Il Fiore della lirica italiana

Il Fiore della lirica italiana Il Fiore della lirica italiana Se alcuni anni fa un tardo nipote di Costantino Cefala, l'Adamo degli antologisti, avesse dovuto metter mano a un'antologia della poesia italiana, si potrebbe giurare che avremmo visto Cavalcanti accanto a un brano dei Fioretti, un canto di Dante accanto a una novella di Boccaccio, Ariosto dare il gomito a Machiavelli, l'Addio ai monti di Manzoni star vicino a un dialogo di Leopardi. E se, poniamo, un carducciano un po' rigoroso avesse gridato al guazzabuglio, il trionfante antologista, Estetica alla mano, avrebbe potuto dimostrare che niente era più legittimo e ammissibile del suo lavoro. Negherete che quel brano di prosa è poesia allo stesso modo di quella lirica? E non esito a dire che la sua dimostrazione sarebbe stata calzante. Anche noi, in confidenza, l'abbiamo fatta più volte. Ma mentre la tiravamo giù a filo d'estetica, sentivamo insinuarsi in essa, quasi nostro malgrado, un dubbio. Sì, è innegabile che Boccaccio è poeta, e poeta è Manzoni nel romanzo, sebbene dicesse quando lo scriveva d'essersi « sliricato » ; ma non ci sarà* proprio alcuna differenza fra la novella d'Andreuccio e un sonetto di Petrarca, fra la caduta di Geltrude e la morte di Ermengarda, fra il Pastore errante e il dialogo di .Tristano e d'un amico? O ci sarà solo quella differenza che esiste fra un'opera d'arte e un'altra, per cui ognuna è imparagonabile, e tutte insieme si raccolgono sotto l'insegna comune di lirica? Fra il poeta in versi e il poeta in prosa non sarà possibile istituire una distinzione più jntima ; una distinzione di grado, d'intensità lirica? Anche Croce, dopo aver identificato prosa d'arte e poesia in versi, parla spesso d'intensità, a proposito di questa. E poi la tradizione e il sentimento personale della poesia ci attestano abbastanza che la parola del lirico è sintesi, e reca in sè « un alto potenziale » che la parola del prosatore non ha; e non ha perchè non occorre che l'abbia. Il poeta concentra, si cala nella propria situazione lirica, direi, verticalmente (si pensi a qualche sonetto del Foscolo o a un idillio del Leopardi), piomba nell'intimo seno del proprio sentimento con un volo repentino e ne attinge immediatamente la segreta, germinatrice radice; il prosatore vi giunge attraverso giri e svolgimenti, non brucia alcuna tappa, d'ogni tappa anzi si vale come d'una pausa e d'un trapasso necessar.ii, ed enuclea da sè il proprio tema poetico trasferendolo in un carattere, in un personaggio. Dove il primo suscita una fiamma alta e diritta, una colonna di fuoco, il secondo distende un lago, un mare. Poeti tutti e due, s'intènV.ff;Jma jn un modo diverso, tanto'diverso che dallo scatto dell'ispirazione al mezzo tecnico la creazione di entrambi segue un cammino, incontra ostacoli, li risolve, dando l'impressione, e non solo l'impressione, che ci sia ben poco di comune fra quella dell'uno e dell'altro. La prosa è indubbiamente un modo d'essere della poesia ; ma occorre metter l'accento con tanta decisione sul modo da suggerire una distinsione quasi più non formale fra la prima e la seconda. —"Empiria, empiria, sento qui ripetere da qualcuno, in preda allo scandalo. Ed è noto di quale grave eterodossia sia impeciata, per dei filosofi, questa parola. Ma poi che accade? Che anche i filosofi, facendo critica d'arte, non sfuggono all'empiria; e le distinzioni, abolite in sede teorica e cacciate in blocco dalla porta, rientrano per la finestra o per il più piccolo pertugio ; e si vengono a riproporre nella pratica della critica d'arte con una prepotenza che •solo un filosofo terribilmente^ sistematico può avere il coraggio di scacciarle di nuovo. Si può dire che questi trent'anni 'd'estetica e di discussioni teoriche sull'estetica si siano svolte sui punti che abbiamo ora toccati in modo alquanto personale, e su punti affini. E allora, un antologica non più tipo 1914, che è suppergiù l'epoca in cui l'indistinzione fra prosa e poesia raggiunse il momento culminante, ma un antologista tipo 1930, carico di quei dubbi che s'è detto, alcuni dei quali risolti altri in via di risoluzione, come poteva metter mano a una antologia della lirica italiana? Non vedo che potesse regolarsi molto diversamente da come han fatto Enrico Falqui e Aldo Capasso col loro Fiore della lirica italiana dalle origini ad oggi (Carabba editore) ; il che vai quanto dire che un'antologia di poeti non poteva oggi esser fatta, o-almeno tentata, se non sulla via' scelta dai due antologisti. Punto primo dunque : attualità della loro opera, sulla cui legittimità, come principio, non c'è nulla di sostanzia' le da obbiettare. * * Ma si può chiedere: la lirica italiana si presta tutta alla verificazio