Villafranca di Forzano al Chiarella

Villafranca di Forzano al Chiarella Villafranca di Forzano al Chiarella te grandi figure che questo dramma evoca sono famigliari al nostro cuore come al nostro spirito; presenti alla memoria, che si nutre e incrementa nella più pura tradizione nazionale, e vivaci nel sentimento: la storia è qui, in questo splendido e drammatico periodo del Risorgimento, veramente in atto, tutta fervida e incalzante e promettente, non conchiusa nei suol termini ma aperta, premessa ricca e in tensa, a quegli sviluppi che hanno determinato, con alterna vicenda, la con sistenza e la potenza dell'Italia mo derna. Ancora oggi a noi 6 dato percepire, non quale dato di coltura, ma come cosa fremente di passione, come rivolgimento gonfio d'avvenire, questa stupenda origine della più profonda, dell'irresistibile realtà italiana, materiale e spirituale; a quegli uomini, a quelle lotte, a quei pensieri noi ci rifacciamo con devoto senso figliale: una è l'idea — amore di patria, civiltà, potenza — che da allora ha guidato i migliori a servire la nazione nell'ordine, nella disciplina, e nella virile capacità e volontà di combattere e di vincere. Drammatizzando in una vasta opera, per il teatro, quegli avvenimenti che ben si raggruppano sotto il nome di Villafranca e che vanno dal 10 gennaio àll'll luglio del '59, Giovacchino Forzano ha toccato dunque il tesoro non solo di memorie, ma di forze vive e attive, che ogni italiano re ca in sè, ha descritto e rappresentato im mondo nel quale si specchia e si riconosce con gratitudine l'anima ita liana. Brano di storia davvero insigne e commovente, non solo per gli eventi ma per la passione, la fede, l'entusiasmo, esso ha trovato in questa trattazione scenica un vigore, un impeto, un'evidenza di emozione e di persuasione, che scuote ogni fibra, e ci fa partecipare all'azione e alle sue ripercussioni morali, e ai suol sviluppi palesi e segreti, con trepidante cuore, con un senso di commossa deferenza: ciò che di augusto, di alto, di vibrante emana da fatti così eccelsi, crea un'incomparabile, affascinante atmosfera. •*** Nel primo quadro l'autore rappresenta in iscorcio e con nervosa potenza l'ansietà, l'inquietudine della notte dal 0 al 10 gennaio '59, a Torino. Si attende il Discorso della Corona che deve inaugurare la nuova legislatura; è giunta gente da lontano: dalla Lombardia s'è passata la frontiera anche senza passaporto; i caffè, che non chiudono i battenti, sono pieni di folla: il desiderio di sapere ciò che il Re dirà all'indomani tiene sospesi tutti gli animi. V'è nell'aria quell'indefinibile sensibilità, pronta a vibrare ad ogni accenno, che si forma quasi misteriosamente alla vigilia dei grandi avvenimenti; alla vigilia di ciò che è decisivo. Al centro di tutta questa irrequietezza, sono due uomini che conoscono appieno quel che il domani dovrebbe recare di nuovo per la storia del Piemonte e d'Italia, e che, per ciò, tanto più trepidano e soffrono: Re Vittorio e il conte di Cavour. La scena rappresenta per l'appunto la stanza da lavoro in casa del Ministro; sono le quattro del mattino, Cavour non ha chiuso occhio, il suo nervosismo è acuto e doloroso. Dovrebbe giungere l'ap provazione di Napoleone IH al testo del discorso, che ha da risultare sagace e fiera provocazione all'Austria. Si tratta, in sostanza, di compiere il primo balzo verso l'avvenire, o, perdendo l'occasione pazientemente preparata, di rimanere ancora nell'ombra e nella rassegnazione, chi sa per quanto tempo. Come tutti sanno in quel discorso Vittorio Emanuele pronunciò poi la frase famosa: «Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi ». Intanto da Parigi non si fanno vivi; i minuti passano e le ore. Anche il Re è impaziente, e manda un suo ufficiale d'ordinanza a chiedere notizie a Cavour. La partita è grossa davvero, e la nobile, fremente passione di quegli uomini forti ci appare subito sovranamente bella e comunicativa. Ed ecco, il telegramma finalmente arriva, con la buona novella : « Tout est tres bien; j'approuve sana réserve ». Cavour ha uno scatto di letizia, la sua energia rattenuta, il suo bisogno d'azione, il patimento di quelle ore di incertezza, si sfogano d'un tratto in una caratteristica vivacità di parole e d'arguzie; egli riceve l'Ambasciatore del Re di Napoli, e la sua conversazione assume senz'altro un tono di velata canzonatura, tutta brio e malizia. Con diplomatica finezza egli giuoca il suo interlocutore; ma si, egli afferma, il discorso che Sua Maestà pronuncierà stamani è stato concordato con l'Imperatore del Francesi, e l'Ambasciatore accoglie la confidenza con sarcasmi e ironie. Già proprio Cavour andrebbe spifferando un fatto di tanta importanza, se fosse vero! E l'effetto che Cavour si riprometteva è ottenuto. Il cav. Canofarl, Ambasciatore del Re di Napoli, è ora convinto che in tutta la faccenda Napoleone III non c'entra per nulla. Ma un'altra cosa preoccupa il Ministro. Egli sta combinando 11 matrimonio della Principessa Clotilde con il Principe Gerolamo Napoleone, e teme che certi ambienti clericali, retrivi e avversi al grande moto per l'indipendenza, possano influire, per mezzo del confessore, canonico Gazelli, sull'animo della giovanissima Principessa, e ostacolare le nozze mettendo in rilievo l'ateismo, la incredulità, il volterrianesimo del Principe francese. Cavour ha fatto quindi chiamare il canonico, ed ora cerca di fargli comprendere l'importanza degli avvenimenti in corso, e la necessità che siano in ogni modo favoriti i progetti e i piani diplomatici e politici. Il dialogo tra il Ministro e il sacerdote è intenso per le sollecitazioni contenute e velate, per il garbo e la dignità delle risposte, e per una commozione che non si esprime, ed è perciò tanto più suggestiva: « Voi andate a dir Messa, canonico Gazelli. Volete dire quella Messa a seconda delle nostre intenzioni ? *. E, dopo una breve pausa, 11 sacerdote risponde: « Si, signor Conte, sarà fatto ». *■** Il secondo quadro ha quasi sapore di breve intermezzo, che ben potrebbe dirsi comico e ironico. Il marchese Birago di Vische e Don Margotti, direttore l'imo e compilatore l'altro de l'Armonia, giornale austriacante e incredibilmente chiuso ad ogni senso di vita e di realtà, parlano della malafede dei tempi, snoc-1 dolano le più inverosimili e calunniose, assurdità sugli uomini che stanno fon-1 dando la nuova e giovane Nazione italiana si compiacciono di informazioni stravaganti e che sarebbero favorevoli ai loro impossibili sogni (11 marchese, tra l'altro, pronuncia la celebre definizione di Cavour, apparsa realmente nelle colonne de VArmonia: «non vai gufila in finanza, e meno phe nulla in dbunstnuMe tilitdisvseleparetrprlatadisoauchCnpntesidsczibminue ptocoPflvPdeCUcatre paeqvetacrpiladimegdrripodataMprunposogrveregustcucaplchledisidsodivod'seceinsesuPsucoprscme temmnedail sichdisagnstsoesPe gnridoinlesapecosudoprTgnqutedcimpetitantodvulesuleddsamtofrmvNlae lemdutoazstoVsps 1 , 1 diplomazia») e mentre così si inebriano delle proprie vane parole e di un tristo livore, un vocìo giunge dalla strada. E' un gruppo di dimostranti venuto a leggere sotto le finestre di don Margotti il discorso del Re. Più bella e sonora e trionfale smentita alle futili e povere affermazioni dei due politicanti non si