Panzini attraverso i secoli

Panzini attraverso i secoli Panzini attraverso i secoli ersag^eenezasonoeue capitali del settecento : due potenti Stati che si corrompono, due civiltà dominatrici in rosea dissoluzione. E, come tutti i tramonti e gli autunni, accesi di stupendi- bagliori che da lontano richiamano l'ammirazione e l'invidia. E anche questo tramonto prepara, con la notte, futura aurora ; anche a questo autunno succederà, dopo le bufere invernali, una primavera di nuova vegetazione. Le fioriture di una civiltà, troppo filiforme per non essere fragile, verranno sostituite da fronde più numerose e robuste. A Venezia, dove persino il dramma storico si svolge per amabili e molli ritmi, esso si riflette e par riassumersi, come in piccolo specchio convesso, nel dramma domestico della famiglia Gozzi. Prima sperperatrice del patrimonio della casa, era stata la disordinata contessa Tiepolo, andata sposa a un Gozzi, e madre di ben dieci figli e di molti versi. « Sono come le dieci dita della mano », ella soleva dire dei figli ; « tutti ugualmente cari ; se un dito ha male, fa male a me ». Tutta quanta la famiglia, con i discendenti, gli affini e i collaterali, più o meno « sacrificava alle muse», come si diceva allora. Dei dieci figli, due sono celebri. Il conte Carlo, grassoccio e iracondo, fu l'ultimo spalto della resistenza patrizia contro l'invadenza delle nuove classi, la borghesia. Non si difendeva sul terreno politico, ma su quello del costume e della società. Combattè con mortale odio Carlo Goldoni, che dava diritto di cittadinanza sulle scene a Lelio e Elorindo, al buon mercante Pantalone e ai quattro rusteghi con moglie e figliuoli, tutti personaggi del terzo stato, alla cui borghese realtà Gozzi cercava contrapporre il mistero dei gran personaggi mitici, guerrieri e innamorati, principi e reginotte, fate, maghi e incantatori. L'altro fratello, quello spilungone allampanato di Gaspare Gozzi, è per contro un antesignano dell'ascesa borghese. Girava anche lui le calli e i campieli di Venezia, come Goldoni, a cogliervi fiori d'arguzia e di buon senso, vive battute popolaresche, il linguaggio della plebe e della realtà. E non lo metteva neppure in commedia, ma spesso lo scodellava tal quale nella più moderna e la più borghese e rivoluzionaria di tutte le forme letterarie, in un suo foglietto periodico, l'Osservatore. Gozzi, con il JBaretti della Frusta letteraria e con i Verri del Caffè, è tra i fondatori del giornalismo italiano, che del resto, dopo Roma, ebbe proprio a Venezia le qrigini, con la Gazzetta. E quella vena di fantasia, di poesia o di matteria, come dice il popolo, che anche lui aveva in comune con il fratello, la applicava però ancor essa, borghesemente, a fini pratici di propaganda e d'insegnamento, con le sue didattiche, ■moralissime favole'.'' """ 1 •!!«-»• #*# „In questa casa dei Gozzi, andò sposa, maritata al conte Gaspare, la signorina Luisa Bergalli, una borghesuccia bionda e quasi celebre, non più giovanissima, nata a Venezia da madre veneziana e da un bravo piemontese, professore di francese e proprietario di un negozio di scarpe, che le aveva fatto dare un'educazione accuratissima. Luisa Bergalli era non solo poetessa, ma scrittrice e letterata, con tanto di lettere patenti di Arcadia, che le davano quasi aureola di nobiltà. Nei boschetti parrasii, aveva diritto al nome altisonante di Irminda Partenide. Queste e molte altre dilettose e utili cognizioni, ammaestramenti, divagazioni e riflessioni si possono leggere nel recentissimo volume d< Alfredo Panzini, La sventurata Irminda, e imparare come ella vivesse, operasse e morisse. Non è una biografia, e non è un romanzo, pure partecipando dell'una e dell'altra cosa. E' un delizioso racconto; Irminda è il pretesto di una scorribanda, che Alfredo Panzini fa