Il Principe che ritorna al suo Cervino

Il Principe che ritorna al suo Cervino LA VAL D'AOSTA PER IL DUCA DEGLI ABRUZZI Il Principe che ritorna al suo Cervino -{Odi nostro inviato)—— Giomein, 25 notte. E' come se lo rivedessimo seduto qui davanti all'albergo, al suo solito tavolino di ferro, quando il piazzale era ancora deserto, primo sempre ad uscirà di stanza. Amava quell'ora mattinale del Giomein, quella serenità di cielo e di ghiacciai non ancora turbata da voci 0 da presenze, che gli rammentava forse le alte solitudini dei bianchi orizzonti polari, delle vertiginose cime conquistate dall'Europa all'Africa, dall'Asia all'America: la solitudine in cui ritrovava finalmente il suo io intimo e completo, in cui egli non era più il Duca degli Abruzzi, ma soltanto Luigi di Savoia. Lontana ormai la giovinezza gagliarda che l'aveva spinto a cercare per questi monti il battesimo del rischio .-confinate nel ricordo le grandi imprese che avevano empito il mondo del suo nome; il navigatore, l'esploratore, l'alpinista, l'ammiraglio, il colonizzatore che aveva sprezzato tutti i pericoli, vinto tutti gli ostacoli, creato opere durature per quell'Italia ch'era il suo più nobile amore ed il suo orgoglio, ma che chiudeva in cuore una amarezza senza rimedio per aver dovuto lasciare i mari solcati da dominatore, si riposava in questa pace vigilata dal gran monte leggendario. Quattro passi al sole Il suo saluto al Cervino ogni mattina, scendendo dalla sua camera d'aiv golo dell'albergo di Peraldo, era rituale. Gettava sul tavolino la cartella di cuoio con la corrispondenza da sbrigare (e la sbrigava 11 all'aperto prima che i villeggianti lasciassero le stanze), faceva quattro passi al sole con le mani affondate nelle tasche dell'eterno costume scuro a righe chiare, poi si recava presso il muricciuolo dove c'è il telescopio montato sul treppiede e puntato verso la tremenda guglia, il vecchio telescopio che ha dato il segnale di tante vittorie alpinistiche, l'allarme di tanti tragici epiloghi d'ascensioni. Con quei suoi occhi azzurri, co3l limpidi e dolci, che la vita, malgrado tutto, non aveva potuto intorbidare, contemplava l'antico avversarlo, meglio, l'amico che l'aveva fatto gioire e soffrire come un innamorato. Talora il gigante gli rispondeva bonario dalla sua sovrana serenità torregglante: creste e nevai si profilavan nitidi sul turchino del cielo, costa per costa, spacco per spacco, baratro per baratro, suggestivo, affascinante, irresistibile richiamo di giovinezze — ed erano allora i giorni buoni, quando la conca del Breuil verdissima fra ghiacciai e rupi è colma di luce sfolgorante, e 11 torrente canoro porta a valle sulla sua corrente l'immagine del larici esili sparsi sui clivi della prateria ■fiorita. Tal'altra, invece, la formidabile piramide mozza ruggiva trtìce nei turbini del vento: fumi di tormenta l'avvolgevano allo strappo delle raffiche scatenate da cieche collere ignote forse di nascosti titani, livida la costiera dalla Dent d'Hérens al Chàteau dea Dames s'oscurava nella bufera, e un'ombra triste — Infinitamente triste — gravava sull'anfiteatro Immenso sparso di pochi casolari da pastori: ed anche l'edificio dell'albergo pareva Improvvisamente invecchiato, logoro nella sua facciata gialla bucata dai fori neri delle finestre. Allora, in tanta malinconia alpestre, il lungo viso glabro del Duca, segnato dalle due profonde rughe dal naso alla bocca, s'illuminava d'un sorriso. Conosceva quelle furie inutili che facevan tremare le guide al solo pensiero di trovarsi in quell'inferno: di fronte alle selvagge forze brute stava l'intelligenza lucida dell'uomo che aveva saputo attendere la sua ora, qui come sui deserti del Polo, per cogliere la vittoria al momento giusto. Anche per questo, per la sua pazienza e il suo istinto di montanaro mai prevalente sull'audacia innata, questa gente valdostana savia e lenta, l'adorava. Riconosceva in lui il Duca della Montagna, l'uomo al cui nome giustamente, perchè se l'era meritato con lo sforzo fisico e la saldezza dello spirito, e non per vieta adulazione, il Club Alpino aveva intitolato la Capanna sotto la Grande Tour: l'uomo che con Mummery e Norman Collie, e col solo portatore Pollinger junior, il 28 agosto 1895 aveva compiuto la salita del Cervino per la terribile Cresta di Zrautt