potrebbe dare. L'episodio, con il suo colore caricaturale, si svolge e si conclude rapidamente, ed è seguito da un quadro di ben altro stile: il tono del terzo quadro è infatti particolarmente severo e commovente, reso anche più nobile dall'abile contrasto con le scene immediatamente precedenti. Siamo a Corte; il Re ritorna a Palazzo dopo la storica seduta parlamentare; la città è delirante d'entusiasmo, di fuoco, d'amore: momento davvero solenne. Ma ecco, sulla via di tutte le audacie e di tutti i sacrifici, al Re è chiesto un nuovo, profondo snerificio; Cavour ricorda a Vittorio Emanuele la necessità del matrimonio della Principessa Clotilde con Gerolamo Napoleone. E Vittorio Emanuele così impaziente di agire, e fremente, e coraggioso, si fa subitamente triste; il suo cuore di padre è gravato da un'amara angoscia. No, egli non farà alcuna imposizione a sua figlia; la Principessa è libera, liberissima di decidere. La si chiami; si sentirà da lei quali sono le suo intenzioni. E la Principessa pai-la con una saggezza, uno spirito di devozione e di obbedienza, una carità d'amore per la sua Casa e per il suo popolo, che toccano il sublime. Ella non darà il consenso prima di aver conosciuto il Principe Napoleone. Cavour insiste: rifletta Sua Altezza quanto sarebbe grave un rifiuto dopo aver conosciuto il Principe. Ma Clotilde è irremovibile: deve essere cosi, voglio che sia cosi. Come il signor Conte non comprende? Un consenso dato a priori farebbe ricadere tutta la responsabilità del matrimonio e dell'avvenire di lei, sul Re e sul Ministro; la ragion politica si paleserebbe, tosto, senza possibilità di equivoci; e la Principessa desidera invece che si creda a un matrimonio dettato dal cuore e dal sentimento. Il sacrificio, se sacrificio ha da essere, sarà più grande e completo perchè dissimulato, perchè offerto con la grazia, la dignità, la consapevolezza dì un'anima purissima, posta al di sopra di ogni egoismo, di ogni umana fragilità. *** Ed il secondo atto si apre in pieno dramma. Siamo all'aprile 1859. Lo spirito incerto, titubante, indeciso di Napoleone in permette che le cose prendano una piega tutt'altro che confortante, piena di minacele e di pericoli. Mentre Cavour attende che l'Austria, provocata, rompa gli indugi e mandi un « ultimatum », l'Imperatore fa proporre dalla Russia un congresso per risolvere la questione italiana. Se il congresso avesse luogo, se il Piemonte dovesse aderire al congresso e disarmare, anziché lanciarsi nell'auspicata guerra di redenzione, sarebbe la catastrofe. Cavour vive come sotto un incubo. Dunque Napoleone ha dimenticato le promesse fatte ? Dunque il gran plano, con tanto sagace intuizione architettato, sta per rivelarsi inattuabile? Stanno per giungere gli incaricati di Affari dell'Inghilterra e della' Prussia, con due note diplomatiche; si chiede al Piemonte di aderire al congresso e al disarmo, e di rispondere immediatamente, nella giornata stessa. Cavour freme. Invano chiede al Lato tu1 d'Auvergne, Ambasciatore di Francia, se sia giunto dall'Imperatore un sol cenno di istruzioni: l'Imperatore pare, in questo momento, lontanissimo, assente; Cavour si sente solo, sente il suo Paese solo « contro l'elmo della Prussia e il tridente di Nettuno ». Il suo colloquio con il Latour si fa aspro, concitato, violento. « Lei guardi di prendere tempo » — gli dice l'Ambasciatore francese. Presto detto, ma come? I rappresentanti dell'Inghilterra e della Prussia presentano le loro note. Cavour frena a stento il suo spasimo; scorre attentamente i due documenti, li confronta, e un lampo brilla nei suoi occhi. Le due note non concordano; la