Roma e l'Italia

Roma e l'Italia Roma e l'Italia PARIGI, agosto. Impossibile per un italiano rivolgere il pensiero all'Italia dei primi decenni dell'unità senza una commozione, uno stringimento di cuore, una suscettibilità ombrosa, una pietà iraconda e insieme un senso di confusa gioia paragonabili a quelli ond'è invaso il cuore dell'uomo che, superata una fase critica dell'esistenza, si volti indietro a guardare donde è passato e pensi: « Eppure, della strada ne ho fatta! ». Della strada ne abbiamo fatta, in sessant'anni. Se non sempre ce ne rendiamo esatto conto, è perchè il volto dell'Italia all'indomani del Settanta non ci appare più d'ordinario qual era in realtà, ma quale ci piace immaginarlo in funzione del nostro presente. Vediamo le luci, non le ombre del quadro. Ora sono proprio queste ultime a misurare la lunghezza del cammino percorso. Ne ho ritrovata la traccia per caso in un vecchio libro francese pescato anni fa sulle spallette della Senna. Si tratta di una quarantina di lettere inviate, fra il novembre 1872 e il gennaio 1873 al Journal de Parts da Louis Teste, corrispondente romano del foglio conservatore (L. Teste, Notes sur Rame et l'Italie, Paris, Vaton, 1873). Modesto e dimenticato, come tutti quelli di noi giornalisti, il libro mi è tornato in mente l'altro jeri leggendo il primo volume (1889-1892) dei Ricordi di Carlo Benoist, ex-corrispondente del Temps a Roma. Distanti fra loro d'una ventina di anni, questi due profili dell'Italia dovuti alla penna di due osservatori francesi permettono di cogliere assai bene sul vivo le modificazioni subite dalla flsonomia del modello, nonché dallo stato d'animo di chi lo ritrae. I giudizi del Teste sono, manco a dirlo, signoreggiati dal presupposto della precarietà del nuovo assetto politico della penisola. Come tutti i regimi nuovi, come la Repubblica francese tra il 1871 e il 1880, come la Repubblica spagnuola oggi, il Regno d'Italia ai suoi primi passi non inspira intorno a sè una fiducia illimitata. Gli stranieri vedono volentieri in esso una costruzione artificiosa ed instabile, impressione che i loro colloqui con gli stessi italiani confermano più di quanto non occorrerebbe. Giunto a Roma in pieno accesso di malumore contro i piemontesi, il Teste non ha bisogno di tendere molto l'orecchio a destra e a sinistra per scoprire, con propria soddisfazione, come i « buzzurri » non li possa vedere nessuno. Siamo ai giorni del Ministero Lanza. Cinque Ministri su nove, Lanza, Sella, Ricotti, Ribotti e Castagnola, diavolo!, sono piemontesi. Piemontese, eccome!, il Re. Negli uffici pubblici, nient'altro fuorché piemontesi. E' una invasione, una conquista, coinè in Germania quella dei prussiani. Da Firenze a Napoli, chi vuol daJ re a qualcuno del prepotente, del pedante, dell'intruso, del mangiapane a tradimento, gli dà ormai del piemontese. Manco a farlo apposta, mentre arrivavano i piemontesi, sparivano gli stranieri. Giacchè gli stranieri, per poco che l'Italia accenni a voler mettere dell'ordine in casa propria, la prima cosa che abbiano sempre fatta è svignarsela, radiarla, in segno di disapprovazione, dai proprii itinerari galanti e sentimentali. Torneranno, beninteso: ma bisognerà lasciar loro il tempo di rassegnarsi ai fatti compiuti : oggi all'unità, domani alle ferrovie, dopodomani alla scomparsa dei lazzaroni, alla fine del brigantaggio, alla nascita dell'indù stria, alla sconfitta della pellagra e della malaria, alla bonifica, all'irredentismo, al nazionalismo, al fascismo. Ne diamo loro dei dispiaceri! Nel 1872, del resto, primi a tenerli lontani sono i preti col loro curioso disfattismo turistico : « Caduto il Potere Temporale, l'èra delle cerimonie e