, a cui partecipò volontario lasciando la famiglia e la casa a cinquantasei anni. Padre Alessandrini aveva anche recato al moribondo l'apostolica benedizione, trasmessa con un nobilissimo telegramma del Cardinale Pacelli. Fino a stamane alle otto la salma, collocata nella stanza che precede lo studio, è stata vegliata unicamente dai familiari, perchè il Sartorio aveva raccomandato alla sua consorte che nessun annunzio ufficiale fosse dato della sua morte, se non tre giorni dopo che la sua salma riposasse sotterra. Anche aveva desiderato che il seppellimento avvenisse nel piccolo cimitero urbano di San V P.THYI Ci t>. ftìP t tll<VÌ Ofrt I<\ 01 n.v/iìfinn Verano, e che i funerali si svolgessera nella forma più modesta e con autofurgone nelle prime ore del mattino. Così, in ossequio al volere dell'uomo insigne, stamattina alle otto, nella più stretta intimità, il feretro è San Sebastiano fuori le Mura. Seguivano il feretro la desoZofavedova, i figli, Guglielmo Marconi,Corrado Ricci, il prof. Marpicati, Antonio Munoz, l'ing. Barluzzi e signora, il dott. Orlando e signora, che fu- rono legati da tanta amicizia aZ-l estintori notaio gr. uff. Trombetti,pure amico di vecchia data, e il com mondatore Piermattei. Erano intervenuti monsignor Cartoni, canonico di San Giovanni in Laterano, con il ■ilero, e padre Alessandrini. La semiticissima bara di noce racchiusa in un'altra di piombo reca una Croce di bronzo e una targa con l'iscrizione: « G. A. Sartorio -11 febbraio 1860 3 ottobre 1932 ». Sopra è stato posto un ramo di lauro. Il modesto, nudo autocarro funebre è giunto a San Sebastiano alle otto e trenta, fidila soglia attendevano padre Proìftero Milita con il dottor Sbaraglia, tanitario governatoriale e sovrintendente al piccolo camposanto prescel to dal Sartorio per il suo ultimo riposo. Dopo le esequie, il presidente dell'Accademia d'Italia, Marconi, insieme con il sen. Corrado Ricci e il vicesegretario del Partito prof. Marpicati, il prof. Munoz e l'ing. Barluzzi, hanno fatto un sopraluogo per decidere ove sarebbe stato opportuno dare sepoltura alla salma, nel caso in cui ne fosse autorizzata, come si spera, la tumulazione. Il quieto angolo terminale di un vialetto all'ombra di un gruppo di secolari cipressi è apparso il luogo che il Sartorie stesso avrebbe certo prescelto per riposare, lui romano e sognatore di una splendida romanità, presso l'antica Appia. L'artista Quando in questi ultimi anni entrando in una esposizione si scorgeva, di solito nel salone centrale, una pittura chiarissima a toni madreperlacei, azzurri ed arancione, mare e spiaggia avvolti in un velo latteo senza stacchi d'ombre o risalti di luce, anzi, chiari e scuri ridotti quasi a valori unici da una luminosità diffusa e uguale tanto al centro come sui margini del quadro — e su quella spiaggia un nudo bimbo carnoso con le manine tese e la boccuccia ridente, e contro quel mare, come ritagliata sullo sfondo, una giovane madre dalla veste candida, rosa su bianco, bianco su celeste, si poteva dire pressoché a colpo sicuro: « E' Sartorio ». A parte il nome illustre dell'autore, celebre da oltre trent'anni e dal 20 marzo 1929 Accademico d'Italia, la pittura trovava sempre successo presso due categorie di visitatori: i « pratici », che ne ammiravano l'invidiabile eleganza, la facilità dell'effetto (si trattava infatti il più delle volte di un effetto), la maestria della pennellata che ricavava le forme da una pasta coloristica fluida ed elementare, il dono di dar vita evidentissima ad un gesto; poi quel pubblico che si compiace di immagini gradevoli, che apprezza una tela specialmente se non lo affatica con astruserie di significati o di stile, ch'è naturalmente proclive ad ap-plaudire le doti che son sinonimo di largo successo. Fra le due categorie ne stava una terza, composta in pre valenza di giovani i quali considerando il pittore con il massimo rispetto lo ascrivevano a un ciclo ormai conchiuso della storia delle nostre arti figurative, ciclo ch'egli