Scuoledi artisti e fabbriche di ceramiche

Scuoledi artisti e fabbriche di ceramiche L'arte francese e l'Italia Scuoledi artisti e fabbriche di ceramiche hi. , Il momento culminante del prestilo artistico italiano in Francia, l'unico che trovi grazia anche agli occhi dell'autore di quella Histoire de l'Expansion de l'Art Frangais della a,uale discorremmo giorni or sono, è ad ogni modo l'epoca compresa fra la calata di Carlo VIII e le guerre di Francesco I. Le lettere che il sire d'Amboise e il suo ministro Briqonnet mandano dalla penisola riboccano di entusiasmo : « Madama, scrive quest'ultimo da Napoli alla regina Anna, vorrei che aveste veduta questa città e le belle cose che vi si trovano, giacche è un paradiso terrestre, e vi assicuro che la beltà di questi luoghi è cosa incredibile » ; e Carlo VIII narra a Pietro di Borbone : « Voi non potete credere quali stupendi giardini v'abbiano in que^ sta città! Affé mia, non vi mancano se non Adamo ed Eva per farne un paradiso terrestre, tanto vaghi sono e pieni d'ogni buona e singoiar cosa Dall'entusiasmo della gente di armi che aveva vista l'Italia attraverso i fori della celata, fra due muri di lance come Cristo fra i due ladroni, nacque l'italianità del Rinascimento francese, secondo la classica formula : Graecia capta Romam cóepit. Pittori, scultori, architetti, orafi, vasaj, stampatori passarono le Alpi in frotte al seguito di sovrani e di generali impazienti di trapiantare su una terra ancor rozza i fiori dèlia già splendida cultura italiana. Vi sarebbe tutta una biblioteca da stendere intorno all'attività spesa in Francia da questi artisti. La Francia aveva già assistito, un secolo e mezzo prima, ai miracoli di Avignone, dovuti ai pittori senesi adunatisi colà intorno alla corte pontificia, da Simone Martini, l'amico del Petrarca, a Lippo Memmi. Ma l'influsso della scuola di Avignone si era esercitato sopratutto sulla pittura provenzale, campo male esplorato, dove sarebbe interessante raccogliere gli elementi di una storia di rapporti fra il Trecento italiano e quello francese, e intorno a cui non abbiamo invece se non opere di scrittori quali il Labande e il Colombe, interessati a presentare i primitivi del paese A'oil come artisti interamente originali, anzi non privi di influenza sugli stessi italiani (cfr. Colombe, La filiation artistique de Matteo Giovannetti). L'irradiazione del pensiero italiano sull'arte del nord della Francia parte piuttosto da Amboise, da Chambord, da Blois, da Fontainebleau ossia risale a fra Giocondo, Domenico da Cortona e il Vignola architetti, a Guido Mazzoni, Domenico del Barbiere, Lorenzo da Mugiano, Lorenzo Rainaldi, Benvenuto Cellini e Girolamo della Robbia scultori, ad Andrea Solario, il Rosso, il Primaticcio e il Ghirlandaio pittori. Al suo ritorno dall'Italia, Carlo VIII condusse seco una scolta di ventidue artisti, che presero stanza ad Amboise e molti dei quali, a cominciare dal modenese Mazzoni, furono immediatamente ribattezzati francesi, inaugurando quel sistema delle annessioni d'uomini di-cui la Francia doveva diventare maestra. Naturalizzati cittadini di Francia, contrassegnati con nomi a desinenza francese — Paganino diventa Paguenin, Rainaldi diventa Renauldin, Bordoni diventa Bourdon, ecc^— seguire le traccie di questi artisti e dei loro discendenti e discepoli sarebbe impf esa astrusa e delicata, alla quale è vano pretendere che siano gli studiosi francesi a dedicarsi. Dove, quando e come lavorarono i ventidue pupilli di Carlo Vili? Chi vorrà ammettere che in vent'anni uno scultore quale il Mazzoni, per esempio, non abbia fatto se non la tomba di quel monarca nella cattedrale di SaintDenis? Lo stesso Réau trova la supposizione inverosimile. E gli artisti chiamati in Francia da Luigi XII, da Francesco I, da Caterina'e da Maria de' Medici, dal cardinale Carlo di Lorena, cognato di Ippolito d'Este, chi ha mai compilato il catalogo esatto delle loro opere, chi ha mai fatto il bilancio fedele della loro influenza? Si posseggono studi francesi o tedeschi sul Rosso e sul Primaticcio, come quelli del Kusenberg e del Dimier, ma quando tu pensi che il Vasari chiamava Fontainebleau « la nuova Roma », per indicare l'importanza della coionia