attraverso i secoli, partendo or da questo or da quello, ma alla fine, come egli usa, per punto di arrivo ritrovando pur sempre Alfredo Panzini. E comincia da un anno imprecisato della fine dell'ottocento, quando il piccolo Alfredo era a scuola, anzi in collegio a Venezia; in una Venezia che si tinge degli stupendi colori della lontananza e dell'adolescenza. Passano innanzi a noi le macchiette di molta gente, morta oggi, ma ancor viva nella tradizione veneziana; in quella tradizione scola stica che ha pur sì gran peso, e da bocca a bopca dura parecchie generazioni. Gente, che mai non conobbe onesta gente, pure sa ancor oggi, per n i .ir.. :ì. : j_ii'_l t„ averlo udito dai genitori, dell'abate Tallandini e del professore Dezan, come ha inteso parlare di Politeo e di Molmenti, in più recenti tempi professori a Venezia. Dal collegio Marco Foscarini, tra rii e lagune, parte lo studente Panzini, e diventa il professore Panzini, come in altri suoi libri abbiamo appreso, e qui è appena accennato. Ma qui invece torniamo a incontrare l'accademico Panzini, divenuto eccellenza e forse un poco incanutito (facendo il calcolo delle probabilità) certo sempre sorri dente e arguto nella giovinezza dello spirito, quale i suoi libri palesano. Forse, si può notare che il sorriso è un poco più nostalgico, ma non più amaro; anzi l'esperienza pare abbia placato l'amarezza, che più tor bida e inquieta si palesava in La lan terna di Diogene e // padrone sono me, Attraverso la breve narrazione degli anni di collegio, l'autore ritrae la propria persona morale senza pedanterie scientifiche, anzi con discrezione e sobrietà di artista, ma pure in modo da gettar rapide luci alla Freud sulla sua formazione spiritua le : dall'influenza della santa Cate-rina che gli sorrideva nell'oratorio e i à , , a e o ; , e e l i r a i e e , , , o o e e o e e o i i e , e r a e , n l . l l i l , a a e a „ n a . e . o e , o < , n a a a a , a i , a e r „ e , e i o , a i è n o . o n o a n a (credo si tratti di un celebre quadro di Palma il vecchio) all'amore per la virtù, al senso un po' rigido, un po' compassato della morale, che gli instillavano i professori, corretto tuttavia dalle umane lettere e da quella sana indulgenza, quell' amorevole compatimento, che esse inspirano a chi umanamente le comprende e le ama. * * Dagli ultimi decennii dell'ottocento trascorriamo così al novecento di oggi; ma torniamo assai più addietro, al settecento e oltre, sulla traccia di una lettura, che fa il Panzini, del dialogo Le avventure del poeta, opera di Luisa Bergalli, non ancora divenuta la signora contessa Gozzi. La povera donna, tra le molte sue disgrazie ebbe anche quella di venir presa di mira da due spiriti acri, mordaci e caustici quanti altri mai ne conti la letteratura italiana. Il cognato Carlo Gozzi, dapprima, nelle Memorie inutili, inventò per lei quella frase « della sua pindarica amministrazione» che le rimase appiccicata come una etichetta di ridicola incapacità e di pretensioso confusionismo. Poi venne il Tommaseo, a rincrudir la dose. E di questo critico traccia un arguto ritratto critico il Panzini, con quella sua aria sorniona, da impressionista svagato, che mette giù una parolina qui, e un tocco di colore là; ma poi ti allontani, e ogni linea, che lui pare non aver segnato, balza viva, senza errore, voluta con precisione sagace. E Panzini sta li a guardare, e pare che non sia il fatto suo. « Nicolò Tommaseo doveva possedere un eccesso di virtù... Arrivato fino in vista del tenebroso mare dove cantano le sirene dagli occhi madidi per il piacere... • si turò le orecchie... Tutta quella virtù, per mancanza di sfogò, inacidì, e si mutò in una sottile acredine : una viperetta gli spuntò sotto la lingua con la quale egli diceva la verità, e così punse anche i suoi idoli. Il bisogno