Prussia chiede che si accetti il disarmo quale principio da discutersi al congresso, l'Inghilterra invece chiede il disarmo preliminare per addivenire poi al congresso. E' forse la salvezza; certo è un inaspettato magnifico pretesto per prorogare la risposta. Cavour ha di nuovo in pugno la sorte; come posso rispondere — egli esclama — come posso dire di sì alla Prussia senza dir di no all'Inghilterra, e viceversa? E invita quegli egregi signori a soprassedere, a rivolgersi ai rispettivi Governi, a mettersi d'accordo. E' un respiro, è la proroga, è un incidente da nulla, e incommensurabile, che può salvare la situazione. E la salva infatti. L'Austria ha finalmente perso la pazienza; provocata dal pie-' colo Piemonte, offesa, ha smandato il suo « ultimatum ». Esso giunge quando già Cavour ha accettato, sotto la pressione delia Francia, il disarmo. Tanto più drammatico lo svolgersi degli avvenimenti, con quelle oscillazioni di speranza e di desolazione, con quegli impeti di entusiasmo e quelle alterne vicende che paiono un gioco del destino. **# Il secondo quadro del secondo atto ci trasporta alle Tuileries; serata intima, sono riuniti Napoleone III, l'Imperatrice Eugenia, la Principessa Clotilde, il Principe Gerolamo. Questi tenta di difendere ancora la causa italiana presso l'Imperatore; ma l'Imperatore ha un atteggiamento astratto, indefinibile e incomprensibile. Pare non vi sia più nulla da fare; Gerolamo ha un alterco brutale con Walcwski; ma le sue parole, le sue sollecitazioni, lo sue proteste cadono nel vuoto. Walewski telegraferà a Cavour, per ordine dell'Imperatore, che 11 Piemonte deve accettare e il congresso e il disarmo. Le cose sono a questo punto; ma nel frattempo un dispaccio è giunto all'Imperatore da Vienna; nel decifrarlo una vaga emozione, un palpito misterioso sì aureola sull'enigmatico volto di Napoleone in. E' la guerra. Napoleone rimane un istante solo con la Principessa Clotilde: «Siate serena e riposato lieta, Clotilde... L'Imperatole -mio dirvi così». E sospinto dalla muta, se pur ansiosa interrogazione della Principessa egli aggiunge: « Non una parola "nemmeno a vostro marito... Di fronte all'Europa Cavour deve avere accettato anche il disarmo e senza poter dire sottovóce ai suoi che non sono tutti dei diplomatici... che intanto il disarmo non avverrà ». Ora Re Vittorio — siamo al terzo quadro del { secondo atto, alla Corte di Torino — parla con accoramento profondo, e con sdegno, parla di abdicazione. Il Paese, egvosoalo è doteanmafagstspvtearoreilmgR«sìdtlebVpluddvmspNqtdvdimdghpEluplaprdnmVdinleprsamcstsvvdPSneattRtdIcledsi!bscmtrolaèpioioClae spcmLpafuscmCtiilrgapfolossrsfgqdhcaqcetnsaqlepgdrccpdèrudnntvsqehtc o n e e e l l l . e i i à a i 1 l l a l i a a i a a i a e -' l a . n l o n a a o e ; o o . n a a e n e n e l { — n , egli dice, ha creduto In me e in Cavour, ed io non abbandono Cavour; nè so se la notizia del disarmo sarà data al popolo da Re Vittorio Emanuele, o da Re Umberto. In tutti i presenti è visibile l'inquietudine, il tormento il dolore. E un valletto annuncia il conte di Cavour. Con lo sguardo fisso, come se il suo animo fosse inteso altrove, stranamente sconvolto, Cavour entra. La sua apparenza è fredda, dura, il respiro affannoso. Parla quasi a stento. E' l'angoscia che lo ha ridotto in quello stato? o una gioia troppo grande, inesprimibile? Ma egli non dice subito la verità, non comunica immediatamente al Re l'annuncio dell'* ultimatum »; ancora una breve schermaglia di parole, e poi, senz'altro, con impeto irresistibile la lettura del discorso con il quale egli tra poco chiederà alla Camera che per tutto il tempo della