con rapidità meravigliosa, c In tale spazio di tempo — come scrisse il Mummery medesimo — che in avvenire sarà probabilmente dimostrato essere il più breve possibile ». mmpacsutcgdgltgnPcmvdpnvStlsmszvspsnsfl Nell'estate del 1892 • Qui era venuto, ventenne, la prima volta più di quarantanni fa, nell'estate del 1892, accompagnato dal suo aiutante di campo, marchese Guglielmo Capomazza, e da Francesco Gonella, presidente del Club Alpino Italiano; e nel salottino dalle pareti foderate di legno dell'albergo del Giomein, il proprietario Mario Peraldo, che il Principe trattava con benevolenza e che si è fatto ora geloso archivista di memorie di quegli che fu per tanto tempo suo ospite augusto, custodisce religiosamente sotto vetro le poche righe scritte allora dal Duca: « Sett. 10-20; 1892, Fatto il Breithorn e traversato il Cervino partendo dal Breuil e recandomi in una sola giornata all'Albergo di Scharnz-see in compagnia del signor Gonella, lascio questo Albergo sperando tornarvi il più presto possibile ». Sopra il piccolo riquadro di carta, il ritratto del giovane ufficiale di marina, in divisa: un volto bellissimo, nobile, franco, l'arguta bocca sinuosa, i fieri battetti a quei tempi di moda, e quel suo sguardo un po' vago, sognante, lo sguardo di un uomo che già pareva cercare qualcosa oltre gli oggetti vdsisibili. Racconta Peraldo che il Duca era qui da giorni, impazientissimo di compiere l'ascensione. Ma il consenso di Re Umberto tardava ad arrivare, forse per un giustificato timore del rischio non comune. Finalmente giunse il telegramma, recapitato da Aosta. Sùbito il Principe parti, felice come un ragazzo. Sua prima vera esperienza alpinistica, questo Cervino che oggi giganteggia colossale in una purezza indicibile di azzurro, nette tutte le sue rughe enormi profonde come valli, tersi tutti 1 suoi ghiacciai tormentati da crepacci, innumerevoli quasi il vento già freddo che prelude al settembre segnasse a sbalz- ^gni rilievo, incidesse al bulino ogni ssgreta fessura: — e quale esperienza! Vien fatto di ripensare a quanto disse Guido Rey nel suo Mante Cervino, che rimane il più bel libro che mai alpinista abbia scritto in Italia: « Non so se sia l'alpinismo che formi certi caratteri, o se tali caratteri si sentano attratti istintivamente all'alpinismo ». Parole che paion pronunziate per Luigi di Savoia. La passione per la montagna «he doveva portarlo fin sulle più misteriose cordigliere s'era or¬ mai impadronita di lui: meglio, alla montagna egli aveva offerto la sua passione generosa per tutte le impresa ardita. Come De Amicis Da allora il Giomein gli rimase nel cuore. Fra una navigazione ed un'esplorazione, fra un lavoro scientifico ed .. una nuova fatica di colono pioniere, vi tornava con la tenerezza nostalgica che nella memoria degli uomini avvolge le immagini dei primi amori dell'adolescenza. In principio lo accompagnavano ora Umberto Cagni, ora l'allora tenente di vascello Ducei, e più tardi il comandante Romano; ma in seguito prefari salirvi solo; a Valtournanche lasciava gl'intimi, chiamava Peraldo, noleggiava, senza quasi mai cavalcarlo, « Bigio », il più gagliardo mulo della valle che ormai lo conosceva come un padrone, e via per la stradicciuola verso il Gouffre. Quando, dopo Busserallles, il Cervino appariva nella quinta della forra, gli s'Illuminavano gli occhi. « Ci pensavo fin daliaSomalia; vengo da Napoli direttamente », diceva al suo accompagnatore; e la camera d'angolo, sempre la stessa, sull'angolo opposto di quella di De Amicis, lo attendeva; e anch'egli, ridiscendendo poi a valle dopo la vacanza, proprio come De Amicis, continuava a volgersi per guardar quella finestra, laggiù lontana, piccola come un punto nero, che gli ricordava tante ore tranquille, certo tra le più belle della sua vita. Che qui, fra le montagne amiche che non si stancava di ascendere (l'ultima sua salita al Cervino fu del 1925), sentiva quanto forte e sincero fosse l'affetto di quanti lo circondavano. Non pretendeva forse scherzosamente che la vecchia guida Leonardo Carrel gli desse del tu? E la compagnia di tutte le guide, di tutti 1 montanari, di tutti' coloro che disinteressatamente amano la montagna, gli era come nessun'altra cara. Conduceva al Giomein un'esistenza quietissima, quasi metodica. Fuori d'albergo alle