Il primo fiammifero

Il primo fiammifero Il primo fiammifero Accendere un po' di fuoco, al tempo dei nostri buoni vecchi, non era una cosa troppo semplice. Ora, con gli accenditori a benzina., l'acciarino è tornato di moda; ma in quei beatissimi tempi la benzina neppure si sapeva cosa fosse, e per raccogliere quel po' di focherello dall'esca si usavano gli zolfanelli, icioè dei fuscelli di legno intrisi di zol:ifo. Con questo, e a patto di non aver troppa premura, l'operazione riusciva quasi sempre, purché ci fossero tutte le condizioni necessarie, lo zolfanello preparato a dovere, l'esca bene asciutta e di buona qualità, e l'aria non troppo umida. E se si aveva premura? Chi awa premura, a quei tempi, se la teneva ed aspettava con santa pazienza — e se non ai rassegnava ad aspettare peggio per lui, che aveva torto; doveva... aspettare a nascere nel secolo XX. E se c'era troppa umidità e il fuoco mon si accendeva? Rimaneva spento, seco tutto; e bisognava aver pazienza. Al tempo dei bisnonni, in fondo, tutto stava li: quello che non si fa oggi si farà domani, o fra un armo, o fra un secolo, o magari non si farà mai — pazienza! pazienza! —" Pure, fin dai tempi di Napoleone, un chimico francese emulo di Prometeo aveva pensato a un modo più speditivo per avere il fuoco, e aveva inventato il briquet oxygóné. Bella trovata davvero! Era una boccettina contenente un batuffolo di amianto imbevuto di acido solforico; immergendovi uno stecco intriso di un miscuglio di zolfo e clorato di potassio, quest'ultimo a contatto con l'acido s'infiammava e si estraeva il fiammifero bello e accesosalvo il caso, tutt'altro che infrequente, che la boccetta scoppiasse in mano all'imprudente che 3'adoperava. In questa eventualità le cose si complicavano un pochino : ci si poteva bruciar le maini, rimetterci un occhio, restare sfigurati vita naturai durante; e non è meraviglia se quei briquets — i quali fra l'altro costavano .anche relativamente caro — ebbero poca fortuna. Non erano gran che più pratici i prometheans, d'invenzione inglese, che vennero qualche anno dopo; l'acido solforico era contenuto in un tubetto dij vetro sottilissimo, avvolto in una carta^ al clorato di potassio; strofinando energicamente il tubo, si rompeva il vetro e si provocava l'accensione del clorato... e attenti alle mani! E i fiammiferi elettrici? Si chiamavano così perchè si accendevano per sfregamento, ma le'lettricità non c'entrava per niente; erano stecchini con la testa formata da una pasta di zolfo, cloruro di potassio e solfuro d'antimonio. Si avvolgeva la testa del fiammifero in un pezzo di carta vetrata, si efregava energicamente, e... poteva succedere che l'elettrico si accendesse senza difficoltà, come poteva succedere che non si accendesse affatto, o che scoppiasse fra le dita o schizzasse faville sul muso degli astanti. Ma oramai era vicino il giorno in cui l'umanità avrebbe finalmente avuto modo di procurarsi un po' di fuoco senza dover armeggiare un quarto d'ora e senza arrischiare di deturparsi le fattezze; il tempo in cui le Vestali avrebbero potuto senza inconvenienti abbandonare il fuoco sacro e magari mettere il gatto sul focolare. Stavano -per apparire sull'orizzoiite i primi fiammiferi per davvero, inventati non solo dal tedesco Kammerer (1796-1867), come si legge dn tanti libri anche italiani, ma anche da due piemontesi. Tre inventori? Ma sì; l'invenzione dei fiammiferi ha questo dì singolare, che è... plurale; o più esattamente, si tratta di tre invenzioni diverse, distinte nel luogo e nel tempo. Il primo che riuscì a preparare degli zolfanelli chimici capaci di accendersi senza difiìcoltà e non pericolosi fu un fossanese stabilito a Napoli, Samuele Valobra; l'invenzione è del 1829, e in quel medesimo anno il Valobra aprì una fabbrica che ebbe, pare, discreta fortuna. Ma fuori di Napoli, probabilmente, non se ne seppe nulla; a quei tempi le relazioni fra i varii Stati italiani erano intense, press'a poco, come oggi quelle fra la Groenlandia e l'Eritrea,' e forse anche meno; gli scambi commarciali erano insignifi gssltstugldgdqlcltmanssppcststtabprsptlltrJrSpssrTaccgrcanti, quelli intellettuali nulli. Il fatto!