Fuochi sul Bosforo

Fuochi sul Bosforo PER MARI PLACIDI Fuochi sul Bosforo -(*>£» i nostro invlato)- ISTANBUL, settembre. Il primo istante fu d'indecisione, come per un velario che s'apra di colpo su una messinscena inattesa. Da oltre un'ora, è vero, man mano che il Mar di Marmara s'insaccava nell'imbuto dello Stretto le distese degli abitati prima confusi nella lontananza erano andate infittendosi coprendo interminabilmente le due rive, e così ci eran state annunziate quelle grandi masse di non so quante città che adesso, acciecate di sóle e coronate di verde sull'alto dei colli, ci stavano in faccia e d'intorno, mentre miriadi di barche e vaporini in tutti i sensi solcavano le acque dì un turchino intenso. Ma ugualmente imponenti ed entrambi gremiti sulle sponde di case inverosimilmente ammucchiate eh?, spingevano al cielo gonfie cupole di moschee e sottilìs- simi fusti di minareti, apparivano i due bracci di mare, perchè dai pressi della Torre di Leandro, dove il piroscafo aveva rallentato la marcia, noi potessimo identificarli chiamandoli coi loro giusti nomi. Tutti eran corsi a prua affollando ponti e passeggiate, ed altri persino, presi d'entusiasmo, s'inerpicavano pei- le scalette degli alberi e del fumaiuolo; e: — E' il Bosforo; no, è il Corno d'Oro — s'udiva gridare fra la sorpresa della tanto attesa vista. L'occhio vagava, più stupefatto forse che avido, più distolto forse che intento, e già quasi stanco, su quella soverchia opulenza di panorama; e fra l'eccitazione che sempre cresceva e il tradizionalismo d'uno spettacolo ormai fatto stereotipo dalla superata moda esotica di tutta una scuola pittorica, dalle frasi abusate di tutta una letteratura di maniera, persino dalla banalità delle cartoline illustrate con saluti e firma — fra la ingenuità felice dei neofiti e il disincanto dei sentimenti logorati dalla parola, certamente era questo il momento da tentare la così detta « pagina forte ». Ma credo che mai il freddo della scrittura che non vince il tempo, la tristezza della carta stampata dormente dentro gli scaffali chiusi, m'entrarono nell'ossa tanto pungenti, come in quest'attimo di rapace ansia di milletrecento persone poste davanti a un'immortale realtà fatta soltanto d'aspetti, abbandonate a una curiosità cieca che soltanto coi sensi voleva esser soddisfatta. E l'inutilità di quei libri che fin dalla partenza da Trieste avevan circolato per il bastimento, chiusi sui tavolini fra un wisky e un'aranciata o abbandonati aperti sulle sedie a sdraio al sole, si paragonò ai vostri defunti amori, alle vostre defunte parole allineate vanamente a migliaia, o Edmondo De Amicis, o Pierre Loti, ombre pallide emergenti da un passato morto. - L'ora del Corno d'Oro Eppure la pagina (e chi non la ricorda di quanti venti o venticinque anni fa nel loro ìntimo combattevano fra la seduzione di quella molle prosa profumata come un «loucoum» di Scutari e l'antipatìa insormontabile per la figura di quél francese imbellettato da turco), eppure la pagina non sonava stonata nemmeno adesso. « ...Il fumo stagna come una lunga nuvola piatta sulla confusione dei neri piroscafi e dei caicchi dorati, sulla folla variopinta che vocifera le sue contrattazioni e ì suoi mercati. Ed è laggiù, al di sopra di quei vapori e di questa polvere di carbone, che la città immensa si mostra come' sospesa. Contro il cielo aperto e puro si appuntano i minareti acuti come lance, salgono cupole e cupole, grandi cupole rotonde di un bianco grigio, di un bianco morto, che si dispongono le une sulle altre come piramidi di campane di pietra: le immobili moschee che i secoli non mutano ». E infatti, nel mgtigjjyQ. ormisi deolinmtel era l'ora classica del Corno d'Oro, di questa corrente diramata dal Bosforo, che fra la punta di Istanbul ed i sobborghi di Galata e Pera fin oltre Eyup penetra in terra europea di fronte al promontorio asiatico di