Preludio romantico alla Biennale

Preludio romantico alla Biennale Preludio romantico alla Biennale (DAL NOSTRO INVIATO )- Venezia, 23 notte. Anche quest'anno il cozzare del vaporetto contro la boa ridesta la mente dal torpore in cui nel tragitto s'era Insonnolita. I soliti boschetti sempre verdi ripetono il loro saluto cordiale come fossero altrettanti cipressi carducciani, ma i bimbi che giocano ad piedi della vecchia Leda di pietra non sono più quelli : due anni, e la vita fa passi da gigante quando per ogni giorno che finisce è un'attesa che si rinnova. Noi invece stiamo fermi, ancorati al pari di questa logora boa, la qual cosa^ è ormai molto pesante. Ci stupiamo di ritrovare tutto immutato e non pensiamo che siamo noi che non mutiamo; e forse non abbiamo più voglia di mutare. Sono sfilati gli archi gotici di Palazzo Ducale, l'isola di San Giorgio con la freccia del suo campanile, Riva degli Schiavoni e il monumento a Vittorio, le tre baracche di legno del cantiere, la palazzina chiusa di Pietro Canonica, e la cupola della Salute si è fatta piccottna nel tradizionale scenario: «perchè non scendi, perchè non ristai? ». Abbiate pazienza, boschetti sempreverdi dei Giardini. Siamo venuti per scendere e per ristare, lasciateci soltanto ricontemplare ancora una volta questa distesa azzurra di laguna, quel lido lontano irrorato di luce nel mattino d'aprile. Lasciateci un istante illuderci che sia questo imo sbarco a Citerà. Poi tenteremo i cancelli ancora chiusi della Biennale. Fra questa natura vera e quella natura dipinta e scolpita, vorremmo un momento indugiarci con la realtà. Il fiore ed il frutto CI hanno detto che li ritroveremo tutti, gli artisti della giovane Italia operosa, passati al vaglio delle Mostre sindacali regionali e della Quadrienni iaPwtn>itìa?«ife«lt)do òhe nella grande competizione internazionale, in questa ga»t-di-*M-Klu*hd*ctaa tH Nazioni, figuri soltanto il fiore della scelta. Fiore o ffUtti? Stando alle promesse, avrebbero da essere frutti maturi, che qui non dovrebbe essere luogo da esperimenti nè da prime prove. Comunque, due anni di lavoro, due anni di speranze. E Venezia, attraverso la Biennale che giovedì il Re inaugurerà solennemente, si prepara a far festa a questo lavoro e a queste speranze. Già si canta, alla sera, sulle gondole illuminate lungo Canal Grande, per ingannarsi sulla primavera ancora incerta tra una folata di vento e un vagare di luna in mezzo alle nubi; già dalla Piazza e dalla Piazzetta fino al ponte della Paglia il passeggio si infittisce all'imbrunire del solito brulichio che tramanda l'antica grazia del Liston; già i manifesti dei festeggiamenti compaiono negli atrii degli alberghi, e fra tre giorni i grandi ordfiammi saliranno a garrire sui pennoni davanti a San Marco; come sempre, ogni due anni dal 1895 in poi, tolta la(pausa della guerra. L'immutabilità di Venezia di fronte alla vita non stupisce; è una cosa naturale, come è naturale che quei due guerrieri di porfido continuino ad abbracciarsi dopo tanti secoli, lì sull'angolo della basilica. Ecco, vorremmo farci intendere, e specialmente che ci intendessero, senza equivoca, i veneziani. Antonio Maraini, segretario generale, organizzatore e quasi dittatore della Biennale, Antonio Maraini che col suo volto bonàrio e placido, con quel suo sorriso fatto per conciliare ogni disaccordo, ogni contrasto, ogni impossibilità con il possibile (e pensate alla sua cortese lotta con più che trecento pittori e scultori da sistemare nel solo padiglione italiano) non 6 uomo che sappia rifiutare un favore. Vedere? Ah, no, vedere no, assolutamente, fino a domani che a tutti i giornalisti sarà concessa una prima visita; però girare nel recinto si, ma coi paraocchi come i cavalli