guerra siano concessi i pieni poteri al Re. E' un emozionante colpo di scena. «E' la guerra. Maestà... questa volta sì fa veramente l'Italia ». Vittorie di Montebello, di balestro, di Magenta, di Solferino e dì San Martino: gli eserciti di Vittorio Emanuele II e di Napoleone Ili saranno entro breve spazio di tempo alle porte ai Venezia; i'indipendenza d'Italia sta per essere un tatto compiuto. Ma il b luglio Napoleone, senza essersi accordato con iì Re, propone una tregua d'armi al nemico. E' Villafranca. Cavour apprende la notizia dell'armistizio mentre sta per mettersi a cena al ristorante dei Cambio: uno scatto e la partenza improvvisa, con 11 giovane Nigra, per il Quartier Generale. Nel quadro seguente (secondo dell'atto terzo) siamo a Valeggio, nella stanza da lavoro dell'Imperatore. Napoleone vuole la pace, ed 6 preso dall'angoscia di non mantenere fino all'ultimo gii impegni assunti con gli italiani, e dallo smarrimento che la realtà delia guerra, con le stragi, i morti, i tenti, ha provocato nel suo animo non temprato alle dure necessità della stona. E poi la Prussia mobilita contro ai lui; vari corpi d'armata, secondo il piano di Moltke, stanno per essere lanciati sul Reno. L'imperatore si passa sul volto terreo un velo lieve di rossetto, e si accinge a ricevere 11 Ke di Sardegna. Il colloquio tra i due monarchi è corso da fremiti; è aspro e malinconico. Napoleone comunica a Vittorio Emanuele i termini della pace di Villafranca; Re Vittorio prorompe in nobilissimo sdegno, ma poi si frena; le dichiarazioni dell'Imperatore sono precise, la realtà incalza, e non sarebbe virile dissimularla — è necessario che Re Vittorio firmi; ma unicamente — egli subito dichiara — per ciò che lo concerne. E un che di augusto e di patetico aleggia su questa scena, innalza in una tragica e davvero regale atmosfera questi due Sovrani che lottano e soffrono per l'alto destino delle loro Case e del loro Popoli. Il dramma sta per conchiudersl. Siamo all'ultima scena, a Monzambano, quartier generale del Re: Cavour e Vittorio Emanuele, l'uno di fronte all'altro, in un momento di travolgen te passione. Cavour è disfatto, la sua tensione nervosa è al colmo; quando n Re gli fa leggere i preliminari del trattato dì pace, la sua collera, la sua disperazione, esplodono d'un tratto. Il contegno del Re é mirabilmente calmo; egli si domina. Le parole violente del Ministro non gli fanno perdere il sangue freddo, il controllo ai sè. Egli cerca di ragionare, di indurre i! Ministro a comprendere l'ineluttabile necessità della cosa, pur tristissima e dolorosissima. Ma Cavour dichiara ch'egli non metterà la sua nrma di ministro responsabile sotto quel trattato; e rassegna le dimissioni, ma ora anche il Re incomincia a perdere la calma. «Eh! certo! Per lor signori è molto comodo; lor signori fanno presto, danno le dimissioni e via... Ma io... io... non posso dare le dimissioni... io non posso disertare il mio posto... ». Cavour vuole interromperlo : « No, no... lasxòmla 11 » esclama imperioso 11 Re, e rivolto a Nigra: « 'L cònt Cavour a sia nen ben, a l'è ìiervós. Ca lo cómparjna a deurme ». Ma Cavour non cede: « Se un ministro deve saper dimettersi altri deve saper abdicare ». L'audacia è stata grande: «Conte, lei parla al Re. Lei dimentica di parlare al Re? ». E Cavour in un impeto ai furore: « Gli Italiani conoscono me. lo sono il vero Re... ». E' a questo punto che Vittorio Emanuele scatta fieramente: «Che dice? Chic! a l'è 'l Re? Chiel a Vìi 'n birichini ». Sono le ultime battute. Anche Lamarmora niluta di assumere di fronte al paese la responsabilità che il conte di Cavour già ha rifiutato. E il