La Pasqua di San Benedetto a Subiaco

La Pasqua di San Benedetto a Subiaco Orme ci i santi segni di miracoli La Pasqua di San Benedetto a Subiaco -(DAL NOSTRO INVIATO )- I. SUBIACO, marzo. Si va a Subiaco, e sia i monaci dì S. Scolastica che quelli del Sacro Speco non pongono in dubbio che San Benedetto abbia meditato e scritto ìa Regola in questa gola fosca dell'Aulene, dove, noìi lungi dai due conventi, ancor sorgono i ruderi della villa di Nerone. Si va a « quel monte, a cui Casino 6 nella costa », e nella parte più antica (l'unica, ansi, antica) dell'immensa abbazia — cioè nella torre romana che fu il primo nido cassinese del profugo di Subiaco e siti vetusti muri della quale ì monaci della scuola di Beuron hanno imperversato con il loro decorativismo frigido e monotono — vien mostrata la célia in cui fu pensata e stesa la legge dei monaci d'Occidente, q iella che Dante diceva « rimasa giù. per danno delle carte ». La disputa per la Regola Da qnal parte la verità, nella spinosa e interminabile disputa benedettina? Non tocca a noi portare luci nuove nel vecchio problema che anche San Gregorio Magno, primo e incomplete biografo del patriarca, ha lasciato insoluto; diciamo invece volentieri che la importanza no è minima. Norcia, terra natale di Benedetto, Roma, Effide, Subiaco, Vicovaro, Subiaco di nuovo, e finalmente Montecassino, non sono che le tappe materiali di un cammino spirituale nettamente UneaYe e progressivo. Al fondo di questa strada la cui mèta si svela chiarissima alla mente di Benedetto fin deci momento in cui egli, dopo tre anni di vita solitaria nella grotta dell'Amene, riconosce la inanità di un'ascesi inerte e negativa, xntravvede la superiorità della società cenobitica sull'individualismo della pratica religiosa, e da eremita si fa quindi abate — al fondo di questa strada giganteggia un monumento. Il monumento è la Regola, la norma principe di tutto il monachesimo europeo, la disciplina di vita pratica e morale che col motto Ora et labora sorregge tutta una forma di civiltà: la prima civiltà medioevale in penosa gestazione tra i ruderi del diroccato mondo romano. Soste, episodi, miracoli (a parte gli infermi risanati e gii altri consueti prodigi comuni all'agiografia del tempo, i miracoli di San Benedetto sono ripetute manifestazioni d'una tempra eccezionale di psicologo, di dominatore, di condottiero), appaiono semplici pie. tre miliari sul percorso di colui che meno di cent'anni dopo la sua morte, papa Giovanni IV doveva senz'altro chiamare abate di Roma : * Et ha iti procul a nostris temporibus Benedirti abbatis istius Romae hujus urbis quasi a ben ribadire che la Regola benedettina, adottata e glorificata dai papato, era la legge monastica per eo cellenza. Ad oltre tredici secoli di di stanza la innocente disputa fra Subiaco e Montecassino riconferma il vanti supremo del Santo e del suo Ordine. Giungendo meno che veìUenne nella libera colonia cenobitica di Effide, a soli cinque chilometri in linea d'aria a sud di Subiaco oltre la costiera brulla dei Monti Affilani, probabilmente egli non prevedeva che di lì a poco anche gli ultimi residui delle familiari abitudini patrizie gli sarebbero caduti naturalmente di dosso come la pelle secca di una biscia, e che di una caverna desolata e del fragore pauroso d'un torrente avrebbe fatto dimora e voce unica pel volger di tre Pasque e tre Natali. Fors'anche a Subiaco nemmeno era passato, nè aveva insto le ormai inutili dighe dei neroniani Simbruina stagna, dei laghi artificiali, cioè, creati pel capriccio estivo dei megalomane despota in una forra che più triste e squallida non si potrebbe immaginare. Forse per recarsi