delle pompe religiose è finita. Che vorreste venire a vedere al di qua delle Alpi? ». Invece degli stranieri, dunque, piemontesi. Ma i piemontesi sono impiegati dello Stato, ossia per de finizione gente impropria a dare il menomo incremento al commercio Su un par di migliaja di lire di stipendio annuo, il Governo ne sottrae loro quattrocento di ritenuta: non ne hanno nemmeno abbastanza per cavarsi la fame! Eccovi, ritratto in punta di matita dal nostro autore in una trattoria di Frascati, uno dei cinquecentomila rappresentanti del nuovo regime: « Un impiegato a mil le e cinquecento lire, caramella all'occhio, bagna un biscotto in una tazza di caffè nero. Dopo codesto pasto alquanto magro, si stringe la cin tola di un pajo di buchi, ed esce, calzando i guanti, non senza un'oc chiata di stupore alla tavola dove il vicino forestiero si rimpinza di poi lo allesso e tracanna vino a discrezione ». Mi viene in mente, nel delibare questo episodio di cui al francese sfugge naturalmente la riposta bellezza, una frase della Direttrice di MSdchen in Uniform: « Unger, Unger! Fame! Senza aver sofferta la fame non rifaremo mai una grande Germania! ». La scuola della fame a noi italiani non è mancata di sicuro, e la grande Italia si è fatta, si fa. Ma nel 1872 nè stranieri nè romani potevano capire certi eroismi. I bottegai, facevano magri affari, e brontolavano. I cittadini vedevano rincarare la vita, e brontolavano. Ad onta di ciò, vale a dire a dispetto della logica, molte ditte di Torino incaponite a seguire il governo e la Corte aprivano sul corso botteghe dalle pareti coperte di marmi, lusso inaudito che, a dar retta al Teste, « irritava scioccamente il popolino fino allora immune d'invidia ». Perfino gli omnibus piemontesi sferracchianti nel centro dell'Urbe esasperavano i romani. E non vi fossero state altre ragioni di malcontento! Ma il- vero malcontento muoveva da cause di ben altro calibro e non finiva alle porte della capitale. Nel 1872 il vero c'tpmalcontento e l'effetto logico delia tasse e coscr^onè"Tbbn-!I governi di jeri, letargici constatazione che « il popolo non ha guadagnato nulla con l'Unità, anzi sta peggio di prima ». Si stava meglio quando si stava peggio. Pel popolo, Unità significa nient'al tro che gatona. -i Fl'jvtuu v.i icm, L^^m^.*^.* e assenteisti, potevano v vaccinare con oochi mia/trini • il recnn d'Ita- Hainv^wf «Viì1; ^ ffn^àr^ :™Iti t ™ fLJ;^ HPhiHÌ'™ P enormi, aeDiu, miio "j„ . ■ - „ ' i SiSteSi^dde di pace! Qua! meraviglia se, in | tali condizioni, la media delle mi-|poste vi tocca il trentacinque pericento del reddito? Nessun paese sopporta più balzelli di questo. Che fa, allora, l'italiano per sottrasi al torchio che lo dissangua? Emigra, ! poverino. Nel 1872, "assicurano al corrispondente del Journal de Paris, venti mila napoletani se ne sono andati in America. E' l'esodo in massa. I napoletani in America, i veneti in Ungheria. E in Italia chi ci resta? Restano loro, i piemontesi, si capisce. Per buttare all'aria ogni cosa, per tormentare la povera gente. Negli uffici pubblici, da quando comandano loro, nessuno più ha un momento di requie. Il generale Ponza di San Martino, nominato, all'annessione, governatole di Napoli scopre che i suoi impiegati vengont in prefettura alle tre del pomerig gio per andarsene alle quattro. Allt sue stupefatte proteste, quei bravi guaglioni rispondono che non si sen tono in vena, che non ce la fanno : « Eccellenza, oggi non me fido ! ». Immagina tu il piemontese! Unu delle ragioni più diffuse di malumore, attorno per l'Italia, è appunto che i nuovi padroni lavorano troppo, vogliono far troppe cose in una volta. Hanno appena messo piede in Roma, che già te la