KATHERINE MANSFIELD: Diario - SHAKESPEARE La Tempesta, tradotta da G. S. Gargano.

KATHERINE MANSFIELD: Diario - SHAKESPEARE La Tempesta, tradotta da G. S. Gargano. VARIA LETTERATURA KATHERINE MANSFIELD: Diario - SHAKESPEARE La Tempesta, tradotta da G. S. Gargano. e , l i e l e i e e i i i e a é , e . è e a a o a i a ù l e n è. ' In una delle 3ue tante deliziose-doloro3e pagine, Caterina Mansfield parla del « vento tepido e dolce di primavera, che penetra nel cuore »; come quel vento è l'arte sua, fremente e sommessa, potenza soave che sollecita il consenso della più intima vostra inquietudine, o pace, o ansietà. E' noto 11 destino di questa squisitissima scrittrice, nata nella Nuova Zelanda verso la fine del secolo scorso, morta di tubercolosi nel '23, a trentaclnque anni, in una colonia di teosofi a Fontaincbleau. Della sua vita ha trattato or non è molto su queste stesse colonne Mario Praz; e il suo Diario è stato tradotto in italiano, in questi mesi, per le Edizioni Corbaccio. Fu René Lalou a dire che nell'arte della Mansfield sarebbe un'empietà voler distinguere l'invenzione dal ricordo: una poetica, ininterrotta interferenza ooll'irreale conferisce incantato prestigio al suo mondo, lo circonda di un'aura celeste, che par fragile, ed è cristallina. Nulla di prezioso in questa finezza: ma il palpito lieve e profondo di una creatura viva. Anche nel Diario tutto è cosi compatto, intricato — annotazioni critiche, tratti lirici, paesaggi, osservazioni psicologiche, fantasie, capricci, progetti memoria e immaginazione — che scindere, distinguere lo spunto di una novella, poniamo, dal segretissimo, personalissimo fatto sentimentale, la cosa reale dalla cosa sognata, potrebbe divenire non solo inutile, ma frivolo gioco. Dolorosa fu la vita della Mansfield, ma, come dire? dolorosa e gioiosa insieme; scrive John Middleton Murry: « la sua sofferenza e la sua gioia non erano mai parziali; esse le colmavano tutta l'anima». Il raggiungere questa pienezza, l'esserne privata, il ritrovarla in istanti di estasi e di lucidità, il farla infine cosa propria, per sempre, come aspra, dolce conquista, furono forse gli estremi del suo dramma e della sua poesia. Anche la vocazione di scrittrice, con quell'impegno, quel tormento di non dare di sè abbastanza, quel timore di impigrire, di abbandonarsi, anche la sua vocazione e il talento erano incorporati, si immedesimavano in quel desiderio e bisogno di completezza, di adesione perfetta alla vita .ossia di sincerità. Caterina Mansfield ebbe, tra l'altro, un grande dolore che determinò l'indirizzo ultimo della sua spiritualità: la morte di un giovane fratello venuto, nel 1915, dalla Nuova Zelanda a combattere in Europa. L'idea della morte percorre come un brivido le pagine del Diario. Nascosta, sotterranea, non si manifesta sempre direttamente, ma è la condizione segreta di queste rivelazioni, tra psicologiche e poetiche, cosi intrise di soprannaturale e di mistero; idea che si raccoglie in sospensioni, in attimi di stupefazione e di amore; uno sbatter d'ali, un librarsi e staccarsi a volo, « istanti in cui il respirare diventa cosi delizioso, da aver quasi timore a continuarne il ritmo ». Un giorno essa aveva scritto: « è un gioco che mi piace: passeggiare e discorrere coi morti che sorridono e tacciono e Bono «liberi», finalmente liberissimi. Quando vivevo sola, sovente arrivavo a casa, mettevo la chiave nella toppa e trovavo qualcuno ad aspettarmi. «Guarda un po'! E' tanto tempo che mi aspetti? ». Ora 11 fratello, Chimmie, è morto, e in quella morte l'antico affanno, il presentimento, la nostalgia si cristallizzano; essa immagina, crede di avere un dovere da compiere verso il tempo felice, l'infanzia, quando tutti e due, lei e il fratello, erano vivi, e tante altre cose erano vive, che ora si sono trasfigurate nella memoria, hanno acquistato una nuova, arcana e soffocata vitalità, che pur vorrebbe apparire, farsi strada e luce. E decide di dedicare la sua attività letteraria, i suoi scritti a questa rievocazione: « ogni cosa dev'essere detta con aria di mistero, deve avere un senso radioso, un ardor postumo, perchè tu, mio piccolo sole di laggiù, sei tramontato ». Ed ecco nella evocazione quella desiata pienezza di sensibilità, di solitudine, di sogno, oc cupa il suo spirito, lo invade, lo soggioga definitivamente. Nel Diario è annotata una delle ultime