aveva degnamente e aristocraticamente rappresentato con un'opera vasta, generosa, intelligente, pronta sempre ad arricchirsi delle esperienze più nobili e più varie che sia in Italia come in Francia, in Germania e in Inghilterra s'erano andate tentando. Erano forse quest'ultimi i più vicini alla verità: perchè quella facilità e quell'eleganza risultavano da un mezzo secolo di metodico lavoro, di errori e di rinsavimenti, e quella piacevolezza, poi, era lo spec: chio di una gioia che neppure nei momenti di dubbio mai aveva abban donato l'artista nel suo continuo e lieto fervore creativo. Già nella prima Biennale d'Antonio Maraini, la IriH' £ei P°vmi. (1928), Giulio fon Balzarn ?lZvr?™°Te- ^rava sofcÈSS LauSt^"gZ^AvÌ stide Sartorio scultore con Jerace Butti. Gemito e D'Orsi ; ma dirlo un f°Pravvissuto al suo tempo e quindi rh^-s ° sarebDe stato un errore: uv^J^^V11 Pace c?n 1 suoi idea* ™^0C£^^B^ t gusto dell'ora non tenta lederne c?n manifestazioni forzatamente in s.lncere. E Sartorio, i cui quadri si !.1.m.ltavano ormai ad essere decora ^--'- non certo un senso alla Ma tisse ma semplicemente nel senso ottocentesco, non esitava a presentarsi all'ultima sua Biennale (quella di due anni fa) con titoli come questi: Oro, Argento, Lapislazzuli, cioè con titoli d'un simbolismo letterario francamente fuori moda. « Lascia fare... », egli avrebbe risposto a chi gliene avesse mosso appunto: con quel _ suo intercalare noncurante e fiducioso che confermava quanto fosse poco ansioso di aggiornarsi con le realtà circostanti a scàpito della sua realtà interiore. Ed era anche questo un segno di alta coscienza, della dignità di un uomo che trent'anni prima, sul Convito di Adolfo de Bosis, non aveva esitato a profetizzare (ed aveva errato) il nessun seguito che in breve avrebbe avuto il preraffaellismo : e non tanto per esaminare criticamente un movimento estetico, quanto per far pubblica ammenda d'essersi troppo lasciato sedurre da un medioevo manierato e stucchevole che con le litografie dei quadri di Rossetti e di Burne Jones era dilagato, dalla pallida Albione, anche in Italia. Simbolismo e letteratura. In tre momenti soli, forse, egli n'era stato a ' " _ moscìiettierir'donnine àlì*a"Watteau attratto com'ero dall'orbita Fortu s'era messo a « fare del Fortuny » («A diciassette anni — ha lasciato scritto — guadagnavo la vita disegnando la prospettiva e acquarellando per gli architetti, facendo i fondi agli acquarelli altrui, ed ai di- perpetravo all'olio e all acquarello villa „ aveVa fatto capire cosa se « il carattere della patria ten niana »), cioè della cattiva pittura, che se non altro era solo della pittura; poi quando, dopo averlo conosciuto a Parigi, Michetti a Franca- fosterra infine quando, dopo il rude consiglio datogli insieme con la lode da Nino Costa a proposito del quadro Malaria esposto nell'83, aveva preso a girar per la campagna romana togliendo a modelli bufali e butteri, cavalli e montoni nella solenne mae; sta dell'Agro, col fermo proposito di applicar quel consiglio : « Il Sartorio non deve ricorrere alla prestidigita^ zione. Principii a cercare di nuovo i mezzi per spiegarsi, non mi affagotti nè mi accoltelli le sue figure, nè speri troppo dalla forza dei suoi polsi, ma dalla intensità del sentimento vada alla ricerca del giusto. Pazienza, pazienza, Sartorio. Pazienza è genio ». E da allora, del resto, dalla Pastorale (che ha lo stecconato di Alla stanga e l'impianto delle figure alla Michetti) al Canale delle volte a Terracina acquistato dalla Regina Margherita, dal Tevere a Castel Giubileo della Galleria d'arte moderna di Venezia a Sul litorale romano che è alla Corte d'Inghilterra, via via agli infiniti quadri e studi dei dintorni di Roma dipinti fino a questi ultimi anni quasi a riposo delle troppo vaste figurazioni allegoriche — da allora quella Campagna dov'egli ritrovava l'immutabilità del mondo e la transitorietà della storia, la gloria defunta e la speranza risorgente, rimase il suo più spontaneo e tenace