buttano giù. Con quali criteri, poi, Dio solo lo sa. Quando mai un piemontese si è inteso d'arte? Se potessero, ti farebbero di Roma un'altra Torino. Ed eccoli a ordinare l'intonacatura generale delle case, che le strade, così pulite, non le riconosci più. Al Colosseo, il Rosa ti strappj alberi e rampicanti, novello Guiscardo, e dicono che voglia addirittura lavare il monumento con le pompe. E palazzo Venezia? E il Quirinale? la Cancelleria? Montecitorio? Tutto ridipinto e disinfettato come caserme in tempo di colera. Ancora un po', e per aprire la via Cavour ti scalzano Santa Maria Maggiore. Non parliamo, poi, delle Terme Diocleziane, donde hanno cacciati i monaci per metterci la cavalleria. E il Tevere? O se non lasciano tranquillo nemmeno quello? Taglia di qua, raddrizza di là: ora un pezzo del bastione Sant'Angelo, ora il saliente della Farnesina, ora il ponte Rotto, ora i ruderi del ponte Sublicio, ora questo, ora quello: giù tutto, a gran colpi di piccone. Così ha decretato il prosindaco Pianciani, quel vandalo. E poi, quasi non bastasse, i muraglioni ! « Vogliono incanalare le acque del Tevere, scrive inorridito il Teste al proprio giornale, quasi si trattasse dello scolo di un acquajo ». Fortu na che per attuare quest'altro prò getto sarebbero necessari " quaranta milioni di lire: e dove pigliarli? Il Municipio sinora' ne ha dati due, e due il governo, che fanno quattro: con quattro milioni ce n'è appena per incominciare. Meglio così. Dedicassero piuttosto i loro pochi baiocchi a dotare Roma di,fognature moderne! Ma quelle non si vedono, e i piemontesi, capisci han bisogno di opere che si vedano, che diano nell'occhio, che facciano strepito. Megalomani, vanesii! Queste cose il nostro francese, che pure, dopo Haussmann, dovreb be averci fatto il callo, un po' le pensa lui, un po' le sente dire per via, dal barbiere, nei crocchi di sfaccendati, un po' gliele soffiano i preti. Giacchè, che è, che non è, tutti questi giornalisti francesi anche dopo il Settanta continuano a bazzicare imperterriti il mondo nero come se nulla fosse stato, o per lo meno come se un pezzetto del loro cuore fosse rimasto attaccato all'Italia di prima, all'Italia espressione geografica, o se volessero farsi perdonare la malaugurata idea dell'imperatore carbonaro di fare a tutti i costi di quell'Italia una Nazione sul serio. Politica infausta! Politica di suicidio! Abbassare l'Austria per creare una grande Italia e una grande Germania: si può esser più sconsigliati di così ? Manco a dirlo, il 10 gennaio del 1873 la morte dell'esu le di Chislehurst piomba l'Italia ufficiale nel lutto: bella forza! Un uomo che ha rovinata la Francia per servire Cavour! Ma la Repubblica, la Repubblica? Fa quel che può, monsignore. Non si può sempre rimettere in riga l'Italia con gli chassepots. Questa volta ha mandato ì'Orenoco a Civitavecchia : non è già qualche cosa? Pannicelli caldi, signor giornalista! Complicazioni inutili, che non cavano un ragno da un buco. Lo stesso. Pio IX non ha egli detto all'ambasciatore de Corcelles che l'incidente era spiacevole, che la Santa Sede non aveva mai chiesto al Governo francese di mettere a sua disposizione una fregata e che se a Versaglia si temevano nuove complicazioni il meglio era ordinare alì'Orenoco di levar l'ancora? Quello che il Papa vuole da Parigi non sono delle dimostrazioni navali, è una politica seria e continuativa : una Francia forte, e magari una Francia alleata della Russia, che tenga in iscacco Germania e Italia. Intanto, confida il cardinale Antonelli al corrispondente del Journal de Paris, la inevitabile caduta di Amedeo dal trono di Spagna sarà un primo colpo per Casa Savoja; senza dire che la