da tiro, e chiuderli anche, gli occhi, se necessità lo comanda, e accontentarsi di ascoltare ciò che lui dice. « E badi che è proprio un'eccezione ». Allora, passati davanti al bel padiglione della Danimarca, nuovo di zecca e lindo con le sue colonne doriche e già completamente allestito, varcato il canale di Sant'Elena e posto il piede sull'isola omonima, quest'anno aggregata alla primitiva area dell'esposizione, quanto prima dicevamo dell'immutabilità veneziana parrebbe trovare una smentita recisa. / Padiglioni stranieri Non è senza orgoglio che il Maraini addita e commenta il nitido complesso delle candide fabbriche disegnate dall'architetto Brenno Del Giudice, formate da un corpo centrale destinato alla sezione d'arte decorativa e dalle due ali per ospitarvi le rappresentanze dell'arte svizzera e polacca. Su questo terreno anche la Grecia e il Giappone alzeranno tra breve i loro padiglioni, e più tardi Svezia e Norvegia partecipe ranno con una sala alla gara artistica di tutte le Nazioni più civili. E' un'o-pera vasta e saggia di approcci, di in-tese, di organizzazione, che tende a fare di Venezia il centro più vivo del- l'arte figurativa internazionale. Il Ma-raini ha progetti anche più grandiosi per l'avvenire, quando fra Venezia eGinevra, fra il comitato della Biennalee la Società delle Nazioni sarannostretti quegli accordi che egli vagheg- già. Per intanto va tenuto presente che sulle aree cedute dal Comune, sono i Paesi stranieri che edificano a proprie spese, con un contributo di 250 mila lire ciascuno; e che in questo biennio i lavori portati alle mae3tran- ze veneziane dall'estero, senza un solosoldo di spesa per il Governo nostro superano l'importo di un milione e mezzo. Certo, questi stranieri bisogna invogliarli, usare con loro quelle gentili lusinghe e quei riguardi che si ha ™n'Me.sd«f' Watt* Whistler, Len- bach, Puvis de Chavannes: ma possiamo noi dire quale sarà il giudizio che si farà dei presenti di oggi fra un trentennio? Gli esclusi Non possiamo dir nulla, purtroppo; e se in questo nostro mestiere affannato e tante volte scoraggiante, c'è una cosa ridicola, è appunto il pretendere di atteggiarsi a giudici e a profeti. Antonio Maraini ci perdoni; ma approfittando di un momento che egli stava discutendo con Domenico Varagnolo del catalogo, ci siamo tolti i paraocchi, e furtivamente ci siamo infilati a sua insaputa nel padiglione italiano. Non tradiremo, no, la sua fiducia; non diremo fino a giovedì una sola parola di questi trecento e più artisti viventi, che s'ingegnano ogni giorno di far meglio, e se talora s'ingannano e inseguendo miraggi fallaci soccombono, sono pur sempre degni del rispetto che si deve portare a chi lavora. Lasciamoli alla loro attesa, a da avere sempre con gli ospiti per render loro gradito il soggior-no; e anche in ciò il Comitato dellaBiennale si mostra di una signorilitàperfetta. Quando i commissari esterigiunsero a predisporre l'arrivo delle opere, trovarono tutto in ordine, tutto pronto come se tornassero in una lorocasa lasciata il giorno prima: le saleripulite, i padiglioni ristuccati e river- niciati, i piazzaletti e le siepi di mor- tella nettati con cura scrupolosa. Nonebbero che da appendere i quadri e dacollocar le statue. Rimasero meravi- gliati e contenti, e più di tutti il prò-fessor Carlo Moli, commissario del-l'Austria che per la prima volta dopo il 1911 torna ad esporre occupando le sale della Germania, quest'anno assente al pari della Cecoslovacchia per ragioni di economia. Se si pensa alle dodici salette in piazza San Marco della prima Biennale, si misura meglio il cammino percorso in 37 anni. Vero è che in quelle dodici salette facevano allora la loro comparsa Segantini, Mose Bianchi, Bartolomeo