"E adesso lavora e non rattristarti,,

"E adesso lavora e non rattristarti,, Orme di santi e segni eli miracoli "E adesso lavora e non rattristarti,, (DAL NOSTRO INVIATO) — a ¬ rt. SUBÌACO. marzo.. Il moìiaco elio nella sala dell'archivio aveva tratto dalla vetrina il più antico dei codici e dottamente ne andava commentando le miniature bizantine del nono secolo, s'interruppe per guardare l'orologio. «Mi dispiace, disse; ora l'affiderò ad altra guida. Alle quattro m'attende l'arciprete di Jenne ». Parve, di colpo, per quella parola, che qualcosa come una gravezza, un ingombro anonimo, confuso, cadesse nella stanza fredda e bianca; parve anche, Ice parola, una stonatura nella voce tranquilla del benedettino. Pagine lontane riaffiorarono alla memoria — Jenne, il santo di Jenne, anzi, « Il Santo»; e uria realtà letteraria artefatta, folta di suggestioni e contamiìiasioni, ricca di troppa beltà, povera di semplicità, forzata nei limiti dell'umano, insufficiente nei limiti del divino, s'urtò con quest'altra realtà pacata, secolare e immutabile del convento. L'urto non diede suono; sembrò cadere nel vuoto, in un nulla. Piero Maironi ribattezzato Benedetto nella forra aspra dell'Alitene, la signora DessaUe col suo disperato amore tenace eppure un poco frivolo, lo stesso Giovanni Selva mistico, puro, appassionato, qui sul luogo del dramma divennero figure artificiose, inadatte a incorniciarsi fra le colonnine tortili, sotto gli archetti dai pulvini ancora ingenui del chiostro cosmatesco. Di fronte al romanzo famoso stava una verità smisurata e immobile; di fronte a una vita immaginata e caduca, con tutte le debolezze e le precarietà dei gusti artistici, stava una vita vissuta, equilibrata ormai fra la leggenda, che è poesia di popolo, e la storia, che è poesia di sapienti. E l'entità gigantesca e fattiva uscita dall'azione di un eroe tanto severo che l'episodio stesso della sua esistenza sparisce nella complessità dell'opera creata, stupiva pel contrasto con la grìgia modestia -del monastero celebre. Tutto nell'opera, tutto per la posterità. Fra i ruderi di Nerone i Infatti, agli albori dell'epopea benedettina l'individualità del suo suscitatore non risalta con quegli stacchi sull'ambiente circostante, con quei chiaroscuri pittorici e quei particolari quasi fantastici che son proprii — poniamo — degli inizi dell'epopea francescana. Diversità di apparenze, che rispondono però in modo perfetto alla profonda diversità sostanziale dei due massimi fondatori d'Ordini, l'uno eminentemente poetico, l'altro essenzialmente pratico, l'uno rivoluzionario, l'altro disciplinatore; eppure entrambi asseitori magnifici — appunto nella loro antitesi — di come estro e pratica trovino nel genio possibilità parimenti grandiose. Dopo il primo esperimento di vita cenobitica ad Effide, dopo il triennio trascorso nella grotta dell'Amene e la subitanea rivelazione dell'inanità della ascesi eremitica, dopo il breve periodo di governo abbaziale a Vicovaro drammaticamente troncato, ecco dunque cominciare per san Benedetto, a Subiaco, la fatica oscura del costruttore. I giorni si susseguono ai giorni, gli anni agli anni. Quanti? Se si accetta la data tradizionale del 529 per la fondazione di Montecassino, ma se si pensa d'altra parte che i monaci di Vicovaro non potevano scegliersi un abate eccessivamente giovane, il soggiorno sublacense va contenuto nello spazio approssimativo d'un ventennio. E' in questo ventennio che gradatamente, metodicamente, con una progressione logica di fatti, di ejiisodi, persino di miracoli, matura la concezione, nuovissima in Italia, del convento inteso come cardine di vita civile. Dai dodici