amore, serenamente ricambiato dai doni dell'arte. Ma l'altra faccia di Giulio Aristide Sartorio (ed anche del Sartorio animalista che dipingeva teste di pecore con sapore palizziano e scolpiva volentieri cavalli eroici trattenuti da atleti ignudi come quelli del clipeo offerto dalla Marina al Duca degli Abruzzi) rimaneva rivolta a Roma, a quella Roma del 1880-90, di Sommaruga, di d'Annunzio conquistatore dell'Urbe con Terra vergine, ì'Isaotta Guttadauro ed il Piacere, la Roma del Fanfulla, del Fracassa, della Cronaca Bizantina, che giustamente fu detta godereccia, facile nell'illusione, e da tutti richiedente atteggiamenti che in un modo 0 nell'altro, e ad ogni costo, magari con toni sforzati, manifestassero un'originalità abbagliante. Anche Sartorio, figlio e nipote di scultori accademici, che s'era educato sui marmi, sugli affreschi, sulle pitture del Vaticano, stanco delle smaltature e delle leziosaggini del genere Fortuny e non ancora persuaso che la natura semplice, spoglia e malinconica gli tendeva una mano amica, pensò di trovare la sua originalità in quel preraffaellismo di maniera che seduceva anche i suoi gusti letterari. Una passione platonica per una giovine pittrice anch'essa preraffaellita portò la sua nota sentimentale in un gusto nascente di artista e complicò alquanto le cose. Pennellate e sospiri, liliali immagini e desidera rinnegati come impuri: il tutto si fuse sulla tavolozza. Fu il periodo di Visione medioevale dove un'evanescente donzella procede in un alone fluorescente tra colonne tortili e fontane zampillanti, della Santa Cecilia col capo incorniciato da un archetto romanico, della Duse nella « Sposa di Menecle » con le lunghe ciglia calate sullo sguardo estatico, delle bionde vergini dalle « ceree dita », i cui profili si ritro vavano in Dante Gabriele Rossetti, in Holman Hunt e, fra i seguaci, nel Burne Jones della Sponsa de Libano, fino alle nove dame dell'aristocrazia romana che figurano nel complicato trittico delle Vergini savie e delle vergini stolte. Poi, quando quei modelli il pittore potè conoscerli non più attraverso le cattive riproduzioni o, peggio, l'infatuazione letteraria, ma direttamente in Inghilterra nel '93, venne fuori l'accennato articolo del Convito, che fu una specie di palinodia. E Sartorio dipinse allora la Gorgone e la Diana d'Efeso pur insegnando nella Scuola d'Arte di Weimar dove l'aveva chiamato il granduca Carlo Alessandro, a fare scuola dalla cattedra di Boecklin. « Sartorio G. Aristide. Giovane pittore romano, di rara cultura. La sua educazione si è formata principalmente sull'arte inglese. Ha stu- diato a fondo il movimento preraffaellista, sopra tutto l'opera pittorica e poetica di Dante Gabriele Rossetti, della quale sta preparando, crediamo, una compiuta illustrazione. E' tra i collaboratori artistici del Convito ». Queste parole si leggevano nel catalogo della « Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia », nella quale il Sartorio entrava a trentacinque anni insieme con i più illustri pittori europei, presentando cinque opere: La Madonna degli Angeli, Una Gorgone, Studio di testa, Sera d'autunno, Hamersmith. Pei contemporanei l'artista era dunque classificato: preraffaellita, non ostante l'autosconfessione. E non era forseuna clas^ sificazione errata, checché dopo si sia detto e scritto. Il medioevo se ne era andato, ma il simbolismo era rimasto. E d'altra parte quel davvero bellissimo nudo della Gorgone e gli eroi (il nudo d'una avventuriera straniera che il Sartorio aveva ben conosciuto) non avrebbe potuto esser sottoscritto dallo Spencer Stanhope della Ève Tempted (analogo persino l'atteggiamento del braccio sinistro), e lo stesso studio a pastello per la Gorgone, esposto a Venezia nel '99, da George Frederick Watts? E la Disputa di Oberon e Titania di Noel Paton non potrebbe a sua volta essere firmata da un Sartorio del 1890-900? Eppure il nudo della Gorgone, che al pittore era costato fatiche durissime, sgorgava direttamente dal suo