Bezzi, Cabianca, Mancini, Guglielmo Ciardi, Dalbono, Delleanl, Fattore, Gola, Fragiacomo, Michetti, Previati, PelJizza *da Volpedo, Tallone, Alma Tadema, Besnard, Burne Jones, Carolus Duran, questa loro ansia hetà cui si contrap- pone 1 amarezza di tanti altri artisti. pur essi vivi e operanti, pur essi adatti a soddisfare col loro diverso stile gusti diversi e che quest'anno - primo espe- rimento di una Biennale soltanto a in- viti — sono rimasti esclusi dal recinto l6'*' Non si rammarichinotroppo costoro; indulgano con la faIla- eia cui può essere soggetto il giudizio degli uomini anche in buona fede. Pen-sino che alla quinta Biennale, nel cosi detto « salone dei rifiutati » reclamato a gran voce contro una Commissione troppo severa e unilaterale, figurarono nomi, da Italico Brass a Beppe Ciardi, che avrebbero poi dominato nelle Biennali successive. Pensino sopra tutto alla mutevolezza dei gusti artistici, la mutevolezza che (forse a torto nostro) ci lascia oggi increduli e un poco dubbiosi perfino davanti alla «Figlia di Jorio » ; rammentino che non occorre essere Stendhal per riconoscere che l'uomo in tutto e per tutto a la page oggi, deve fatalmente rassegnarsi ad apparire ridicolo fra ventanni. « La Figlia di Jorio », l'immensa tela è qui (questo possiamo dirlo, newero Maraini?), tornata a Venezia dalla Germania dopo 37 anni, a prendere posto fra le quaranta opere di Michetti di cui si compone la « retrospettiva » curata da Ojetti e da Sillani (e di quest'ultimo sta per uscire un grande volume sul maestro abruzzese, volume che farà indubbiamente la gioia di Domenico Varagnolo per l'Archivio di arte contemporanea che egli ha magistralmente organizzato in Palazzo Ducale, come utilissimo complemento cui turale di queste Biennali che non de- vono e non possono chiudersi dopo la loro vita effimera senza lasciare una solida traccia di documentazione e di dati intorno agli artisti espositori). E' tornata insieme con le portentose tele di Boldini da Parigi, coi bronzi e le terrecotte prodigiose di Gemito dai musei e dalle gallerie private d'Italia, con quel Favretto che si continua a chiamare il Giacinto Gallina della pit tura, mentre in realtà, sotto l'apparenza del frizzo e dell'aneddoto, fu l'epi gono ultimo dei Tiepolo, dei Guardi, dei Longhi e dei Bellotto, ciop un se vero integratore della vita e del colore; è tornata con Luigi Nono, con Fragiacomo, con lo Zandomeneghi, con quel Guglielmo Ciardi che qui appare talmente macchiaiolo che volentieri loScambieresti con un Eorrani; è tornata — colossale, rude, primitiva eie già del popolo abruzzese — a inse rirsi fra questi maghi della luce che furono gli ultimi veri veneti, prima che la pittura di tutta quanta Europa si mettesse a parlare a bassa voce, e ri nunziasse al canto, al cielo, al mare, alle più belle cose create da Dio. Ritorni prodigiosi Boldini, Michetti, Gemito, Favretto: quattro giganti posti a contatto per la nostra gioia e la nostra inquietudine. Là, nelle altre quaranta sale, brulica, turgida fino al dolore, l'opera del presente, l'opera del domani. Ma qui sono valori granitici, immutabili, che nulla potrà scalfire per volgere di niode. Che cosa è dunque il gusto, cosa o dunque il giudizio? Che cos'è ciò che è eterno e ciò che passa — a paragone della storia — come un frullare d'ali nel cielo? Come possiamo noi ugualmente comprendere e amare forme tanto diverse? Riamo sinceri? Siamo realmente tanto cambiati da] all°ra? Facile è appigliarsi al motto, all'a neddoto, al sonetto d'occasione, alla cantata della strada o alla romanza da salotto, a quel tanto di desolato o di facile, a quel sorriso'tra le lagrime o a quel pianto fra i sorrisi che ogni tempo ha nella nostra, vita, quasi per giustificarci