piccoli monasteri sparsi per la valle sull'una e l'altra sponda déll'Aniene, deriva la vera e propria abbazia per eriger la quale verrà scelto il monte che sovrasta Cassino, sul margine d'una grande strada di comunicazione, la Via Latina. Ed anche quest'ultima trasformazione sarà suggerita dall'esperienza quotidiana, da una necessità di maggior sorveglianza ed insieme di più compiuta liturgia, da un bisogno di più forte accentramento del comando nella persona augusta dell'abate. Facile è quindi immaginarsi Benedetto, nel pieno fiore della sua giovinezza equilibrata, pensosa, già ricca d'esperienze, reduce al suo speco del Monte Talèo dopo esser miracolosamente scampato al tentativo omicida dei monaci di Vicovaro. La fama di taumaturgo, di veggente (forse per qualcicno di mago) l'ha preceduto fra i pastori della vallata, ma anche — ciò c7ie più conta — s'è diffusa fra la gente della regione tiburtina. Di quella tazza colma di vino avvelenato e prodigiosamente spezzatasi sotto lo sguardo scrutatore dell'abate, si dev'esser qià favoleggiato a Tivoli, distante da Vicovaro non più di quindici chilometri, e non è perciò possibile che anche a Roma, alla Curia, non si sia risaputo il fatto. Un santo è dunque comparso fra le solitudini selvagge di codeste montagne, e da Velletri, da Frascati, da Valmontone, da Arsoli, da Carsoli, si accorre a veder quest'uomo, se ne rammenta il lungo eremitaggio nella grotta, si riiutrra per la centesima volta com'egli ad Effide abbia, con la preghiera, risanata la frattura d'un privello, eh'è tuttora appeso in quella chiesa. Già c'è chi si sente disposto a seguirlo dov'eglì vorrà, a vivere con lui una vita d'astinenza, di solitudine, di sacrificio, tutta dedicata alla lode del Signore. Fra lo semna laurenaiano e lo scandaloso processo a papa Simmaco, poche volte cosi vivo il discredito era stato gettato intorno alla sedia di S. Pietro; e che un nuovo santo sorgesse noti era affallo di troppo, nè pei Goti ariani, nè pei cattolici romani cavillosi e litigiosi. Imperturbabile rimase Benedetto anche di fronte la nascente fama. A Vicovaro egli aveva a lungo meditato sulla funzione religiosa e sociale del convento, sulla necessità di regolare innanzi tutto i rapporti (se è lecita la espressione) dei montici con Dio, dei monaci fra loro, dei monaci col secolo, dei monaci infine con l'abate. Se la Provvidenza aveva, voluto inviarlo fra gente da forca piuttosto che da chiesa, egli lodava il Signore d'avergli concesso così proficua esperienza; ed ora invece aveva qui intorno al suo speco più che cento proseliti da educare secondo una norma nuova. Il comando al giovane Goto Li divise dunque a gruppetti di dodici (chiara è l'allusione simbolica al numero degli Apostoli), ed ordinò che cìasoun gruppo badasse a costruirsi un monastero. Il materiale non mancava intorno a Subiaco, fra la stretta di Rocca., Canterano e quella delle Cave. Non del tutto diroccata era la villa sontuosa che Nerone quattro secoli innanzi s'era fatto edificare in questo luogo inospitale per uno dei suoi soliti capricci da dilettante; e le grandi dighe ricordate da. Tatnto sbarravano ancora il corso dell'Amene formando placide distese lacuali. Archi, colonne, capitelli, pilastri specchiavano la loro inerte mina pagana nell'acque chete, sulle cui rive adesso i monaci scendevano a sceglier marmi, metalli, alabastri per fabbricar chiostri, celle, cappelle. Come un generale che ispezioni i suoi reparti, Benedetto passava dall'uno all'altro monastero, sorvegliava, incitava, ammoniva. Sussistono anche oggi alcuni nomi che son l'ultima testimonianza dei conventi di S. Angelo dei Balzi, in località