sentimento: era un nudo accademico allo stesso modo che il soggetto del quadro era letterario; ma era cosa assolutamente sincera. E sincero sempre fu il Sartorio, anche quando apparve ridotto a un decorativismo che sulle pareti del salone centrale del Palazzo delle Esposizioni di Venezia gli faceva allungare a dismisura i colli dei cavalli impennati o galoppanti e moltiplicare fino alla confusione, fino alla mancanza di respiro le figure dei fregi della nuova aula del Parlamento: dove l'allegoria della Fede o quella dell'Eroismo comunale, del Rinascimento o dell'Elevazione nazionale si distinguono soltanto per i titoli. La sua pittura — studi di paese a parte — s'era formata fra letterati e musici, fra poeti e giornalisti in quell'atmosfera alquanto ibrida del cenacolo sommarughiano, e pittore letterario egli rimase fino all'ultimo, anche dipingendo un delizioso nudino di bimbo sulla spiaggia, una vezzosa mammina col pargolo in collo. E dall'impronta anglicizzante che la moda del momento gli aveva casualmente fornito fra i venti e i trent'anni, non si liberò più completamente. Un'eccezione non si può tuttavia passar sotto silenzio: quella delle pitture di guerra, dipinte tutte dal vero dopo che — arruolatosi volontario allo scoppio delle ostilità, ferito a Lucinico, fatto prigioniero e poi rimpatriato — all'artista non fu più consentito di servire l'Italia come soldato. Continuò allora a servirla come pittore, fornendo una docu mentazione che ha, fra l'altro, il pre gio d'esser sgorgata da emozioni fortemente sentite. E se si pensa che il Sartorio aveva chiesto d'esser mandato in trincea a cinquantacinque anni sonati, si può dedurre la nobiltà di queste emozioni. Resterebbe ora da dire qual po sto abbia tenuto il Sartorio nella nostra pittura dell'ultimo mezzo secolo, fra un Segantini e un Michetti, fra un Fattori ed un Mancini. Ac: canto a questi naturalisti potenti egli può essere considerato un ac cademico. Ma il disprezzo di vent'an ni fa per l'accademia è già da ascriversi ai ricordi storici. MARZIANO BERNARDI. Tradizione romana Roma, 5 notte. Aristide Sartorio era nato a Roma da una famiglia di artisti. Suo nonno aveva modellato il grande stemma domenicano che si vede ancora in parte sulla Chiesa sconsacrata di via Agostino Depretis, e suo padre è l'autore del bel paliotto di altare in Sant'Agostino: opere ambedue, se non di gran lena, pure tali da dimostrare l'onesto intelletto dei due artisti e la nobiltà della tradizione romana. Cresciuto fra gli ultimi anni del potere temporale e i primi del regno d'Italia. Aristide Sartorio fu discepolo dell'Accademia di Belle Arti dove ancora imperava l'influenza scolastica degli ultimi pittori piani, e fu seguace del Fortuny che dal suo studio di via Flaminia imponeva i suoi dettami ai giovani artisti d'Italia. Lo spagnolismo di quegli anni aveva in sè qualcosa di fanatico. Mi raccontava il Sartorio che quando il Pradilla espose nel palazzetto di piazza del Popolo il suo quadro di Giovanna La Papa, l'entusiasmo suscitato nei giovani fu cosi ardente che per taluni raggiunse quasi il feticismo. Lui stesso il giorno della inaugurazione, avendo potuto toccare l'abito di velluto del fortunato autore, mostrava la sua mano con la passione che un cristiano dei primi secoli avreb be avuto per il contatto con un Santo Martire. Si capirà come in un simile ambiente e con queste idee egli divenisse uno di quei pittori « modanti » in cui l'abilità di una tecnica superficiale riusciva a nascondere brillantemente la scarsezza della sostanza. L'epoca dei merletti e delle piume Fu l'epoca dei merletti e delle piume; il regno delle preziose e dei contini, il trionfo delle odalische e dei toreri. Fu anche il periodo delle lacche e dei cammei, della pittura d'effetto in cui ogni ricerca di verità e di carattere era sottomessa alla piacevolezza del colore e alle artificiose graziosita delle forme. Ci deve essere ancora — non so più in quale villino dei Prati di Castello — una grande sala da ballo