sadico della flagellazione lo sfogò mormorando in un suo stile perfetto e sforzato come i cannoni rigati a retrocarica ». #** Nell'opera del Panzini, Irminda si ricollega a quel piccolo capolavoro di qualche anno fa che è Santippe. E' la difesa di una donna, contro la calunnia di alcuni uomini. E più ancora, è la difesa delle donne, di tutte le donne, fatta brontolando, con aria burbera, talvolta di malagrazia, ma fatta insomma, e da par suo fatta, con efficacia, da Alfredo Panzini, che passa per misogeno e rampognatore di femmine. Che cosa significava il romanzo Santippe? La dimostrazione, che non è comodo essere la moglie di Socrate, e che quel sant'uomo di Socrate (che sant'uomo, ma che tormento, dice Manzoni) avrebbe fatto perdere la pazienza a qualsiasi santa donna. Come si fa, Apollo iddio, a non ave|re il senso della vita pratica? A passare la vita interrogando i passanti, e molestando le .autorità, fino al punto di èssere poi costretti a compiere quel bèi gesto,'di bere la cicuta, piuttosto che andare a vivere in un paese di beoti, dove non si può far quattro chiacchiere con gli amici al caffè? Santo Giove, una moglie deve pur pensare alla famiglia, alla casa, alla pentola, ai figli! E la stessa difesa, ma ancor più esplicita e più accesa, Panzini compie per Luisa Bergalli, la quale non era neppure una stizzosa megera, ma una povera sfortunata. E non è vero che fosse, prima di sposarsi, l'amante di Rambaldo di Collalto. Il buon difensore va per questo a fare un sopraluogo apposta al castello di Collalto, quasi un cavaliere errante di altri tempi, per l'onore della dama. Come sorrideva intatta quella cerchia di mura, a diadema del bel colle, a cerchio del borgo e del castellò, negli anni prima della guerra ! Era uno dei pochissimi castelli del Veneto, dove, per esser sempre stato forte e munito governo centrale, mai non si permisero difese individuali, o angherie e ruberie sotto pretesto di difese, e in forma di prepotenti torri e manieri feudali. Difatti, dal cinquecento al .settecento, i lieti anni avevano addolcito di aperta bellezza la dimora medioevale dei signori tedeschi di Collalto. Vi erano boschi architettati all'italiana, con filari e siepi di bosso che si chiamavano La Tombola, aperti sempre a tutti, e gran richiamo di popolo nella sagra annuale; e portali del rinascimento, e vasti cortili, e ornate cappelle. Il fantasma di Bianca di Collalto, l'ancella murata viva per gelosia della sua dama, che nello specchio la vide sorridere al signore, non avrebbe trovato clima da allignare, in riva al sorridente Piave. Ma, come accade alle creature di bellezza, pure l'avversa sorte fu benigna al castello di Collalto. La guerra, e le bombe degli aeroplani, han fatto di certe sue parti ruderi, ma quali stupendi ruderi ancora retti secondo leggi di euritmia. E lassù Panzini incontra i gentili fantasmi di Collatino di Collalto che l'amore i sospiri e la morte della misera Gaspara Stampa han reso immortale. Dal cinquecento di Gaspara Stampa al settecento di Irminda, all'ultimo ottocento della sua infanzia, sino al novecento d'oggi, Panzini così trascorre dietro le orme della poetessa per la difesa del buon nome di lei, povera donna, madre di cinque figli, e lavoratrice indefessa, che molto contribuì a mantenere la famiglia con le sue fatiche. E' un settecento veneziano, questo ch'egli ci ritrae, ben diverso dal solito; non di salottino e non di maniera. La figura da lui disegnata e colorita non somiglia alle dame tutte uguali incipriate c sorridenti con il neo che Rosalba Carriera adulava sfregando rosei e cilestrini pastelli. E' una figuretta viva, alla Longhi, ma più affannosa e tormentata, e nello spirito più fraternamente simi¬ -Ue e vicina a noi. o MARGHERITA G. SARFATTL

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