Morracasca, di S. Maria de Morrabotte, sotto il Monte Talèo, di S. Girolamo, di S. Giovanni dell'Acqua (qui il santo fece zampillare la fonte famosa), di S. Clemente, sulla riva destra del pritno dei tre laghi neroniani. di S. Biagio, al di sopra del Sacro Xpeco, di S. Michele Arcangelo, di S. Vittorino, di S. Andrea Apostolo, di Vita Aelerna, di S. Donato, forse così chiamato perchè eretto sul terreno donato dal patrizio Tertullo. Quanto all'attuale abbazia di S: Scolastica, il glorioso protocenobio benedettino le infinite volte distrutto e riedificato, si intitolava allora ai santi Cosma e Damiano, ed è l'unico superstite dei dodici conventi fondati nella gola dell'Amene da Benedetto. Questi — a quel che sembra — continuava a dimorare nella sua fida grotta, alla quale altre rozze celle s'erano aggiunte, scavate nel fianco del monte, embrione del futuro convento del Sacro Speco edificato sulla fine del Mille. Di qui esplicava le sue funzioni abbaziali,si recava talvolta a dimorare qualche giorno in questo o quel monastero, regolava, insomma, la vita di quella specie di grande alveare d'operosa ascesi, la cui rinomanza cominciava a spandersi ben oltre i confini della valle déll'Aniene. E infatti anche da Roma, giovani che si sentivano chiamati all'esistenza monastica acconevano, consenzienti le loro, famiglie; come Mauro, figlio di Entizio, e Placido, figlio rii Tertullo, protagonisti d'uno dei fatti miracolosi di Subiaco. Appunto al convento di S. Clemente, sulla sponda dello stagno, era disceso il santo, un giorno che i monaci s'affaccendavano a diboscare il terreno intorno alla piccola fabbrica. C'era fra essi un Goto adolescente, quasi un fanciullo, che Benedetto aveva accolto con gioia tra i suoi proseliti, benché ariano e di limitata intelligenza. Accanto a Mauro, l'abate osservava con compiacenza il giovinetto menar gran colpi di falce, gustare nel lavoro manuale compiuto per il bene della comunità un'evidente gioia inconsueta. A un tratto echeggiò un grido. Un attimo dopo il Goto si presentava a Benedetto mostrandogli il manico della falce e dando segni di disperazione. Era successo che il ferro dell'arnese, male assicurato al manico, era caduto nell'acqua, a una profondità troppo grande per ripescarlo. Non si trattava poi d'una sciagura eccezionale; ma nella niente ottusa dell' ariano il valore dello strumento ingigantiva, ed ora temeva chi sa qual punizione. Benedetto lo quietò con un gesto. Quindi, preso in mano il legno, s'avvicinò alla sponda. Tutta la comunità, raccolta intorno all'abate, ne seguiva curiosa i movimenti. Vide essa allora l'onda incresparsi come per un pesce che salga a galla, e la lama della falce affiorare dall'acqua e da sola docilmente innestarsi sul suo manico. « Eccoti la tua falce, — disse il santo al Goto stupefatto; — e adesso lavora, e non rattristarti ». Cosi ha narrato san Gregorio Magno, primo biografo di Benedetto. Miracolo semplice, miracolo ingenuo, adatto alla mentalità del barbaro la cui sbadataggine n'era stata occasione. E le parole, anche, che l'accompagnaro nMdqpgncciiubsdvlnnaFdsddnnpttntmvmv no, furono forse suggerite dal caso. Ma, come già notava il Montalembert e di recente confermava il Salvatorelli, quelle parole suonavano come un compendio dei precetti e degli esempi largiti dall'Ordine monastico a tante generazioni di genti conquistatrici, anticipavano la Regola, nel suo spirito, ancorché non ne fossero costituiti gli stituti nè redatti i paragrafi, erano nsomma la traduzione appropriata ad un'anima semplice di quell'Ora, et labora che non è soltanto una norma ascetica, ma è anche — e forse prima di tutto — una stupenda