Castagne sotto bracia

Castagne sotto bracia Castagne sotto bracia Non dirò che sia l'unico, ma tra i 'Segni della fine dell'estate in città bisogna annoverare lo sparire dei banchi e delle baracche dei cocomerài. «Al fuoco, al fuoco!» si sentiva gridare ogni tanto da uno di quegli antri, cui la luce dell'acetilene dava una spalmatura di biacca, creando un chiaroscuro così teso, radente e violento da far pensare a un Caravaggio o a un Dosso Dossi rifatti da un pittore da marciapiede. Sul banco s'allineavano le fette di cocomero, e quella luce senza misericordia non solo insanguinava di più il rosso delle polpe, ma consentiva di contare a uno a uno i semi che affioravano alla superfke, con un realismo accanito e quasi protervo. E le facce della gente (Parevano nello stesso tempo, purché si spostassero un poco, infarinate e nere, gli occhi acquistavano una lucentezza di carbonchio, le labbra una tumidezza da negri. Si salvava soltanto qualche ragazza, che ai lati del quadro, quasi al limite del getto di quella luce, addentava con delicatezza l'orlo della fetta che le sgocciolava dalle mani. Ma è stato lì che ho visto dei visi di popolane fatti di una materia carnale appena segnata dalla forma, da ricordarmi quei pupazzi di neve scolpiti dai ragazzi; e se non fossero state le labbra tese al morso della polpa e le fronti dure e basse rotte dalla nera pennellata dei capelli, veniva naturale stabilire una rispondenza più vicina tra quei visi e le batterie di cocomeri allineati negli stalli della baracca, pronte al sacrificio della coltella. Traboccante vitalità della scena, sonorizzata quasi di continuo dalle voci dei gridatori, dal passaggio dei tram, dalle trombe delle- automobili. Sudore, succo, facce avide, risa, e le forti braccia pelose del venditore che uscivano ed entravano nel fiotto dell'acetilene: era tutto un impasto, ove l'estate celebrava il suo notturno saturnale. Ad accrescere tale senso di vitalità s'aggiungeva, su uno spiazzo provvisorio, dove fra qualche mese sarebbe sorto un altro casone popolare, il chiasso avventuroso d'un circo equestre,, mentre il cono del padiglione sotto un cielo di velluto tramato di stelle, suggeriva una vaga idea di tenda nomade, e il senso spaziale della terra. .Ma se questo avveniva specialmente nella periferia, anche in alcune vie del centro, in certe vie che il 'popolo predilige, dove ha i suoi negozi e i suoi caffè, e persino le sue pasticcerie, l'esistenza di queste baracche richiamava l'estate, ne dava la stabile presenza. * E qui non era raro che accanto al popolano, che mangiava la sua fetta in silenzio, sostasse la coppia ben vestita, che aveva fermata l'automobile da corsa all'orlo del marciapiede, e stava protesa sulla rosea mezzaluna del frutto, addentandola con estrema cautela, perchè succo e semi non cadessero sulle vesti. Lei metteva una compiaciuta imperizia nel mangiare un frutto così apertamente popolare, un frutto da strada, e da sete estiva, più che da mensa; lui una voracità sorridente, come per affermare una disinvoltura che avrebbe fatto piacere all'operaio che li guardava. Quel bisogno elementare, la sete, infatti avvicinava le categorie sociali; e il iriovanotto elegante con la giacca, americanamente, .al braccio, la camicia tubolare dalle corte maniche, e il'.popolano in camicia azzurra, aperta sul petto, si guardavano da una distanza infinitamente minore. Se scambiavano qualche parola, era preferibilmente in dialetto : e il dialetto della città stava bene nelle bocche di entrambi. Meno nude di quelle della periferia, le baracche di questi cocomerai si festonavano di frasche, d'edere seguaci e di piante decorative ; e le scritte accusavano un pennello più di pittore che d'imbianchino. In una, in caratteri novecento, di stilizzata eleganza, si leggeva il versetto : «Sta solo da Peppino - il cocomero più fino » ; e a parte l'orgogliosa esclusività, non era improprio trovare in quella rima un residuo di strapaese per snobbi, senza drre che la stessa parola « cocomero », in una città ove a questo frutto vien dato dal popolo universalmente il nome di anguria, poteva significare la vittoria della lingua sul dialetto. Ma un bel giorno veniva uno-A^Wi. scio di pioggia, ed era la prima fe-^ rita al corpo dell'estate, a questa Circe pomposa e compatta. Lo splendore delle sue carni si velava della prima stanchezza; e invano altri giorni di sole le ridavano, la speranza- del primitivo orgoglio, qualcosa • nel suo sangue s'andava corrompendo. Un altro scroscio faceva cadere le prime foglie dai platani, colorava le" chiome dei giardini d'una lineatura d'ocra; le ombre s'allentavano di trasparenze. E la sera dinanzi ai cocomerai la folla era meno fitta, l'acetilene ardeva in perdita, la coltella luceva sul tavolo in attesa, con le br.accia incrociate del venditore. Invano costui faceva appello alle frasi più colorite del suo gergo, e gridava : « fuoco !