ad Effide aveva invece seguito la via Casilina ed era poi risalito da Alatri per la Sublacense. Da Norcia ad Effide Comunque, il giovane che disgustato e intimorito dal costume corrotte di Roma aveva lasciato la città e scelto il tranquillo soggiorno affilano senza prendere àncora vere e proprie ipoteche sul futuro della sua vita religiosa, non era nò un sacerdote, nè un monaco, nè un eremita. Che non fosse disposto a rinunciare ai comodi di una esistenza fino allora agiata lo prova il fatto che la sua vecchia nutrice lo accompagnava, per servirlo, nel piccolo cenobio; che non si sentisse ancora vocazione alcuna di fondator di conventi ce lo dice il suo tranquillo volger le spalle alla Norcia natia, alla valle spoletanu e al Monteluco già celebre. Qual era dunque in quel momento la sua persona morale? Null'altro che quella d'un giovane uscito da piccola nobiltà provinciale (discendevano dagli Anici i suoi parenti? forse, ma nulla ce lo garantisce), austeramente educato secondo la proverbiale marsina severitas, profondamente religio-; so per tradizione di famiglia, nutrito di buoni studi a Roma dove fin dalla pcpcpesripgcvptptcpeetmrnfsctpdus prima adolescenza aveva vissuto decorosamente e castamente. Con tali principii avrebbe potuto benissimo continuare a dimorare nell'Urbe seguendo le leggi di unti religiosità secolare tutt'altro che infrequente. Se non lo fece, fu perche già egli si sentiva schiettamente avverso ad ogni forma di dilettantismo, fosse pure il più nobile; ad ogni mezza misura, fosse pure la più giustificata. Però un esperimento era necessario. Ed un soggiorno ad Effide aveva valore di tappa iniziale. Cade qui acconcia un'osservazione. Non si comprenderà mai compiutaniente la qualità del genio di Benedetto, la eccezionale portata sociale dell'opera sua, la formidabile vitalità di una creazione pensata ed attuata per le più lontane e varie possibilità di sviluppi e perciò rivolta — come idealità — al cielo, ina radicata — come pratica — alla terra, se non vedendole e studiandole connesse ad uno spirito di equilibrio, di prudenza, di preveggenza, quale dall'età d'oro di Roma in poi ::on s'era più riscontrato in Italia, e forse nell'intero mondo mediterraneo. Ed è uno spirito che non si piega agli eventi, e tuttavia li seconda. Cose, circostanze, esperienze, maturano per il figlio di Norcia una dopo l'altra, naturalmente, come frutti che giunti alla loro stagione cadono. Nessun apriorismo, nessun preconcetto, nessuna estemporaneità d'indole artistica o estrosità di sapore poetico. La bella leggenda cristiana che ci mostra san Francesco che a Fonte Colombo detta a frate Leone la Regola dei Minori mentre il Signore gli guida il pensiero e quasi la voce, non è confaciente a san Benedetto, neppure secondo tu letteratura più ascetica. La Regola, benedettina — la famosa Regola ch'è un codice magnifico posto nelle mani d'ogni singole abate perdio lo interpreti e lo appli chi secondo il suo senno e la sua equi tà — fin dui primo esame .appare un risultato laborioso di personali espe rienze, di lunghe meditazioni, di infiniti ritocchi, ritorni, riprese. Là dove per Francesco tutto rifulge di serafico ardore, di dedizione, dì eroismo, d sublime richiesta d'ogni più strenuo sacrificio; là dove per Colombano tutto è santa audacia, impetuosità stupenda, veemenza e persino violenza, tutto per Benedetto è saggezza somma, conoscenza impressionante degli uomini e del tempo, duttilità, aderenza^perfetta ad una realtà che concilia il comando divino con le capacità medie (sempre hi un clima — s'intende — di vocazioni sincere e tulvolta di santità) delle masse più vaste. Persino i