decorata dal Sartorio — allora giovanissimo — che vi dipinse due danze dei secoli passati: la Pavana e il Minuetto. Ricordo vagamente l'impressione che fecero su me — ragazzo — quelle due pitture eleganti il giorno in cui avevo accompagnato mio padre nel Cantiere dove il Sartorio lavorava. E' un ricordo che risale ad una quarantina di anni fa e fu in quella occasione che conobbi il Sartorio. Lo ritrovai più tardi quando si costituì la Società « In arte libertas », che organizzò la sua prima esposizione nello studio di un ricco dilettante che del Sartorio era scolaro. Col gruppo degli artisti che vi presero parte egli non si uni a loro che più tardi fu tra gli illustratori dell'Isaotta Guttadauro di Gabriele d'Annunzio, volume edito dalla seconda « Cronaca Bizantina », e il primo tentativo in Italia di una grande edizione d'arte. Allora Aristide Sartorio era in piena evoluzione: aveva lasciato le facili eleganze fortunjane per un più diretto studio della natura e quasi istintivamente si era avvicinato a Nino Costa, il pittore battagliero che fu cosi grande artista come infaticabile maestro delle giovani generazioni. Fu in quegli anni — siamo intorno al 1890 — che il Sartorio ruppe coraggiosamente con il suo passato pittorico. Ruppe coraggiosamente ed anche — aggiungerò — eroicamente. L'anno prima all'Esposizione universale di Parigi aveva ottenuto la grande medaglia d'oro da quella giuria francese per un suo quadro intitolato: «I figli di Caino». Era una grande tela dipinta con la facilità che gli era propria e con grande abuso di bitume come allora era di moda. Quando il quadro — che aveva trionfato in un paese non certo facile agli entusiasmi stranieri — gli ritornò nello studio, egli, che ormai si era fatto un nuovo concetto dell'arte e aveva nuove e più precise aspirazioni ideali, lacerò la tela perchè nulla più rimanesse del suo passato e con quella distrusse i molti acquarelli leziosi che ingombravano il suo studio. Poi prese la sua scatola di colori, passò intiere giornate nella campagna romana chiedendo alle pianure dell'Agro, alle nuvole del suo cielo e al mare delle sue spiagge il segreto dell'arte. Quando due anni dopo i suoi studi di paese apparvero al pubblico furono veramente la rivelazione di un grande artista: ormai la sua strada era tracciata nè avrebbe trovato più ostacoli fino alla fine, che è di ieri. Perchè tutta la vita, laboriosissima, del Sartorio, fu sempre confortata dall'applauso. Perfetta armonia Tenace nel suo lavoro, egli non si accontentava di riprodurre sulla tela le sue impressioni interiori, ma voleva farsi una cultura di arte e studiare — quasi parallelamente — l'evoluzione della tecnica nei più grandi pittori di questo mondo. Fu cosi che dal 1893 al 1896, viaggiò da studioso, volendosi rendere conto — a Londra — di quel che veramente avevano voluto fare i preraffaelliti, dì cui molto allora si parlava, ma che pochissimi avevano veduto; volendo analizzare, ad Anversa e ad Amsterdam i segreti di colore e di chiaroscuro, che avevano reso così giocondi i quadri di Pier Paolo Rubens, e così misteriose le tele di Rembrandt Van Ryn; volendo cercarea Basilea e nel Musei tedeschi, l'essenza stessa di quei ritratti di Hans Holbein per cui il carattere assurgeva quasi ad una rivelazione psicologica. E di questi suoi studi — così prò fondi e spesso cosi geniali — ci dava di tanto in tanto qualche saggio singolare nelle colonne di quella Nuova Rassegna che, sotto la direzione di Luigi Lodi, aveva chiamato intorno a sè, accanto a uomini illustri del passato, tutte le giovanili energie delle nuove generazioni. Così, in un duplice lavoro di studio e di azione, cominciò la nuova esistenza artistica di Aristide Sartorio. Per lui la vita e l'arte si compendiavano in una perfetta armonia. Così, per esempio, quando scoppiò la guerra, fu il primo ad arruolarsi volontario di cavalleria nonostante che l'età gli permettesse drimanere semplice spettatore, e fu ferito gravemente fin dai primi