Un vecchio un abate, un poetapoeta

Un vecchio un abate, un poetapoeta Un vecchio un abate, un poetapoeta Non è trascorso molto tempo da quando era ancora possibile incontrarlo, nelle giornate invernali chiare e senza vento, sul ponte di Semedella 0 sotto i tronchi maculati degli ippocastani del Belvedere. Chi andava per i fatti proprii se 10 trovava a un tratto davanti : un vecchio alto e asciutto, dalla barba candida e dal volto scarno e arrossato. Procedeva un po' curvo, come raccolto nelle larghe spalle ossute. Il Fasso era un po' lento ma sicuro; e occhio, fisso costantemente a terra — come in chi, pur muovendosi tra la gente, resta fedele a un suo breve cerchio di pensieri — si rialzava di tratto in tratto, un po' sporgente e dilatato nell'azzurro della pupilla, a guardare, da sotto le larghe tese del •cappello nero, se qualcuno si avvicinava. In cjUcU'atto, spesso egli si fermava addirittura, poggiando la mano sul bastone, e attendeva che il conoscente si appressasse. Più che ottantenne, il vecchio si era lasciato dietro tante vicende da poter vivere, risalendo col pensiero quella scia, tutta un'altra vita. La nascita da una famiglia patrizia — una delle più grandi famiglie di questa sponda veneta orientale —, la vita agiata, le nozze e i figli, poi la notorietà, anzi quasi un baleno di gloria yhe a un tratto tornava a illuminare 11 nome illustre da quasi un millennio; e infine, vorticosi, le disgrazie, il declino, la povertà. Morti ì figli, dispersi — sin nelle Americhe — i nipoti, quasi spenta l'aureola intorno al grande nome comitale, sfumati i 1 beni, tramandati attraverso i secoli, che cosa rimaneva ancora al vecchio, sia in bene che in male, al di qua del passato? *** In quelle brevi passeggiate il vecchio trovava dovunque le traccie dell'antico splendore della sua gente; I generali, gli ambasciatori, i governatori, i magistrati risbucavano da ogni parte. Il viale che dal bastione del Belvedere scende al Porto non recava il nome battagliero di un suo antenato? E quell'altro che aveva piantato il vessillo veneto sulle mura di Candia riconquistata, non riappariva, come in un grande affresco, sul sipario polveroso e tremolante dell'antico teatro? Se il vecchio risaliva per la via Santorio, una cappelletta, a mezza strada, gli diceva che un tempo le case dei suoi, abbracciando quasitutto un sestiere, giungevano sin là. E più su, entro l'atrio immenso del Museo (ecco il Palazzo di un'altra grande famiglia più volte nei secoli legata alla sua) egli vedeva biancheggiare lo stemma gentilizio, ove spiccava un emblema singolare: una lingua stretta entro una specie di tenaglia. La storia di quella lingua tenuta in freno, era una ragione di orgoglio non soltanto per lui e per i suoi, ma per- tutta la città. Chi non sa dirvi in questa cittadina adriatica quanto fu incauto Rossetto da Capua a chiamare « barbari » gli istriani ? Si era al principio del secolo quindicesimo; a Napoli. Santo I, uno dei più fieri antenati del vecchio, sfidò Rossetto a duello, e lo vinse, alla presenza del Re Ladislao e di tutta la Corte, costringendolo a ritirare l'offesa. Per ricordo del fatto il Re concesse a Santo di aggiungere alla propria arme una lingua tra due freni. Ma gli avi del vecchio non erano stati soltanto, in terra e in mare — nella guerra di Ferrara, a Ravenna, a Brescia, a Palma, nelle acque di Candia e contro gli Uscocchi — dei formidabili uomini d'arme. Già Rinaldo, nel secolo quindicesimo, seguendo come capitano e « segretario » il condottiero Bartolomeo Colleoni e soprattutto accettando di andare presso il Duca di Borgogna quale ambasciatore della Repubblica .Veneta, accennava ad aggiungere alle virtù guerriere l'avvedutezza pronta e calma del consigliere e dell'oratore. Poi i lustri, i decenni, i secoli si susseguono; l'epoca ferrea si allontana col suo fragore nelle nebbie del passato; il gesto a poco a poco si amplifica, si arrotonda, forse per nascondere un'intima mancanza di forza. Le guerre continuano — è vero — ma la politica della spada sta tramontando; sorge — a Parigi c'è Richelieu — la politica da tavolino. Ancora un passo e siamo nel secolo delle velade, delle parrucche incipriate, del rapè, degli spadini portati per vezzo. Il cicisbeo si avanza nelle sale specchianti, si inchina con un sorrisetto alle Nobildonne Illustrissime ie porta al cuore la mano esangue, ove brilla una gemma enorme, facendo tremolare le trine dei polsi. Ed ecco la nobiltà letterata del Settecento. Ecco gli abati-poeti. Anche la famiglia del vecchio ha il suo abate. E' un giovane esile, ma avventuroso. Nell^>cchio gli balena un'invincibile nostalgia di potenza: la fami• glia è in declino, la sostanza gravata di passività, nel feudo di Marischie la vita trascorre meschina, col continuo assillo dei debiti : ebbene eg|i risolleverà la famiglia