artistica fondatavi dai nostri, impossibile vietarti di deplorare l'assenza di monografie complete dovute a penne italiane, sole interessate a far parlare sul serio gli archivi francesi di un'epoca in cui la Francia poteva davvero dirsi una colonia intellettuale del nostro paese e la musa popolare vi strillava: La JusMce es maina de Birague, Lea sranea ea maina de Gonz&gue, I/i tal Ieri fait tout lei: Vous. donc, franoala, qnittez la Franco Et cherchez ailleurs demeurancel Nel quarto volume della sua Bxpansion de l'art Frangais, Louis Réau ha voluto premunirsi contro l'accusa di parzialità, che forse pre sentiva riserbando qua e là una pa^ ginà all'espansione dell'arte italiana in Francia. Ma è troppo chiaro che questo aspetto del problema dei rapporti artistici fra 1 due paesi non rientrava nei fini del suo studio. Non è quindi il caso di stupire che egli se ne sia sbarazzato alla lesta, mercè poche e incomplete nomenclature. Il direttore dell'Istituto Francese di Vienna riporta fra l'altro, quale implicita e sbrigativa testimonianza del nostro ascendente culturale, gna serie di antichi vocaboli del lin- ruaggio artistico italiano entrati nelidiórna francese: architetto, quadro, calco, chiaroscuro, contorno, costume, abbozzo, schizzo, stampa, fresco, grottesco, Madonna, Pietà, pae" erospetiiYa, piedijtallo, vjx- tuoso e, con questi, il neologismo fàience, da Faenza, che giustamente egli mette a riscontro del termine italiano arazzo, da Arras, quasi equiparando la parte avuta dall'Italia nella nascita della ceramica a quella avuta dalla Francia nella nascita dell'arazzo; Senonchè il suo libro manca poi, per esempio, ed ecco per noi la lacuna, di un capitolo sulla ceramica italiana in Francia che si possa dire adeguato all'importanza dell'argomento, e ciò sebbene la recente bellissima esposizione del Louvre avesse facilitato di gran lunga il compito degli studiosi e aperto in proposito le idee anche ai profani. Vero è che da qualche decennio i tecnici francesi pretendono aver scoperta una fonte di ispirazione nazionale autoctona nella poco nota fabbrica di Saint-Porchaire (15251560) le cui ceramiche passavano sino alla metà del secolo scorso per ceramiche italiane, mentre, secondo gli studiosi in questione, tutti almeno tanto imperialisti quanto il Réau se non di più, nulla esse avrebbero a che fare con la produzione della penisola. Ma la tesi si è rivelata nettamente assurda a chiunque abbia visto nell'esposizione parigina quella bómbola a tre anse in nero e giallo della collezione Roberto di Rotschild, dove l'ispirazione toscana è evidente anche ai ciechi e che costituisce appunto uno degli esemplari più notevoli di Saint-Porchaire. In ogni caso, quello che i francesi di buona fede non discutono più è che sin dal 1510 molti maestri vasaj italiani avessero eletto stanza a Lione, dove risiedeva una nostra numerosa colonia : prima i mastro Giorgio, i Bastiano d'Antonio, i Battista di Gregorio, i Benedetto di Lorenzo; di lì a qualche anno Francesco Pesaro ed il genovese Sebastiano Griffo, il quale ultimo otteneva nel 1554 l'esenzione per due anni da ogni balzello contro impegno di non sospendere la propria produzione per uri ugual lasso di tempo. La più importante di tali fabbriche italiane fu — giacché siamo sull'ar- fomento — quella del Pesaro, fonata nel 1556, dove lavorò il pittore Giulio Gambini o Gambin, passato successivamente a Nevers. La maiolica lionese del sec. XVI è tanto italiana, per stile ed esecuzione, da riescir difficile distinguerla dalla produzione faentina ed urbinate àll'infuori che pei soggetti della decorazione, non più forniti dai quadri dei grandi pittori nostrani ma da quei modelli che, sempre senza uscire da un medesimo ordine di idee, era possibile procurarsi sul posto: e cioè scene della Bibbia di Lione e delle Metamorfosi di Ovidio illustrate da Salomon Bernard. La terra usata è giallastra, lo smalto grasso e brillan te, tra i colori dominano giallo e blu come in un certo piatto tondo policromo raffigurante l'incontro di Salomone e della regina di Saba, dietro il quale sta scritto in italiano: La regina sabea. Il tono della composizione, il senso del colore rimangono prettamente nostri, e dalla fabbrica escono