Nel Paese del gelsomino nero

Nel Paese del gelsomino nero Nel Paese del gelsomino nero Palmeti palestinesi - Una storia romantica - Medioevo ligure - Il crudele Boabil e la bella Ziadatalè - Amore e morte - Il gelsomino nero - Il romito della Tebaide - Una piccola repubblica L'Eden della Regina - Modernità floreale (Dal Nostro Inviato Speciale) BORD1GHERA, maggio Quando si parla di Bordighera, si evocano in generale, i suoi palmeti — lussureggianti palmeti che ne caratterizzano il paesaggio, dandogli un carattere che si potrebbe dire palestinese. Se infatti un malizioso metteur-en-scène volesse, senza muoversi dall'Italia, riprodurre un'alba o un tramonto fra i palmizi, nel paese di Cristo, potrebbe utilmente disporre il suo obiettivo lungo la spiaggia di Bordighera: — ne ritrarrebbe un suggestivo effetto esotico. E' anche generalmente risaputo che a questi palmeti attingono del pari cristiani ed ebrei, per dare verdi decorazioni alle Feste pasquali, sia dell'uno che dell'altro rito. Pochi invece ricordano un altro motivo d'esotismo e di favola, che s'innesta profondamente nel carattere floreale di questa parte della Riviera Ligure. Bordighera è la terra del * gelsomino nero ». Io non so se i geniali floricoltori della Liguria abbiano mai pensato a creare, tra le gamme quasi fiabesche delle loro coltivazioni, anche questa varietà del gelsomino, l'inebbriante fiore, di orìgine araba, ornamento di fontane zampillanti e di colonnati marmorei, minuscola e profumatissima corolla candida. Sarebbe una trovata da poeti! E non ci sarebbe nulla di strano che quei « maghi dei fiori » i quali ci tonno già dato il garofano violetto cupo e il garofano quasi azzurro, riuscissero a creare questa nuova varietà. E se essa vive oggi soltanto nel mondo delle poetiche ipotesi, ciò non impedisce che Bordighera rimanga egualmente la « città del gelsomino nero*. Ai tempi dei pirati L'idea è fiorita da una antica leggenda, ancor viva nell'anima popolare, giacchè si radica nella storia del paese, nelle sue vicende guerriere, costituendo una delle sue più belle romantiche pagine. Bipartiamoci al Medioevo. Un medioevo ligure, assolutamente originale, che mette rocche ferrigne tra il rigo glio ancora selvatico dalle verzure rivierasche, ed eleva tozze torri di vigilanza «iti promontori. Nelle notti, su questi torrioni fiammeggiano le vampate di pece greca, alimentate incessantemente da uomini ferrati; che hanno il capo coverto dalla ogivale barbuta. Queste fiamme bizzarre, a volute improvvise, sono i primi improtwisati semàfori della costa: servono di segnalazione alle imbarcazioni liguri o di richiamo d'allarme per le popolazioni vicine. Tutti questi rudimentali alfabeti di fuoco, queste costruzioni feudali, questi armati, sono organizzati contro un solo pericolo, contro un unico nemico: il pirata barbaresco che, con le sue velocissime fusto scorre il Mediterraneo, viene a mettersi in agguato presso le scogliere, nelle tenebre e con le tempeste, pronto all'arrembaggio e alla irruzione sulla costa. Su questi loro implacabili colpi di matto, i pirati barbareschi salgono promontori, penetrano negli abitati, incendiano e devastano, predano le chiese, si impadroniscono degli uomini validi e delle donne più giovani e più belle. Gli uni saranno poi gli schiavi al remo; le fanciulle, chiuse nelle rabescate case dei signori di Algeri 0 di Tunisi, diverraìtno concubine e serve, per i piaceri dei loro padroni. Non per nulla i borghi liguri hanno in questo tempo un aspetto così chiuso, ferrato, angusto che molti di essi conservano ancor oggi le case, strette l'uno all'altra; le vie simili a profonde fenditure, legate da archetti e da bracci in ferro, tradiscono già nella loro struttura ermetica e sospettosa, il timore e la difesa. Uno dì questi corsari è Boabil: il suo nome è temuto in tutto il Mediterraneo, da Gibilterra a Genova, dai porti della Spagna a quelli della Riviera di Levante. Giovane, coraggiosissimo e spregiudicato, capo di una squadra, comandante di ciurme sanguinarie fanatizzate, Boabil semina il terrore e la morte su tutte lo rive. Durante una incursione su Granata egli ha rapito una donna bellissima, dagli occhi sfolgoranti come soli neri. Si chiama Ziadatalè. Boabil non larda, a innamorarsi follemente della schiava. Egli si dichiara pronto a qualun que sacrificio e a qualunque rischio per lei: depone ai suoi piedi i più fa- votosi gioielli, le pietre preziose dai-,l'acqua più pura, le sete, 1 damaschi, gli ori. Per ottenere questi doni egli attaccherà, inccndierà, massacrerà portando davanti a sè la devastazione e la morte. Inutilmente! Ziadatalè non ama quest'uomo bello e terrìbile; inorridisce davanti alle suo mani sporche di sangue. Non è per un uomo di guerra, non per un pirata die il suo cuore può battere. Ella tongue sulla tolda della nave capitana di quel malore misterioso che entra talvolta nel cuore e nel sangue delle donne del Sud e contro il quale nessun farmaco, nessuna opera di medico o di mago possono agire. E' il malo della nostalgia e della schiavitù. Esasperata dalle ripulse e dalla di» solvente tristezza di Ziadatalè, Boabil attacca una notte la costa nelle vicinanze del Capo, ove sorgono già le case che costituiranno il futuro nucleo di Bordighera. La mischia si accende feroce. Le fiamme divampano. Le donne coi bimbi in collo, i vecchi, gli uomini inermi fuggono ululando su per il monte... Senonchè la pugna, come per incanto, si placa. Sul ponte della nave di Boabil, si innalza la bandiera bianca. Segno di tregua; segno di pace. Che cosa è avvenuto dunque, a frenare di improvviso la furia sanguinaria dei pirati? Ziadatalè muore. Inginocchiato davanti a lei, dimentico della pugna singhiozzante, Boabil, l'implacabile ito mo di guerra, chiede alla morente diguardarlo ancora una volta, per un, , , u leva(oin viene distrutto e sulla torre, che serviva di nucleo per la attimo. Tutto egli farà per lei, rinuncerà alla lotta e alla guerra di corsa. Ora la bellissima agonizzante parla con voce lenta ed esausta: sì, ella perdonerà e morirà contenta, se Boabil prometterà di abbandonare la sua vita di arrembaggi e di stragi. Invocando il tuo Dio, egli giura solennemente. Ma implora anche la sua donna di vivere, di vivere per lui, mutato e redento. Ma la morte è implacabile: essa non teme nè le minaccie, nò le corruzioni, nè le preghiere dei potenti. Ziadatalè ha reclinato, tra le chiome nerissime, la testa. Il suo occhio, dopo un ultimo sguardo pieno di indulgenza e forse di tenerezza per l'uomo che l'ha tanto amata, si spegne... Fu, allora — narra la leggenda paesana — che Boabil, trasformato dalla sciagura, fece trasportare il corpo della bella morta nella zona del Capo, e qui la fece inumare entro un sepolcro magnifico, sul quale, con le sue mani tremanti, egli piantò il gelsomino nero, simbolo dell'amore e della morte, irrorandolo con le sue lagrime. Nella dolce e bellissima Ziadatalè il popolo di Bordighera vede così, leggendariamente, la sua romantica patrona, colei che le diede la pace e con la pace l'energia per edificare la fiorita e prosperosa Bordighera futura. Sì che ancor oggi il popolo vede, con fresca ingenuità nella statua d'Igea, eretta in piazza della Fontana, l'immagine della bella moresca, che donò morendo la quiete al paese. Come accennavamo, la leggenda si innesta nella storia dell'evo piratesco. Fu appunto intorno al 1470 che trentadue famiglie del prossimo centro di Borghetto s'adunarono nella chiesa di S. Nicolò, stabilendo di unirsi in comunità e di erigere un centro fortificato, nella zona ove Bordighera preso poi linea e nome, nel