agli antichi fastigi e tornerà famoso nella pace della villa gentilizia. Per amore del padre, dei fratelli, della sorella, l'Abate parte alla ventura. Ha con sè tre camicie e pochi scudi; ma lo sostiene (come si legge nelle sue lettere) una puerile, commovente fiducia nelle proprie possibilità e nel favore del destino. Percorre la Francia di Luigi XV; attraversa la Manica a bordo di uno di quei vascelli a vele tondette. alti e panciuti sulle onde arricciate; sbarca nella «nebbiosa Albione»; prende una « sedia da posta » in una di quelle diligenze a doppia pariglia — il postiglione reggeva tutto un mazzo di redini come Giove i suoi fulmini —, una di quelle diligenze da! serpe a gualdrappa sospeso co¬ despuperla dae dvosalprere socolAmFrpavededi nesi ;caproncoGrabvol'Elusuvisiopaaudolanedofudedal'avidaaupequlatestTudigrsubitonutol'edegimgltenovemlosuatorzipepogndedestedrelirilacofoacisubpcisusegstdfoaesqg2ocPtoprCeqmdfvDvrzbvCtmdrgntSggtlsrcztntia e un tronetto al di sopra del coué oscillante sulle cinghie screpoate. _ « In Londra, — racconta uno stoico; — dove arrivò li 29 ottobre 1733, ebbe il vantaggio di venire scritto a quella Reale Accademia, di essere eletto a poeta della medesima con generoso stipendio. Ebbe pure la direzione del Teatro dell'Opera di Haymarcket, pel quale fece la traduzione dell'opera il « Mitridate » dal verso inglese nell'italiano, e di altre opere ancora ; nonché lavori creati dal suo genio* letterario ». L'Abate aveva vinto; ma la sua salute non resistette a quei climi. Ben presto egli si accorse di dover lasciare Londra. Riattraversò la Manica, sostò di nuovo a Parigi, ma qui lo colse la morte, che Alessandro Zeno, Ambasciatore Veneto presso il Re di Francia, comunicherà tristemente ai parenti. Cosi finiva la più audace avventura settecentesca della famiglia del vecchio: una lapide nella chiesa di San Sulpizio a Parigi. E di nuovo il tempo precipita. Venezia, la Dominante, sembra assopirsi ; sinché Buonaparte, con alcune cannonate al Lido, la scuote all'improvviso. Sono giorni di tumulto, di onta e di gioia. In Piazza San Marco un giovane venuto dal mare di Grecia — pallidissimo, capelli rossi, abito verde: Foscolo — balla infervorato intorno all'albero della Liber¬ tà dando la mano a una famosa patrizia. Nella cittadina veneta dell'altra sponda la notizia di questi avvenimenti giunge confusa; e anche qui sono tumulti, ma di ostilità al nuovo stato di cose. La famiglia del vecchio questa volta è assente. Trascorre tutto_ un secolo e nessun Santo, nessun Rinaldo balza in luce; con la caduta di Venezia anche la vecchia famiglia sembra finita. Tutto è nel passato: un grande nome. **# La grandezza della famiglia doveva rinascere da lui, dal vecchio, all'improvviso. Quel poeta vernacolo famoso a vent'anni non era un ramo del suo tronco? Era suo figlio: Tino. Ecco che la vena poetica, quella vena che per secoli era serpeggiata in famiglia, apparendo nell'Abate, riapparendo nel conte Alessandro suo fratello, traboccava a un tratto, come una polla troppo a lungo contenuta, nell'adolescente. Ma Tino Gavardo ebbe anche il dono di una schiettezza che mancò all'Abate e al conte Alessandro. Ed ebbe anche una cosa difficile a raggiungere: la gloria. Fu, ed è, una gloria ben modesta, circoscritta : una gloria vernacola ; ma la gloria non si misura a sacchi, basta che in qualche modo ci sia, e che duri. Quando, dopo quasi un ventennio dalla morte di Tino Gavardo — mo¬ rsnpfrccamqvsd ri a ventitré anni — venne deciso di scoprire una lapide sulla sua casa natale, un muratore — quale altro poeta italiano* ha avuto tanto? — si fece avanti a chiedere di poterla murare con le proprie mani. Il giorno dello scoprimento il vecchio assistette alla cerimonia affacciandosi ogni tanto, come di nascosto, a una finestra del primo piano. Vien da pensare quali singolari emozioni egli debba aver provato in quelle ore. Si onorava, ancora una volta, uno della sua famiglia. Ma era, questa volta, uno nato da lui e scomparso prima di lui. Scomparso prima di lui ! : ecco che di nuovo tutto era pel passato, soltanto nel passato. Venendo dal passato, la luce di Tino, per uno strano gioco della sorte, si riverberava sul padre ancora vivo. Era come un capovolgimento, come se le parti si fossero invertite, e il vecchio doveva provarne, pur nella commozione, un indefinibile disagio. Quel suo figlio giovinetto, egli non lo vedeva davanti a sè. come la propria naturale continuazione ; ma dietro, in fondo : nel passato, insomma. Doveva quasi parergli che non fosse più suo figlio; ma piuttosto, ferma per sempre nel tempo, una nuova ombra tra le ombre degli antenati. P. A. QUARANTOTTO CAMBINI

Persone citate: Alessandro Zeno, Ambasciatore Veneto, Bartolomeo Colleoni, Buonaparte, Foscolo, L'abate, Luigi Xv, Mitridate, Sulpizio, Tino Gavardo