comba,ttimenti. Prigioniero, fu poi liberato per l'intervento di Benedetto XV e, non potendo più combattere, seguì gli eserciti come pittore e ne fissò le gesta nele trincee del Carso e tra le alture del Trentino. Firmata la pace, fu tra i primi ad iscriversi nei Fasci, dando alla Rivoluzione tutta la sua fede e tutto il suo ardore, perchè, come ho già detto, eglnon poteva disgiungere il pensiero dall'azione e, mentre era un italiano conscio dei suoi doveri di cittadino, eglcontinuava ad essere un meraviglioso operaio della sua pittura. Senza debolezze e senza incertezze, allorquando aveva deciso un dato lavoro per un dato termine, egli lo compiva alla data stabilita, come aveva fissato nella prima ora. Al pari di Edgardo Poe, egli creava un'opera d'arte secondo un principio prestabilito: artefice meraviglioso, per lui la tecnica del disegno e del colore non aveva segreti; poteva fin dalle prime pennellate giudicare quale sarebbe stato il risultato della sua creazione. L'inno alla Vergine Quando fu ciato a lui da dipingere il grande fregio decorativo che adorna l'aula di Montecitorio, sebbene il tempo stabilito gli fosse assai ristretto, egli promise di consegnare l'opera compiuta per la data che gli era stata fissata, e la consegnò. Qualcuno, temendo che l'intensità del suo lavoro potesse nuocergli alla salute, lo consigliava a chiedere una qualche dilazione; ma non volle: con la paziente e dura tenacia che gli era propria, egli condusse a fine il grande fregio e, quando ancora gli altri lavori non erano interamente compiuti, egli era pronto, secondo i patti firmati. Del resto, di questo nobile senso del dovere — cosi raro in un artista — ce ne ha dato l'ultimo esempio negli ultimi giorni della sua vita. Come si era impegnato di eseguire la grande decorazione musiva per la nuova Cattedrale di Messina, volle, ancora una volta, mantenere l'impegno. Vice-presidente della R. Accademia d'Italiaun ufficio che non era una sinecura come ogni cosa che egli assumeva a fare; si mise al lavoro tracciando il bozzetto di questa opera, una cosa tutta nuova, che è come l'inno supremo alla Vergine Maria cantato da un artista al limitare del grande misteroPoi sopravvenne la malattia: una malattia dolorosa, ( implacabile, che aveva necessitato una operazione chirurgica di non facile soluzione. Ma bisognava compiere l'opera incominciatabisognava che il bozzetto si traducesse nella sua forma definitiva; ed eccolo di nuovo al lavoro, con uno sforzo che ha del miracoloso. Con la ferita ancora aperta e che non si rimarginavaalzandosi all'alba, si faceva condurre nel suo studio, dove rimaneva fino al tramonto, vigilato amorosamente dalla signora Sartorio — nessuno dirà mal con quanta devota e disperata passione ella, durante più di un anno, stesse a fianco dell'artista moribondo, senza muoversi un'ora dal recinto pieno di fiori e di fontane della sua bella villa Orsina —■ circondato dall'affetto ansioso dei figli appena giovinetti, egli lavorò senza tregua fino alla fine. Poi, a lavoro compiuto, volle fare di più; con uno sforzo di cui nessuno lo avrebbe creduto capace, così esile ormai e così diafano come un cero che stesse per spegnersi, si recò personalmente a Messina per consegnare a quel Vescovo i cartoni del suo mosaico e per dare a quegli operai gli ultimi ammaestramenti che erano anche il suo testamento di artista. Poi ritornò a Roma, avendo esaurito in quel viaggio le ultime forze della sua fibra prodigiosa. Ma era felice di avere compiuto un altro lavoro, di avere mantenuto un'altra promessa. — Sai? — mi disse l'ultima volta che lo vidi, in una bella sera di un crepuscolo romano, cosi dorato e così verde, in fronte alla sua villa. — Sai? Bisognerà che mi sottometta ad un'altra operazione, ma non importa, ormai l'opera è finita... ». Ed è con queste parole che io lo vidi entrare nell'ombra della sua dimora. Ma era in quelle parole — confessione e ammonimento — era, come racchiusa, l'essenza stessa della sua vita di uomo e di artista. DIEGO ANGELI.