restaurazione borbonica a Madrid farà rientrare in scena, in un momento estremamente opportuno, uno scettro amico della Chiesa e di conseguenza ostile all'Italia... Il tempo a lavora per la Santa Sede; tutto il re- sto è provvisorio. « Vedrete, vedrete nel 1874! », mormora misterioso Pio LX ai familiari. E dal pulpito del Gesù padre Curri, fiutando ironico il suo tabacco di Spagna, chiama Vittorio Emanuele « capitale ambulante d'Italia, in tappa provvisoria a Roma ». Per questo la società romana, prev-dente disarma, e gli Aldo Grandini i Borghese,_i Chigi, ì Mas . - , , , ~ .... .. T. S1IP°. 1 Barberini, i Caffarelh, i Ro spigliosi, ì Grazioli, ì San Faustino, iLancellotti,iTheodoli si astengonodal mettere i piedi al Quirinale Re Vittorio clle quel boicottaggio offen- de e addolora, se ne sta a Napoli più <i« P«°. non facendosi vedere alla c ^se non per presiedere il Consigft0 dei Mìnìs{rì £ricevere gli auturi di capo d'anno. L'ascendente benefico della principessa Margheri ta, nell'ambito chiuso della Corte, non iia ancora trovato modo di ec dissar quello, meno propizio, di co- lei che per Roma è rimasta « Ro sina ». I ricevimenti al Quirinale somigliano alle feste di una Sottoprefettura... Dicono, è vero, per dissipare il malessere, che il Re corrisponda segretamente col Papa, per mezzo dei proprii cappellani: ma se ne dicono tante! Sente la messa ogni domenica, sì: ma anche Voltaire ta¬ ceva lo stesso. Un giorno, raccontano i giornali, a Napoli è sceso di carrozza e ha piegato il ginocchio davanti al Santissimo. Bravo: e poi? Tutta politica. Anche Voltaire saiutava il Santissimo per via, e a un amico che esclamava, vedendolo: « Tò, vi credevo in lite!», rispose sarcastico: « Peuh! Ci salutiamo, ma senza parlarci ». Tutte queste cose, e molte altre, il corrispondente del Journal de Pa- ris le consegna giulivo e speranzoso , . . ! pasquinate della Frusta e del Cas- !sandrino, ai dati catastrofici sul cor- so forzoso, sul commercio interno ed Iestero, sul brigantaggio che sta per richiedere l'apposita creazione di un Comando dell'esercito, da Salerno a Cosenza, affidato al generale Pallavicini. Eppure — debbo dirlo ? — il tono della sua esposizione non è velenoso, non è sprezzante. A soli due anni da Sédan, la Francia non ha ancora imparata l'arroganza verso l'Italia. L'aria di superiorità, l'alterigia ironica, la degnazione sufficiente che troveremo seminata a piene mani nei Ricordi di Charles Benoist le sono estranee. I tedeschi occupano tuttora il suolo francese: c'e poco da stare allegri anche nella Repubblica del Quattro Settembre! Il problema dei rapporti franco-italiani è anzi considerato a Parigi con assiduità ed inquietudine. L'alleanza italogermanica vi è stata giudicata una abile iniziativa del Gabinetto di Roma, un buon puntello per il giovine regno. Il Teste non ostenta di riderne, come farà di lì a vent'anni il corrispondente del Temps. E Thiers si guarda bene dall'agire verso il Quirinale con la disinvoltura che verrà di moda più tardi. Vero è che fino a questo momento la Francia mantie- Sede e un semplice ministro presso il Quirinale: ma a Parigi c'e chi vor- rebbe addirittura la soppressione del ' ~ secondo per non spiacere al Papa, e il Capo del Governo non è senza merito nel resistere a simili pazzi furiosi. Visconti Venosta da una parte, Nigra dall'altra, assecondano gli sforzi della resistenza ai clericali... Ah, se la Francia volesse! Ah, se questi due popoli che hanno tanto sofferto potessero finalmente darsi la mano, mettersi a camminar di conserva! Nulla di irreparabile è stato commesso. Di Tunisi non si parla ancora. L'avvenire franco-ita- mano e ancora una pagina bianca... Ahimè CONCETTO PETTINATO