sette del mattino, fin verso le dieci scriveva e leggeva;" poi, a passeggio verso Pian Torrette e la valle delle Cime Bianche; dopo desinare in camera fino alle quattro, quindi di nuovo in giro, ed alle dieci e mezzo di sera a letto, In attesa della limonata calda che il fido Peraldo gli portava. Ma forse il suo più grande trionfo In fatto di montagna, fu quando, nell'estate del 1928, riuscì a convincere il Duca d'Aosta non solo a soggiornare al Giomein, ma a salire fino al Colle del Teodulo, a tremilatrecento metri. Tutt'altro che alpinista, il Condottiero della Terza Armata nicchiava agli inviti del fratello. « Non ho scarpe da ghiacciaio », diceva burbero, trincerandosi dietro quest'ultima difesa. Final-, mente si persuase; e chi, come noi, ebbe la fortuna d'accompagnarsi a quella comitiva, potè notare con quanto devoto affetto, con quanta trepidante premura il Duca degli Abruzzi ammoniva e incoraggiava il fratello : ' « Metti un piede qua; appoggiati alla mia spalla;' bada a questo piccolo crepaccio... ». Ma. la faccenda delle scarpe non abbastanza < alpinistiche » continuava a preoccupare il Duca d'Aosta: e guardava una signora che se n'era venuta su tranquillamente in scarpette basse, e diceva al vicini : « Ma come fa costei a saltare cosi con quelle suole! ». Poveri e cari Duchi, l'uno che posa a RedipugUa, nella gloria del Carso; l'altro che dorme là sulla costa d'Africa lontana, la costa da lui arata e seminata per render fertile quel lembo itatene Era l'estate del '31, e morto l'uno dei due grandi fratelli, Luigi di Savoia era venuto quassù,, chiuso nel suo dolore. Già s'- ;nunziava la malattia mortale. Soffri molta nella discesa, a settembre. Nel non venne. Scrisse a Peraldo: «T - ierò certo l'anno venturo ». La mori e lo colse a primavera. n ¬ La lapide di bronzo «Tornerò l'anno venturo». Egìi sta Infatti per tornare, almeno col suo spirito di montanaro e d'alpinista, il nostro Duca che qui tutti noi tanti si amava Sono i suoi vecchi amici del Giomein che lo chiamano, insieme con le guide, insieme con tutta la gente valdostana. Essi — i fidi — vogliono restare anonimi (ed è uno squisito pensiero di delicatezza severa); ma si sa chi possono essere costoro che a nome della Val d'Aosta sabauda, scoprono domani sabato 26 agosto, sulla facciata dell'albergo del Giomein, proprio accanto alle finestre della camera del Duca, la bella lapide di bronzo da' loro offerta per ricordar quei sog-, giorni e quell'amore. Dice la lapide: « Luigi di Savoia-Aosta Duca degli Abruzzi — Navigatore di ogni mare dominatore di ogni monte — Che nuove vie aperse e altezze inviolate conquistò — Recando in luce di vittoria — /I nome d'Italia e di Casa Savoia — Qui — Dove si eleva sovrano in austera bellezza — Il Cervino — Temprò gio-, vanissimo le sue salde virtù, d'alpinista — Amò negli ultimi anni di sua vita sostare, — A ricordo di Lui. — A onore d'Italia >. Cosi domani, con semplicità somma, la lapide, che adesso ancora si sta murando, verrà scoperta, con l'intervento dell'on. Manaresi, Presidente del Club Alpino Italiano, di S. E. Negri, prefetto di Aosta, del Segretario Federale di Aosta, dott. Belelli, delle autorità della Provincia, delle autorità di Valtournanche. Dirà la messa al campo il Vescovo d'Aosta, monsignor Imberti. Sarà cantato dai seminaristi di Valtournanche il «Miserere», e poi il corpo delle guide alpine intonerà in coro sommesso il vecchio cantò valdostano: « Montagnes valdotaines vous ètes mes amours — Cabwnes fortunées vous me plewrez toujours*. Quindi S. E. De Capitani farà l'appello secondo il rito fascista. Tutta Valtouinnanche, tutti i fidi del Giomein saranno uniti nella risposta solenne; e certo uno Spirito venuto da lungi, traverso i mari fino a queste balze dove il Cervino affonda le sue radici possenti, aleggerà nell'eco della voce. Oggi la lapide è salita alla collina del Giomein, portata dal piano del Breuil a dorso di mulo. E poiché la vita offre imprevisti che nessuna fantasia letteraria saprebbe immaginare più patetici, il caso ha voluto che sia stato «Bigio», il fido mulo che portava il Duca vivo, a recare il bronzeo ricordo per il Duca morto. Imprevisti. Ma quando il mulo è giunto sul piazzale e tutti l'haa riconosciuto, le guide e i fedeli del Principe sono messi a piangere. ftAMANQ BERftiARDt,