disciplina civile. Da questo momento il cardine dela società benedettina veniva piantato nella terra di Subiaco, veniva gettato nel solco un seme che a Montecassino avrebbe dato i suoi frutti rigogliosi. Forse per la prima volta nella storia del mondo, la concezione del lavoro biblicamente inteso come puro cruccio, sudore, sofferenza, era prospettato adesso come fonte di gioia, di serenità, di consolazione; insomma, come la più nobile di tutte le manifestazioni umane, l'unica che non tradisca, e che sempre rinasca da sè medesima. Poste le basi del grande edificio, anticipato uno dei caposaldi della Regola, trovata la perfetta concordia e la piena unione spirituale, perchè Benedetto non rimase a Subiaco'? Perchè non radicò tra i ruderi neroniani le fondamenta della colossale abbazia che doveva poi splendere come un faro in cima al monte di Cassino-! Se ancora una volta si dovesse credere soltanto alla letteratura ascetica, l'esodo andrebbe ascritto alla lotta con il perfido Fiorenzo, quel prete che aveva una sua chiesa dall'altra parte dei Simbruina stagna, e che mal tollerava la vicinanza del santo, la fama dei suoi miracoli, la conseguente diminuzione delle sue proprie prebende. La lotta con prete Fiorenzo La lotta infatti ha del pittoresco, ed anche del salace. Cominciò Fiorenzo ad inviare all'abate una « eulogia », cioè uno di quei pani benedetti che i religiosi usavano scambiarsi in segno di considerazione e d'amicizia. Che razza d'amicizia fosse quella del prete sublacense, Benedetto lo sapeva a memoria. Quando si vide giungere il pane, non gli fu necessario nè d'odorarlo nò di gustarlo per accorgersi ch'era avvelenato. Chiamò il suo corvo fedele, quello che già gli aveva fatto compagnia per tre anni nella grotta di Monte Talèo, e gli ordinò di portare Venlogìa ben lontana, in un burrone, che non avesse a recar danno a nessuno. Fiorenzo, dal canto suo, dovette masticare amaro vedendosi con tanta facilità scoperto. Non si diede per vinto. Aveva sotto mano alcune sciagurate, povere meretrici di villaggio, e per poco denaro le mandò in costume alquanto succinto ad offrirsi ai monaci più giovani del convento di S. Clemente. Pronto intervenne l'abate, prima che qualsiasi tentazione sorgesse. Poi, ancora una volta, come aveva fatto ad Affìde, come aveva fatto nello speco, come aveva fatto a Vicovaro, cedette all'avvertimento della Provvidenza. Certo si trattava di un segno del Signore inviatogli per deciderlo più prontamente a ciò che da tempo maturava nell'animo. Radunò adunque tutti quanti i proseliti, ne scelse alcuni dei più fidi, s'incamminò verso Alatri per scendere sulla Via Latina. Sapeva la sua mèta. Così bene la sapeva e l'aveva meditata, che quando — compiute solo poche miglia di cammino — lo raggiunse il discepolo Mauro a dirgli che Fiorenzo proprio allora era morto schiacciato dal crollo d'un soffitto mentre esultava per la partenza del rivale (certo anche in questo Mauro vedeva la presenza del miracolo), non si scompose, non ritornò sulla sua decisione, puntò diritto ad Alatri coti i suoi compagni. L'ostilità del cattivo prete era stata quel tanto di pittoresco, dì estrosamente fiabesco che avvolge come d'un velo bellissimo le decisioni dei grandi, ed in special modo dei santi, c foggia la leggenda, la tradizione popolare. La realtà era che Benedetto aveva ormai superato il suo quarto esperiynento, aveva saggiato tutte le possibilità della fondazione monastica, aveva misurato — se non i pericoli — almeno i fastidi della troppa vicinanza di Roma, si sentiva forte abbastanza per l'impresa finale. In fondo alla sua strada vedeva la gloria di Montecassino. MARZIANO BERNARDI. j