punto preciso in cui sorgeva il Castello di S. Ampelio. La grotta del romito Anche questo nome del resto si riallaccia a un'altra tradizione di Bordighera. Questa tradizione, di carattere religioso, ricca di aspetti pittoreschi, dà, alle origini squisitamente poetiche della città un soffio spirituale. Sulla estrema punta del Capo, dove esistette ai tempi di Roma un piccolo « pagus » (paese) chiamato Sepe o Sepelegium, si apriva una grotta. Fu appunto dentro i suoi rocciosi penetrali che nel 411 d. C. venne a stabilirsi un celebre romito, proveniente dalla Tebaide ove, tra il mestiere del fabbro e le fervide contemplazioni, divise le sue giornate, nelle solitudini ove più possente passa il soffio di Dio. S. Ampelio, abbandonato l'Oriente per il rifugio della Riviera, raccolse intorno a se i pochi abitanti- del luogo, insegnò loro il Vangelo, insegnò loro le regole della pastorizia e, per primo apprese loro i segreti pei quali si piantano la palina e la vite. Così questo santo, che fu anche capo di comunità, inventore di farmachi e giudice delle controversie, fu, anche dopo la sua morte, venerato. Nel suo nome fresco e foglioso, {non deriva forse esso dal greco ampclos, vite?) si venerò quasi un rito agricolo e jampiìieo, un rito fecondamente italico. Nel 1680 Bordighera, che è già divenuto un centro munito di mura e bastioni e già attivissimo nelle coltivazioni, nella pesca e nei commerci, accentra intorno a sè Sasso, Borghetta, Vallebona, Vallecrosia, S. Biagio, Camporosso, ecc. Si costituisce così una specie di minuscola repubblica dotta degli Otto Luoghi ». Cessate le incursioni dei pirati e le guerre, il difesa e di occhio sul mare, s'innalza una cupola decorativa: è il primo campanile. — Qitesta tradizione repubblicana di Bordighera — mi dice una notabilità della graziosa città floreale — non ha impedito che l'Ospite più venerata e più cara per gli abitanti di Bordighera sia stata S. M. la Regina Margherita, che nella nostra città aveva eletto fin dal 1879 la sua dimora estiva, il suo <* riposo » e in un Eden di palme e di fiori, chiuse serenamente il 4 gennaio 1926 gli occhi alla vita, che con Lei era stata o.nche tanto crudele. Ma Bordighera, che Giovanni Ruffi- che più diletta alla colonia inglese, è la presenza, nel camposanto Britanni- ni nel suo « Dottor Antonio » aveva rivelato agli inglesi, ha avuto anche altri ospiti illustri. Iniziatasi nel 1866 la formazione della colonia britannica, una insigne rappresentanza di sudditi del Regno Unito, venne a soggiornare su queste rive, costruendo ridenti ville e creando deliziosi giardini. A Bordighera soggiornò lungamente uno scienziato illustre: Clarence Bicknell, che. si dedicò soprattutto allo studio della nostra flora. I fiori e le croci Passò pure i suoi ultimi anni a Bordighera sir Edivurd Tackeray. Qui amarono sostare Paolo Mantegazza e l'Hamilton. A rendere Bordighera an- co, di settantadue croci, erette sui tumuli di altrettanti valorosi Caduti durante la grande guerra, Bordighera, centro di floricoltura, è poi una creazione dei nostri giorni, tanto più rigogliosa quanto più è recente. Non bisogna dimenticare, tra i geniali pionieri di questa gentile industria, i tedeschi: primo fra tutti il Winter, quindi Stefano Neuhoff, che introdusse la coltivazione della rosa e della mimosa, e da ultimo il Diem che introdusse l'&sparagna. Ma c'è anche tutta una genealogia di coltivatori itaiiani, tra i quali vanno notati il Lamberti, i Blancardi, il Biancheri Milller, l'Aprosio, il Cevasco, ecc. — All'Italia nuova — mi ricorda infine un'insigne coltivatore — Bordighera ha offerto il garofano «Duce» e i! garofano « Giovinezza ». Due creazioni, indubbiamente.' Perciò il futuro di Bordighera non può non stare a ettore a chi regge le infallibili sorti d'Italia. CURIO MORTARI.