di fronte a! passato: a un passato che malgrado il suo splendore non ci soddisferebbe più se lo vedessimo risuscitare tal quale come presente. Sono più gravi le risposte che si dovrebbero dare alle domande che si affollano al cuore in simili urti di contrasti. Arte? Ecco; qui i ritratti femminili di Boldini, spietate analisi Sì anime sotto il lustro delle stoffe, gli affascinanti sorrisi, la grazia inarrivabile degli atteggiamenti fin de siede; problejni psicologi non meno gravi di quelli che Maupassant scioglieva nella limpidezza aerea del suo stile. Poco più in là la sala del polacco Kisling, fi gure liscie fino all'esasperazione, attonite, ritagliate come nella latta, soffocate di colore violento, sconcertanti come un alfabeto aspro, da cui si voglia a tutti i costi ritrarre un suono di umanità. Faccio pochi passi fuori, in altro padiglione, e viene innanzi l'austriaco Kokoschka: pittura torbida, turbolenta, idropica, visi che paiono svegliati da un sonno pieno di sogni grevi, pennellate ora lievi come carezze, ora brutali come un gesto facchinesco. Ancora altri passi, nelle sale inglesi dove Augustua John non vede che splendidi tipi umani, aristocrazia di razza, splendore e nobiltà di sentimenti. E a cento metri di distanza, nel padiglione degli Stati Uniti, i saggi infantili dei pellirosse, guerrieri, strani riti, cavalcate e fantasie guerresche, tutto straordinariamente nitido e lim- Pidamente colorito, sottolineato da una fanfara a bizzarlì norni esotici: Awa Tsl 0otig Po,e]0nema, Ogwa Pi: e saranno fors0 costoro, nei loro paesi, de, m artisti dei ^ interpreti a lt Doy,è dumme la verita ge non , attimo (li emozione che Varte darci sotto qualaiasi forma sl manifesti? E che cosa vale allora il mio b ]lQ dl fronte a] vostro «Drutto»? L'arte e la Vita Forse agli interrogativi risponde Venezia, con questa sua immutabilità esteriore che dicevamo. Immutabilità di scenario fantastico, che si ritrova intatto, a ogni ritorno, in ogni minuzia. In nessun'altra città del mondo suona più vero l'aforisma di Oscar Wilde che è l'arte a creare la vita; e potremmo aggiungere che su questa perennità di arte e di vita si misura il fugace volto degli aspetti cui noi cerchiamo di dare, di volta in volta, valore. Anche ieri, a rivederla appena scesi dal treno, la gondola stupiva, forse infastidiva un poco col suo barocco anacronismo. Sulle lentezze inevitabili urgevano imperiose le impazienze. H gondoliere lasciava Canal Grande, tagliava per Rio Marin, e di sopra il ponte San Polo un signore guardava lo sfilare delle barche sull'acqua verde; ed era più immobile dei pilastrini di pietra del ponte. Da una facciata che avrebbe potuto essere del Longhena si sporgevano due ragazze ridenti, e su in alto, al disopra del loro riso, si illanguidiva il cielo di Giorgione. Che un solo particolare fosse venuto a fallire, e tutto sarebbe svanito nella rovina di un mondo defunto. Poi, giunti che fummo oltre la Salute, una luna pialla, immensa, ridi , ' u dal mare dietro il Lido. Lo scenario era completo. Oggi, qui davanti a quest'arte di ieri, davanti ai ritratti di Boldini. ai bronzi di Gemito, alle tempere di Michetti, a cosi breve distanza da Carni o da Sironi, ci domandiamo che cos'è che noi vogliamo. E ci torna in mente un incontro lontano, uno eli quegli incontri che ciascuno può ritrovare nel suo passato. Ferma 3ul viale, ella evitava lo sguardo che interrogava. Poi disse : « Sono passate troppe cose, da allora ». Avremmo potuto rispondere che a noi una sola cosa restava invece nel cuore : quello che ella per nói era stata, e che adesso non poteva più essere. Ma capimmo che era inutile, e preferimmo tacere. Cosi è di quest'arte, che abbiamo tanto amato, e che è finita. MARZIANO BERNARDI.