in folla amori, tritoni, Ercoli Galatee, satiri, Dafni, di cui, a quanto pare, i ricchi mercanti dell'industrioso Rodano erano ghiotti, in omaggio alla moda. Verso la medesima epoca la ceramica italiana è in onore anche a Nìmes, dove si fabbricano patere, anfore, orci e sopratutto in gran copia vasi di farmacia a fondo generalmente turchino con fregi gialli, talora con aggiunta di mascheroni e ritratti dentro medaglioni adorni di foglie di acanto ed uccelli stilizzati nel gusto faentino. A Rouen, sempre sulla metà di quel prodigioso secolo XVI, il genere italiano è praticato fedelmente dal francese Masseot A baquesne, dalla cui bottega escono barattoli, alberelli e vasi per medicinali con le solite decorazioni italiane policrome a base di medaglioni, arpie, leoni, scudi araldici; che trovano un patrocinatore influente e di buon gusto nel contestabile Anna di Montmorency. Ci sarebbe già qui, come il lettore vede, materia per un capitolo interessante di storia dell'arte italiana in Francia; ma l'impronta più profonda stampata nella ceramica francese dall'Italia del Rinascimento è, secondo riconosce incidentalmente lo stesso Réau, quella di cui fa testimonianza la produzione di Nevers. L'origine della maggior fabbrica di questa città risale a tre fratelli genovesi, e precisamente di Albissola in quel di Savona : i fratelli Corrado, il maggiore dei quali, per nome Domenico, fu condotto in Francia nel 1565 da Luigi Gonzaga, che, grazie al proprio matrimonio con Enrichetta di Clèves duchessa del Nivernese, doveva diventare duca di Nevers per illustrarsi poi nelle guerre della Lega. Domenico Corrado chiamò presso di sè i fratelli Augusto e Giambattista, e, verso il 1588, prese seco in qualità di socio quel Giulio Gambin che abbiamo già trovato a Lione nella fabbrica di Francesco Pesaro. A Domenico successe il figlio Antonio: a quest'ultimo un altro Domenico. La famiglia rimase così alla testa dell'azienda fino al 1674, vale a dire per oltre un secolo, e per quasi un secolo la purezza dello stile italiano si mantenne inalterata. Dai forni del Corrado uscirono, anzi, le opere più sontuose che vanti la ceramica francese del tempo. Vi si fabbricavano vasi di ogni foggia, spesso con figure e teste di animali in rilievo e decorazioni pittoriche di molto garbo. Bellissimi, fra i pèzzi veduti al Louvre, un piatto del 1543 raffigurante la Vendemmia, lavoro policromo di grande finezza appartenente al signor Sanioa di Parigi, * una nasca a doppia i testa di ariete, con un Fiume sul fianco, appartenente alla collezione Tumin. Le maioliche recavano la marca di fabbrica: D. Conrade di Keuers. Una seconda fabbrica italiana sorse inoltre a Nevers ulteriormente e figura sugli atti e documenti locali a cominciare dal 1632 sotto il nome di Pietro Custode, cui sottentrò in seguito il figlio Giovanni, che in gioventù aveva lavorato a Rouen e i cui discendenti governarono l'azienda sino alla fine del Settecento. La famiglia del Custode merita di essere ricordata, oltre che per la parte presa alla produzione nel Nivernese, per la scoperta e l'applicazione industriale del così detto blu persiano, che permise di portare alla perfezione quello stile decorativo orientale, persiano prima, poi cinese, che doveva prendere il pósto dello stile taliano e preparare la grande epoca della majolica francese e tedesca, l e a i e i e n i a e , , e e a , andata dalla metà del Seicento alla metà del secolo seguente. Ancora agli albori del Barocco, in conclusione, la genialità dei ceramisti del nostro sangue continuava a concorrere efficacemente al lustro dell'arte francese. A conclusioni analoghe potrebbe ora condurci la pittura, per poco che volessimo seguire nei suoi lavori Gian Francesco Romanelli, il pittore di Mazzarino, al cui pennello cortonesco son dovuti i più nobili affreschi chetanti Parigi, o magari anche la musica, per poco che volessimo metterci sulle orme del Caccini e dei_ suoi seguaci e successori. Ma le digressioni, in questo campo, fan presto a diventare articoli, anzi articolesse, e quando di queste se ne sono già scritte tre sullo stesso argomento, che altro può fare un giornalista fuorché posare la penna e rimettere il compito a chi tocca ^ CONCETTO PETTINATO.