miracoli, commento sublime alle intelligenza e all'azione, si adeguane, come vedremo, a codesto ritmo maestoso e ordinato. Perciò nella biografìa del grande patriarca gli episodi non sono mai sforzati: si snodane lenti, con progressione continua, sicura. • Nella grotta, col corvo Breve la dimora ad Effide. Si disse che un crivello per stacciar la farina rotto dalla nutrice e prodigiosamente ricomposto merce le preghiere del neofita, adunasse intorno a lui tanto clamore d'ammirazione da offenderne la modestia e da indurlo a lasciare il cenobio. La tradizione è quasi sempre una grazia aggiunta alla verità; ma questa ' verità è che Benedetto dovette presto convincersi che un tal genere di vita ibrida, non monastero e non secolo, era poco adatto per lui. Preziosa l'esperienza; ma esperimentare non è creare. Appese dunque in chiesa il crivello, licensiò la servente, distribuì ai compagni le sue robe, varcò ì monti, giunse a Sublaqueum, e là dove la forra dell'Amene più si incassa tra i dorsi brulli dei due versanti, scelse una caverna ai piedi di una gran parete rocciosa. Seconda tap. pa: la vita eremitica. Strano può sembrare che l'assertore più strenuo della superiorità religiosa e morale del cenobio sull'eremo, che il propugnatore della società conventuale attiva e fattiva contro la pratica abùlica e dissolvente del virtuosismo ascetico tipo orientale, proprio all'eremitismo abbia sacrificato tre lunghi anni. Ma allo stesso modo che alle circostanze inviategli sul cammino, dalla Provvidenza divina non opponeva stati d'animo preconcetti, così egli — temperamento realistico per eccellenza — sentiva intuitivamente il bisogno di rivivere di fatto tutta quanta la vita religiosa. Mai, fino all'ultimo, la teoria gli bastò: il senso mirabile della pratica gli fluiva nelle vene col sangue romano, ed è ciò che fa di lui una figura sempre attuale, sempre contemporanea ad ogni secolo. Poco più su di quella scabra rupe, tra i greppi della montagna, era un piccolo convento, retto dall'abate Deodato. Come Benedetto s'abboccasse con uno dei monaci, il buon Romano, non si sa. Si sa invece che dal brarfuonio deali mo seseSe ngni il ra, un un di ne. taetel di er di eame nno di di ato meon seze, na utdoonole co. ci nte Regli on epcefafiole pli ui un pe five fi d uo uttuza, mgli enlia mede di sille ne, aeraodi ne sisse na nte eola la cepre ma etge e ui. en in te, be, m, si er di p. tolimo, on la irroto do mposì per il ntimivehe le, sepe, un eoon on nio ricevette la pelle di capra da coprirsene le spalle, e per tre anni il magro cibo, calato dall'alto in un cestello con una corda, fino all'ingresso dello speco. Chi ha visto la gola di Subiaco, chi ha visitato il convento del Sacro Speco dove la grotta della tradizione è incorporata nei muri medioevali, si fa un'idea dì quella spaventosa solitudine triennale. L'Aniene scroscia nel basso; dovunque intorno si volga lo sguardo, non è che montagna arida e selvaggia; il cielo stesso impallidisce sull'abisso. Qui la tempra fisica e morale di Benedetto operò il primo vero prodigio. Nè il grifone, nè il basilisco, nè il liocorno, nò il cinocefalo, nè la chimera, nè la sfinge, nè il catoblepa flaubcrtiano grasso, malinconico, truce, strisciarono fino ai margini della spelonca, empirono il silenzio dcllg loro rauche voài sataniche. Diana o Venere, o altre linde femmine lascive non invitarono con atti procaci il solitario atta disperazione sessuale. Un caro volto dì donna, un pallido ricordo d'antica tenerezza, forse un giorno disegnò su una roccia, nell'incerta luce crepuscolare, la sua forma amata. Lì fuori c'erano i rovi c la neve. Il robusto giovane gittò la pelle di