conversa zionl tra fratello e sorella: teneri ricordi, aneddoti, voci della fanciullezza: « Ma non ti pare straordinario che la nostra felicità fosse cosi profonda... ». Da quel momento tutta l'esistenza della Mansfield, e il Diario la rispecchia vario e fedele, è rivolta a trattenere o recuperare quella felicità * cosi profonda»; a ricondurla dall'invisibile nel reale. Esistenza apparentemente frantumata, dispersa tra la malattia, le cure, l'angoscia, il lavoro, e intima' mente una nel suo accrescersi e progredire. La Mansfield aveva sempre dovuto lottare, o con i nervi o con la nostalgia o pel denaro, o per l'arte; e quante peripezie: viaggi disastrosi, soggiorni da ammalata in Italia, sulla Costa Azzurra ,in Isvizzera, e disordine di o a n s. ndi e e e aio Il n ni orio o, la ti fu zo sucecis« sglilusmachpezachtertemtaesmila l'ingutilundeedriuchcoMchpoti podicotàtrdipiindapè ifacrorrieArfocilnelibsi demdistS. teere tecaGPteGe rilunositaangavipucademstdpreCzaInncosotudsibècdqGtumvdestsedcsddfrtlebliCledllotaffetti, di pensieri, di vita. Ma poi da I gquel disordine scaturisce una consistenza nuova e impensata, su quel disordine il suo spirito, acuito, approfondito, raggiunge ciò che « va bene ». Sono queste le ultime parole del Diario, scritte pochi mesi prima della morte: Tutto va beìie. E, informa il Murry, questa convinzione che « tutto andava bene, non l'abbandonò più ». Tralascia ogni cura, pensa che la malattia fisica non sia che un incidente; tutta la sua capacità di trarre il cielo in terra, di sognare, di purificarsi, oonfluisce in una letizia, in un'ansietà felice, che s'approssima rapida, che si impossessa, con dolce rombo, del cuore. Come definire quest'arte? o meglio questa sensibilità? Edmond Jaloux, dopo aver osservato che per gli esseri come la Mansfield il mondo è una sottile pellicola di color cangiante, che non ricopre nulla, o alcunché di smisuratamente profondo — « Elle flottait à la surface de tout... Ainsi se représente-t on Ariel » — parla di quella sua preziosa facoltà, di quel dono o disposizione a concentrarsi tutta nel momento presente, a sentirne l'emozione, la poesia,- come se solo esso, al mondo, avesse Importanza. Anche 11 Lalou parla di istanti misteriosi, di luminose, Immateriali sensazioni,, quando qualche Inaudita felicità sta per nascere o per svanire. Ma è nel Diario stesso che si può cogliere qualcosa di Istintivo e di confessato, qualcosa di incomparabilmente utile alla comprensione : « vor- msglndmaMscasc■dgbtmspiscsvBldarei scrivere una serie di «cieli»: sa-jrà qualchecosa. Ricordo la mia « ti- mldezza » di fronte agli usci chiusi | Suonerò troppo forte o troppo piano ?». Ecco, forse qui è tutta la tessitura in- j teriore della poesia della Mansfield. Vi;è, adombrata in quella timidezza, in | guegu usci chimi, 'n armi immuti fruii' a i , ! a l e o i a a i a i è : a . a o l e ' e a e i o piano, l'intimità, la famigliarità, del suo indagare e fantasticare, quella ricerca di una risonanza sempre più precisa e intonata. Le cose e le creature « stanno », rapide e immobili, alle soglie del mistero, tutte luce e senso e allusioni; e la vita è presente, segretissima e chiarissima, tenera e arcana. Ciò che dev'essere detto, è detto senza troppe spiegazioni, proposto come l'evidenza stessa dell'esistere. E vi sono poi anche quei « cieli »; e cioè il tocco immateriale, la visione candida e fuori del tempo, che immerge il bozzetto, l'annotazione, nella sua vera luce, nella sua esatta tonalità. Realismo sognato, famigliarità inattesa, un trascorrere dalla visibile natura al presentimento dell'invisibile; grazia leggera che trasfigura quel che è torbido e malato in gentilezza e meraviglia. La Tempesta di Shakespeare è certo una delle opere più popolari e citate della letteratura inglese; ammirazione ed entusiasmo, per quanto accesi, non riuscirebbero tuttavia a nascondere che, per esempio, quei personaggi sono convenzionali, vuoti, freddi, Prospero, Miranda, Ferdinando, Alonso — manichini e non persone; e che il dramma è povero, e che, come teatro, i cinque atti sono mediocri e languenti. Pure il poema è una meraviglia, e qualcosa di divino è in quel canto. E' il poema della compiuta, saggia, malinconica maturità shakespeariana. Sull'isola stregata, tra i vaghi suoni, e le illusioni e i prodigi, circola un'aria aurata d'autunno pieno, caldo, ricco; e l'uomo, con