Scutari. Non gran fervore, in verità, animava il (porto, l'emporio famoso sull'incrocio di due mondi; e tuttavia la caligine che per selve di fumaiuoli e dì comignoli saliva dall'acqua prillante come per interni fuochi, dava all'interminabile digradar degli edifici un aspetto indeciso di scenario fantastico che fasci di sole radenti basse corone dì nubi purpuree circonfondevano di trionfi luminosi. A figger gli occhi in tanto barbaglio per discerner palazzo da moschea o torre da minareto, non si scorgeva che masse oscure e quasi nere di i e e i i l a navi, di moli, di case e catapecchie, e dall'insieme, tacendo la coreografia fin troppo sontuosa, nasceva un'impressione di smarrimento, di fatica, d'indicibile miseria e bruttura. Fu quasi un sollievo quando il piroscafo, doppiata la Torre di Leandro, che col suo jdado bianco da faro ancorato sul liquido azzurro ci sembrava modesta per la passione eroica di Ero leggendaria, e puntando dritto a risalire il Bosforo per la passeggiata di pragmatica, ci portò verso la più tranquilla riva di Asia, sottraendoli a quei controluce divampanti. Nostalgia di forme classiche Ormai ci eravamo orientati. Sfilava, placida visione di un film rallentato, bassa e verdeggiante la sponda, con una dolcezza e una tenerezza nuova. Sulla nostra destra, appena in lieve salita verso la collina, la vastissima distesa d'Uskudar coi mille e mille dadi dei suoi edifici frammisti ai ciuffi d'alberi dei piccoli giardini; a sinistra, la discesa dei borghi di Pera sopra Galata piatta e fuligginosa, vigilata dalla sua torre tozza; dietro, che col nostro procedere sempre più si dilatava svelando lunghe prospettive e selve di guglie e grappoli di confuse abitazioni, l'area triangolare d'Istanbul col suo vertice acuto nel mare, alla Punta di Saray; e, davanti, questo ridente corridoio turchino, navigato in ogni verso da véle, da barche, da battelli. Passavano con gridi rochi di sirene cui rispondeva il nostro urlo di claxon, oppur venivano con civetteria a sfiorare i fianchi della nave, tanto da lanciare un saluto alla voce ricambiato dall'agitarsi festoso di braccia, dallo sventolìo di fazzoletti e sciarpe lungo i parapetti stipati. A volte sul pennone d'una villa guizzava un tricolore, così che anche il nostro s'abbassava c risaliva, spesso fra applausi; però tosto gli sguardi tornavano alle rive che adesso andavano fritagliandosi di porticciuoli minuscoli, nei quali dondolavano bianche navicelle da diporto, di serene insenature azzurre ombreggiate da salici piangenti, o di profonde rade il cui silenzio, malgrado il traffico, pareva perennemente inviolato. Alla città succedeva il sobborgo e la campagna, con zone di terra giallastra rotte da macchie cupe di pini marittimi o segnate da nere processioni di cipressi, con cimiteri musulmani dalle grige stolidi di pietra piantate aguzze e sottili in abbandonato disordine; poi di nuovo la città riprendeva, folta di cupole, fitta di minareti, e sempre contro quel fondale di tondeggianti colline deserte la cui ocra sul cobalto intenso del cielo già offriva il tipico color d'Oriente. Il libro giaceva chiuso. Che im| portavano i nomi, e che quello fosse Beylerbey piuttosto che Kandilli, o Kanlica piuttosto che Beykoz. Per ì meravigliosa che fosse la visione, si cominciava a seguirla trasognati, e come, &ffranti; e più che lo sfarzo ora si ricercava l'intimo, più che il tumulto delle impressioni, il ristoro d'una sensazione unica: la nota singola nell'orchestra assordante. E' incredibile come l'Oriente sùbito sazi, e come noi nati sulle sponde del Po, del Tevere o dell'Arno d'istinto respingiamo come un tedio il favoloso, per anelare alle più semplici e terse misure dello spirito. Già in un giorno lontano, sul Nilo prima e poi nel deserto, avevo provato questa disperata nostalgia di forme classi che, di fisionomie umanistiche; ed anche adesso, non fosse stato il