> o « al gelo !» ; la sua voce s'accaniva con irosa allegria contro l'incipiente indifferenza del pubblico, nè valeva che la fetta fosse più grande, se la sete era scemata. I bei cocomeri d'un verde così tenero, venati di biancastre striature, eran passati dall'occhio del padrone infinite volte in rassegna; quasi più nessuno scendeva dal suo stallo, alle mezzelune allineate sul banco s'avventavano solo vespe e mosche. L'odore dolciastro che emanavano, così gi;ato nelle sere d'afa, cominciava a dar nausea. Quella fonte di frescura stava per inaridirsi ; la luce dell'acetilene sul banco vuoto diventava spettrale. Finché una mattina i cavalli di vettura uscivano per le strade^ senza più il berrettuccio bianco infilato nelle orecchie, e quelle ba¬ mgTsltmcdculldtgmdvdpmud racche venivano in quattro e quattr'otto .spiantate, restando i buchi degli assi e il terreno battuto e incrostato di pezzi di scorza. L'estate moriva nel languido settembre, stagione patetica come un'ottava del Tasso. Ma se in campagna basta uno scroscio, dopo il quale cielo, aria, luce e i colori della terra si tramutano in non so che di incantato, come se tutto stesse lì a ricordare qualcosa, e di questo ricordo traesse un diletto lungo dolceamaro, l'estate di città ha dei ritorni improvvisi, come un'ora di salute in un corpo convalescente, riprese che durano poco : la luce che batte violenta sulle strade, il piacere dell'ombra cercata sotto le tende dei negozi, il gusto di guardare, in quella luce irritata, l'umido e bruno tappeto che si srotola dietro l'inaffiatoio municipale, o il ventaglio d'acqua da cui si fa precedere soffocando l'insurrezione della polvere, e in noi il disagio d'un'afa che non è la densa afa estiva e nemmeno l'inesorabilità di quel caldo compatto che imprigiona il corpo in un grato bagno di sudore, ma qualcosa di irritante come una falsità del clima; tutto questo, poiché si sente destinato a finire, nè si gusta in pieno nè provoca una noia decisa, e genera un'attesa, il desiderio che lsrpnrdugsdstmsscptcq la stagione cada definitivamente, distendendosi in quella blandizie dorata che è modulata, e un giorno ci piacquero, in una strofe dannunziana e in un'ode di Keats. « Le sbarrate nubi fioriscono il giorno che dolcemente muore», e basta avere una finestra all'ultimo piano per guardarle, e godersi la loro effimera sontuosità. In ogni sostanza si tace la luce e il silenzio risplende, dice il nostro Boccadoro ; ma di questo tacito splendore della luce in città non giunge più d'un'eco, e i rumori lo stritolano a ogni passo. Bisognerebbe andarlo a ritrovare non solo sul mare, ma in certe piazze di città visitate una volta; piazze di piccole città, come l'Italia ne ha tante, e che rigalleggiano nel ricordo con più forte nostalgia proprio in questo trapassar di stagione. Ma tutto questo non è poi rovinosamente decadente? Sì, e vecchiotto; sicché io non guarderò più se stamattina la pianta di cui non so il nome, e che stende la sua ombrella seghettata e trasparente sotto le finestre della mia casa abbia finalmente mutato colore. Lo muta tutti gli anni, a settembre, dopo le prime piogge. Ma quest'anno, non so perchè, ancora non si decide. Mi par di ricordare che questo mutamento non sia graduale ; almeno, tra il suo verde e il suo rosso vdvlitbigpvtcitssqedcllsfinlgOgs r a n i i o n e é a e e a . , o vivo, io non trovo nella memoria disteso un lasso di tempo anche breve. Il grande platano che mi sbarra l'occidente, e d'inverno mi fa vedere il sole sanguinare come da una grata, ha cominciato già a tingersi d'un biondo di miele ; lo stesso orgoglioso ippocastano col quale s'abbraccia ergendosi verso il cielo, ha sulla cupola del fogliame una trascorrente velatura rossiccia, e del resto ogni tanto sento crollare tra i rami qualche castagna. La pianta di cui ignoro il nome, e che già dovrebb'essere tutta una tenera fiamma, persiste nel suo verde; anzi la sua abituale trasparenza è diventata opaca, come quando ha piovuto per giorni di fila, e le piante paiono ubriache d'acqua. Ma io sto facendo come il poeta del Cesare, taccio; e sarà meglio chiudere il balcone. Il vento assalta le chiome di questi alberi, strapazza la punta dell'abete. L'ultima luce spalma di piombo fuso i vetri delle finestre delle case di fianco ; qualcuno entra nello studio ad accatastar legna nel caminetto. Guardo gli scaffali giro giro; a quali libri allungherò la mano, se non al mio vecchio Orazio? Orazio, il poeta dei vini stagionati, e delle prime castagne, che stasera, al modo antico, metterò sotto la bracia. 0. TITTA ROSA.

Persone citate: Boccadoro, Dosso Dossi, Keats

Luoghi citati: Italia