la sua indulgenza pensosa, e un po' stanca, vi appare demiurgo e musico. Ma questo è il tono, segreto e melodioso, dell'alata fantasia; la sua bellezza plastica, concreta, va poi cercata altrove, nelle straordinarie, sorprendenti creazioni di Ariele e Calibano. Calibano soprattutto. Ariele, spiritello, silfo, è forse, e senza forse, meno originale; v'è un che di facile e civettuolo nella sua gentilezza, nella sua levità a effetto sicuro; ma Calibano è un portento, cosi profondo, cosi lontano e così vicino a noi nell'ordine della natura e del sentimento. Mirabile mostro, carico di tutte le difformità e di tutti i sogni della terra. La Tempesta era stata tradotta in italiano da G. S. Gargano; ma la morte colse l'eminente e compianto critico non appena egli era giunto al termine della sua fatica, e ora la traduzione, con il testo a fronte, vien pubblicata nella bella Biblioteca Sansoniana Straniera già diretta da Guido Manacorda, ora diretta da P. E. Pavolini, riveduta, completata nelle note, arricchita di una introduzione da G Ferrando. Nell'Introduzione è detto e illustrato l'essenziale intorno alla curiosa opera che richiama, con le sue allusioni e derivazioni, un mondo non meno curioso e pittoresco. Opera di fantasia, ma in parte e in certo modo dedotta dai racconti più o meno fantastici anch'essi, e impressionanti, delle navigazioni dell'epoca. Il meraviglioso dei viaggi di allora e di quelle relazioni ha pur oggi un suo fascino delizioso e piccante. E tutto quello poi che fu scritto dei rapporti tra La Tempesta e la Comi media dell'Arte, e a identificare i gesti di Stefano e Trìnculo con quelli delle maschere e dei buffi napoletani, o per noi italiani particolarmente interessante. Nè, a proposito di Ariele e Calibano, sarebbe privo di piacevolezza ricordare le stravaganti, arbitrarle Interpretazioni di cui i poverini furono vittime. Si é voluto sapere ad ogni costo quel che Shakespeare avrebbe sottinteso con quelle sue fantasie, e naturalmente ognuno ha detto la sua; dal darwnismo alla politica, da Ariele simbolo dell'elettricità a Calibano simbolo della democrazia, che cosa non si è detto mai di quel due! Il Ferrando, che in certe sue considerazioni segue da vicino, a tratti quasi testualmente, qualche pagina su Shakespeare di Louis Gillet, esce a dire e giustamente, che tutto ciò è assurdo; ma lo dice con una motivazione errata; o almeno eccessiva : « Dobbiamo lasciare a queste grandi creazioni la loro Indeterminatezza J esse sono eterne appunto perchè non: sono limitate e possono significar tutto, perchè non dicon niente di preciso ». No, Ariele e Calibano non sono eterni, mon sono vivi in quanto non dicono niente di preciso, ma anzi perchè lo dicono, e come; fantasmi non! solo definiti e concreti, ma inconfondibili e insostituibili; se Calibano non dicesse nulla di preciso, se cioè non fosse precisamente sè stesso, non sarebbe davvero gran che — ma chi potrebbe, a parte i vaneggiamenti intellettualistici degli interpreti, chi potrebi be attribuire a Calibano una personalità fisica e spirituale diversa dalla sua?, Certo è vano cercare in Calibano allegorie e simboli; ma basta poi guari darlo con occhio semplice e puro, quale Shakespeare l'ha creato, per vederlo qual'è; un mostro, una curiosità esotica, ecco tutto; un campione stravai a I gante, inquietante, della misterioslssii . o, : y, a a a a di a pn o oole iala t o a ema natura che in quel bizzarro Rinascimento era tuttavia immersa nel 60i gni della magia, nella suggestione dell'irrazionale. Un mostro, impressionante e malinconico, come se ne vedono nelle baracche da fiera, e che mette i brividi al bimbi, alle donne e ai poeti. Ricorda opportunamente il Mézières che Trlnculo lo crede un mostro marino : « Se fossi in Inghilterra come c'ero tempo fa, e non avessi altro che un'insegna su cui questo pesce fosse dipinto, non troverei imbecille che nei giorni festivi non fosse ■disposto a pagare una moneta d'argento... ». Ecco tutto, un mostro da baracca da fiera, come il vitello a due teste e la donna barbuta e selvaggia; ma nelle mani di Shakespeare quel mostro, quello spettacolo per ragazzi e perdigiorno, diventa la voce arcana, il gemito e 11 canto della natura stessa, che dagli abissi dell'informe sale, confusamente, alla luce e alla coscienza. F. BERN'ARDELLI

Luoghi citati: Europa, Inghilterra, Isvizzera, Italia, Nuova Zelanda