capra, nudo si rotolò sulle spine e sui ghiacciuoli; ne uscì sanguinante e libero: la visione disparve per sempre. Oltre sei secoli più tardi il Povero d'Assisi qui veniva. Guardò il luogo, pregò. Da quei pruni nacque allora un roseto. Dà rose ancora al convento, e i monaci lo coltivano con devozione. Solo, dunque, ma tranquillo. Aveva educato un cprvo, il fido corvo che nella leggenda lo seguirà a Montecassino; e il itero uccello gli teneva compagnia, saltellando pesante di sasso in sasso. Un anno, due anni, tre anni. La nojsione del tempo cominciava a smarrir, si ìlei cervello dell'eremita. Giunse una terza primavera, e un uomo — un prete — s'affacciò allo speco. « E' Pasqua, disse, conviene rompere il digiuno; ecco di che mangiare*. Più che la vista del buon pranzo apparecchiato, più ancora che la prodigiosa venuta del prete — certo colà guìduto da ispirazione divina — colpì Benedetto la data del giorno santo. Era dunque Pasqua, ed egli, senza quell'intervento, nulla avrebbe saputo. La Resurrezione di Cristo sarebbe per lui rimasta lettera morta: l'osanna dell'intero mondo cristiano non avrebbe portato qui neppure l'eco più flebile. Era la condanna palese dell'istituzione eremitica. Solo nella società degli uomini, nel lavoro e nella preghiera in comune, nella missione di carità e di propaganda religiosa, stava la vera salute. In questo punto nasceva, in Benedetto, l'abate. Il veleno dei monaci Accettò dunque l'invito dei monaci di Vicovaro, i quali cercavano per il loro convento un abate. E l'accettò con l'animo di chi già due esperienze aveva fatto, e sentiva in sè la vocazione del governo. Dei costumi di certi monasteri era più che pratico; e le mezze misure non erano per lui. Manco a farlo apposta, all'abbazia di Vicovaro ogni disciplina era rilassata. Non è probabilmente il caso di esagerare, anticipando d'otto secoli alcune trame boccaccesche; ma Benedetto capiva' fin d'allora d'essere propriamente un uomo di Dio: e un uomo di Dio con tutti e due gli occhi aperti. Abate era — eletto a vita — e dell'abate intendeva esplicare fino in fondo l'ufficio. Tirò le briglie, fece pesare, com'era dover suo, il morso. Quei monaci, prima, cascarono dalle nuvole. Da qual spelonca pioveva questo sant'uomo che non comprendeva le sagge virtù dei compromessi? Poi s'impennarono come cavalli riottosi; infine ricorsero alla più spiccia: sbarazzarsi dell'importuno, con l'unico mezzo possibile. Era abitudine che i cibi dovessero essere assaggiati dall'abate, prinia della refezione in comune. Un po' di veleno nel vino, ed ecco il monaco di turno presentare il calice al santo. Che cosa aui'ertl quel giorno Benedetto che una trama si ordiva contro di lui? Qual presagio fece tremare la mano al monaco, nell'atto dell'empia offerta? Il fatto è che sotto lo sguardo severo e scrutatore dell'abate, la tazza cadde sulla tavola spezzandosi, e il vino avvelenato si sparse. Non occorrevano maggiori spie, r/azioni a Benedetto. Pacatamente si congedò dai monaci atterriti, riprese la pelle di capra, e se ne andò. Per la terza volta la vita l'aveva ammaestrato. Come sempre egli accettava il fatto compiuto, ben sapendo che tale era il volere divino; ma dalla pratica spremeva tutta l'esperienza possibile, per metterla a servigio del Signore; e ricco di questa esperienza poteva ora tornarsene a Subiaco, non più nello speco solitario, ma a raccogliere intorno a sè proseiifi degni della sua missione. Il mattino dell'abate di Roma era stato rigido e fosco. Ma già la gloria del sole s'apprestava a squarciare la nuvolaglia. MARZIANO BERNARDI.

Persone citate: Abate, Colombano, Da Norcia, Deodato, Fonte Colombo, Nerone, Regli