*, i., • * *tè che proprio cent'anni fa, un chimico, modesto ma valente, che non aveva mai sentito nominare il Valobra, an- cc^^^^■*rSS^^™7TS'^XrriPLSgrtZJS^S^^^X*di rendere pratico il vecchio briquet all'acido solforico, sperimentando varie composizioni di paste in sostituzione del clorato di potassio. Quel chimico si chiamava Domenico Ghignano; era nato a Dogliani, la piccola simpatica cittadina dove, il' giorno dei Morti, si tiene una solenne fiera delle trifole; e abitava a Mondovì, dove spesso era coadiuvato nelle sue ricerche dal conte / Chiesa di Vasco, appassionato cultore delle scienze. Il 31 maggio 1832, giorno dell'Ascensione, il Ghigliano era nel suo laboratorio e si disponeva a recarsi dall'amico, come usava fare tutti i giorni festivi; qualche giorno prima aveva preparato alcuni zolfanelli con una nuova composizione, e li aveva posti ad asciugare sul davanzale della finestra; il figlio del chimico, Giovanni Battista, dvqPsssgehcpchdal momento di uscire, volle vedere sei fquesti zolfanelli erano asciutti, se cioè!ela pasta aderiva bene al legno, e prò- rVò a strofinarne imo sulla pietra del,ndavanzale. Oh meraviglia! Lo stecco!lsi accendeva da sè, senza bisogno di iracido solforico! Prova con un secondo, un terzo, chiama il padre, ripetono insieme l'esperimento... Domenico Ghigliano, senza saperlo, aveva inventato i fiammiferi fosforici! Meno di un anno dopo, nel 1833, i fratelli Albani aprivano a Torino, in Borgo Dora, la prima fabbrica di pirofori, come allora si diceva; un'altra sorse poco dopo alle Fontane di Santa Barbara, a levante di Piazza Emanuele Filiberto, una terza sullo Stradale di S. Massima (corso Regina Margherita, tratto fra Porta Palazzo e il Rondò di Valdocco), una quarta verso il cbcsddCvrmttlnaMartinetto. L'industria, malgrado una,Ufòrte concorrenza tedesca, fu ben pre- nsto florentissima; i pirofori torinesi si esportavano in tutta l'Europa, in quantità abbastanza considerevoli perchè la bilancia commerciale del Piemonte ne avesse un sensibile giovamento. C'erano, come in ogni novità, degli inconvenienti... Per citare un caso non troppo tragico, accadde una volta, in un cascinale alle porte di Torino, che un mazzo di solfanelli andò a finire, dntelsdtdchissà come, in un truogolo, dove (pmaìali ne fecero ghiotto pasto con lejzconseguenze che si possono immagi-|rBare. Un giornale in vena di malumo-lvre, l'Esperò, ne fece una lunga tirite-si ra in tono cosi lugubre da suggerire a Baratta un epigramma, che a dir vero non è fra i migliori del terribile stroncatore: Per alcuni maiali avvelenati L'Esperò manda al cielo aspri ululati E contro i zolfanelli se la piglia... Si vede ch'è un disastro di famiglia. Ma col tempo anche queste tragedie del progresso si fecero sempre più rare, sia perchè il pubblico (maiali compresi) si andò avvezzando ad aver più ìza saper nulla nè del Valobra nè delGiugliano, in quel medesimo anno 1832, riuscì a perparare dei fiammiferi fosforici; e l'anno seguente si aprirono anche in Germania, come in Piemonte, le.prime fabbriche. Si vede che oramai l'invenzione era matura, e non arebbe affatto strano che nel medeimo torno di tempo in qualche altro paese un quarto volenteroso avesse rovato anche lui, su per giù, la stes a cosa. Ma è ben significativo che i due in ventori italiani siano venuti proprio a questo Piemonte, che da tanti era giudicato allora un paese privo di inellettualità e nemico del sapere, una erra di soldati valorosi ma rozzi ed ncolti, e che un filosofo di malumore sò definire — Dio gli perdoni! — la Beozia d'Italia. E. B.