conforto d'alcuni amici qui accanto, tutto avrei dato questo Bosforo smagliante per l'intatta maestà di Monte Berico, o per la curva sulla quale l'Adige bagna Verona. Allora, più che all'insieme l'occhio scendeva curioso e compiaciuto al particolare, e le villette di legno traforato con le verande spinte fino a specchio dell'acqua, certe moschee minuscole il cui minareto non superava i platani d'intorno, oppure un candide,'disabitato palazzo in rovina, dai marmi abbandonati, dalle finestre senza imposte nere e spalancate come occhiaie vuote, suggerivano pensieri di pace, un poco tristi forse, ma almeno riposanti. Del resto, anche Anadolu Kavagi con gli spalti diroccati del suo castello genovese era stato oltrepassato e si filava rapidi per lo Stretto più libero; nè, guardando ora Pasabahee ora Therapia e Buyuk Dere, ci eravamo accorti che non solo l'acqua era mutata facendosi più nera e vorticosa, ma che foschi cavallonidi nubi correvano adesso per il cielo e che le sponde si spegnevano lìvide come se un'improvvisa angoscia le avviluppasse di freddo. Là in fondo una sbarra oscura segnava l'orizzonte cupo; e quando, mentre la prua virava a sinistra, qualcuno disse — E' il Mar Nero —, fu come se il nome dell'antico Ponto avesse destato un fascino tuttora vìvente. Era la vera porta dell'Asia misteriosa che noi salutavamo dalla nostra tolda sicura; ed ancora una volta la bellezza del momento stava nel fermarsi appunto sulle soglie. Ormai l'impazienza pareva spingere la nave. La sferzava anche il vento, la incitava questa corsa di nuvole gonfie d'acqua sul nostro capo, pronte a sfasciarsi in un brontolìo di tuono. Anche le barche s'eran diradate, come inghiottite dalle ombre calanti, e una malinconia infinita saliva dalle rive, faceva le case putride, gettava un velo funereo sui cimiteri e i giardini, su gli orti, sui castèlli. Là in fondo, sopra Istanbul di nuovo il cielo si serenava in una apoteosi di luci d'oro, di fiammanti porpore che a loro volta riversavano torrenti ìgnei sulle acque diventate incandescenti. E intanto a Scutari, annunziato da vortici spessi di fiamme, il fuoco divorava un intiero quartiere di case di legno. « Scutari brucia!» Era uno dei soliti incendi purificatori di Costantinopoli, là dove marciume e vizio un tempo s'accumulavano; ed il caso voleva che noi assistessimo ad uno di questi belli e tremendi spettacoli. Lo vedevamo da troppo lungi per renderci conto della sua entità (quattordici case distrutte, ci dissero più tardi), ma quelle lingue vermiglie e serpentine che salivano versò l'azzurro adesso sempre più opalescente e raddolcito, quel braciere dal quale nembi di faville ad. ogni crollo di muro o di tetto si levavano altìssimi, ci tenevano inchiodati sul ponte, tutti presi dall'atroce, inconfessato desiderio che il fuoco sempre più divampasse per accrescere terrore alla .superba vista. « Scutari brucia, Scutari brucia! », si gridava da ponte a ponte; e forse qualcuno, nell'incommensurabile cinismo del turista, pensò: Anche questo la crociera ci offre... ». Ancora un istante : e sarebbero trasvolati per l'aria ì fantasmi di Bisanzio. Invece le fiamme diminuirono, guizzarono ancora un poco sopra le macerie mentre un velo di fumo si stendeva tult'intorno ; quindi si spensero. L'ultima sferzata del sole tramontante in Europa incendiò di fiaccole rosse i vetri delle case per tutta la sponda asiatica; poi l'ombra del vespero fece cadaveriche le cupole di Santa Sofia, mentre il piroscafo attraccava al molo di Galata, e soltanto più la torre merlata disegnava la sua sagoma nera sul,cieZo forato dalle prime stelle. Sulle]calate i mercanti cominciarono aiacttarci i loro richiami • e noi ci sen- gcuarci i loro nomami, e noi ci sen- tmm tristi c^xe ancora non mai nel viaggio. MARZIANO BERNARDI anche Anadolu Kavagi con gli spalti diroccaci del suo castello genovese ' ' era stato oltrepassato... ».