Re si sente per un attimo solo. Attimo breve, egli si riprende, e, nella tristezza dell'ora, profondamente ragiona. Il suo pensiero va lontano, sì innalza in una magnifica visione. Perchè è bene che l'Italia non sia stata fatta con l'aiuto degli stranieri, è bene; e l'Italia sarà fatta lo stesso : « l'Italia sarà fatta, Nigra, e la faremo da noi ». « Villafranca » ha avuto iersera un grande successo. La rievocazione di quell'età gloriosa in una serie di quadri coloritissimi, pittoreschi, vibranti, ha avvinto il pubblico. La drammaticità, contenuta sempre in una linea austera, è strettamente congiunta, In questo dramma, a un senso di quelle che furono le note essenziali, ideali ed eroiche, del no3tro Risorgimento, oltre ogni dire penetrante. La commozione si forma sui particolari realistici, sulla descrizione storica equilibrata e acuta, e si va via via ingrandendo, quanto più ardente si fa il fuoco delle passioni, quanto più nobili ci appaiono l pensieri e fiere le azioni. Quegli uomini colti nel tormento, nell'audacia, nella grandezza delle loro opere quotidiane, sono ben presto circonfusi di una luce brillante e sacra che lì fa più vicini al nostro cuore e più singolari e alti nello splendore della tradizione. Quando Re Vittorio è comparso, così esatto, cosi famigliare a noi nella figura e nel portamento, un grande applauso è scoppiato ed è durato qualche minuto: ritornava a noi una delle immagini più care e venerate, una delle immagini più legate, fin dall'infanzia, fin dal primi fervori della nostra coscienza, al nostro sentimento. Tutto 11 teatro ha sentito questo. E la vigoria di Cavour, il suo estro, la sua vivacità e la sua forza ha tenuto desto ad ogni istante l'interesse: il pubblico ha ec-gulto la vicenda del genio, della grande coliti¬ pcgtbttpdgrisbRbcvsvRsvilpzCspmrdsdfirnnpcamcugrvgsnscapddgeftobaSgcanIlsclgrimb—srrdTttss!ptris ca, del coraggio civile, il pubblico ha seguito questo racconto di passione nazionale, ora trionfale ora dolorante, con una curiosità fatta d'amore e d'entusiasmo. Ad ogni quadro gli applausi- scroscianti hanno espresso il compiacimento, fervido, caloroso, degli spettatori. Quadri del resto perfettamente intonati; belli i scenari su bozzetti dell'architetto Antonio Valente; belli i costumi su disegni del pittore Galdo. Vecchie stampe colorate parevano a tratti, vivi come un ricordo domestico, felicemente realizzati in ogni tono, in ogni sfumatura. Ma ad esprimere poi la sostanza storica, forte, serena, realisticamente intesa, ma mossa da una Ideale visione, ben si prestarono gli attori. Corrado Racca, Annibale Betrone, Ernesto Sabbatini recitarono ottimamente: il Racca diede alla figura del conte di Cavour carattere, plasticità, commozione spesso irresistibile; austero, significativo, incisivo il Betrone nella figura di Re Vittorio; pieno di delicatezza e di sottigliezza il Sabbatini che impersonava l'Imperatore. Nè si può dimenticare il Marini, eccellente cav. Canofari, nel primo quadro, nè Pina Torniai aggrazlatissima nelle vesti della Principessa Clotilde. Tutti gli attori furono del resto affiatati, corretti, precisi; la rappresentazione si svol.se con un affiatamento e una coscienza della bella e alta rievocazione che si stava compiendo e dei profondi pensieri ch'essa andava suscitando, degna della più ampia lode. Contare gli applausi? Sarebbe difficile. Ad ogni quadro, ad ogni atto si rinnovarono, insistenti, vibranti, unanimi, e si mutarono spesso in ovazione. Giovacchino Forzano dovette più e più volte presentarsi alla ribalta, acclamato, in mezzo ai suoi interpreti. f. b. cmdmplnbcltlpLstGgtMietTlmp«gdLdtgRppdcclWNlgRta