ne di tale principio che i due antologisti hanno chiamato « idea della lirica in senso stretto»? A escludere da tale concetto, non dico il descrittivo o il pittorico, ma il discorsivo e l'eloquente, non si rischia di impoverire quasi fino all'estremo il ricco fiume della nostra lirica ? E non è vero che la poesia italiana è, oltre che vicina all'eloquenza (l'alta eloquenza petrarchesca della Canzone all'Italia 0 alla Vergine, o quella deSepolcri) vicina anche alla narrazione epica? E, a esempio, Dante non è lirico e narrativo a un tempo, e cosi il Tasso e così persino, come spotrebbe sostenere, il Leopardi delle Ricordanze ? Naturalmente, tale narratività che potremmo chiamar verticale è ben diversa dalla narrazione prosastica d'un Boccaccio. E questo e tanto vero che i due antologist messisi di fronte all'impegno teorico d'applicar con rigore la loro idea di lirica « in senso stretto » e di fronte alla realtà, dirò, storica, della nostra poesia, han preferito attenersi di più a questa realtà che a quel principio ; e darci in sostanza il fiore lirico-narrativo della nostra poesia, non escludendo nemmeno l'eloquente. Difatti, hanno incluso brani della Commedia, dell'Aminta e della Gerusalemme, buona parte dei Sepolcri; del Carducci han preferito l'eloquente e pittorica Mors: la parnassiana, e qua e là scolastica per i suoi passaggi logici non lirici. Nella Piazza di San Petronio, la descrittiva Alla stazione (dunque un Carducci, specie per l'ultima poesia, impressionistico e eloquente) ; del Pascoli, che insomma è sempre da scegliere dall'Ultima passeggiata e da Nyrìcae, han preferito, c questo si spiega meno, il primitivismo dugentesco dell'Alba, così industriosamente alessandrino; nè le altre due liriche rispondono pienamente all'idea di lirica « in senso stretto ». Facciamo, si vede, osservazioni a caso, le prime che ci vengono alla penna; ma quasi per ogni poeta, e per lo stesso Foscolo del quale avrei dati più sonetti e meno Grazie, si possono muovere obbiezioni di scelta, mettendosi precisamente dal punto di vista di quell'idea di lirica, che Gargiulo chiarisce sobriamente nel suo saggio. Ma perchè facciamo queste obbiezioni? Perchè, con quell'idea in mano, anzi con quell'arma, anzi con quel letto di Procuste molta parte della lirica italiana — la cui origine eloquente è inabolibile — finisce col trovarsi a disagio. A rigore dunque — e lo riconoscono del resto nella loro Nota gli stessi due antologisti — un « fiore » della lirica italiana non poteva esser fatto al massimo che con una decina di poeti, a far conto largo. Ma, se avessero scelto questo arduo partito, avrebbero dato Falqui e Capasso un'idea storica della nostra poesia? Crediamo di no; ed è per questo che preferiamo la loro manica larga al loro rigore. Manica larga per modo di dire; che realmente la poesia italiana, o si coglie quale storicamente è stata — poesia d'affetti con riuscite eloquenti, soluzioni descrittive e lirico-narrative impostate in una « situazione », — o si è costretti a frantumare la sua compattezza per la ricerca del « verso solo » : esperienza già fatta, e già malamente riuscita. Questa antologia oscilla alquanto tra questi due poli; e dopo aver posto rigorosamente l'esigenza di « lirica pura » la tempera, se non la contraddice. Felix culpa; che dimostra, in fondo, il senso storico dei due compilatori. #** Ma poiché l'antologia è fondata su questa duplicità, meno spiegabile è il rigore, qui veramente assoluto, col quale sono stati trattati Ariosto e Parini, il Manzoni della Pentecoste, e il Pulci, per limitarci a questi quattro. Il Pulci non figura affatto ; e sul serio nel Morgante Falqui e Capasso non han trovato niente, anche usando senza manica lar¬ ga quel rigore di cui si sono più d'una volta scordati, e non sempre felicemente, per il Tasso, riportandone ottave, come qualcosa del giardino di Alcina che sono una stretta imitazione, come è noto, dell'Odissea? (Si veda pag. 156 dell'antologia : Nel tronco istesso ecc., e si confronti Odissea vn-150 e seg. ; trad. Pindemonte). _ Nè so come si possa dire che una simpatia per Parini può avere « un'origine del tutto privata » ; e rincalzare con queste curiose parole : « Tipico il caso del Parini : che abbiamo colto in un momento in cui non era se stesso. Ma altrimenti saremmo giunti a disperare di poterne trascegliere alcunché. Cercammo anche nelle spoglie di un Parini sensuale ; ma ci accorgemmo a tempo che per questa via avremmo artificiosamente (sebbene fossimo in buona fede) gonfiati elementi non giunti a sviluppo ». Questo è scritto a pag. 47 della Nota dei compilatori. E « spoglia di un Parini sensuale », « con elementi non giunti a sviluppo » sarebbe dunque il Messaggio; questa lirica che pure piacque al Foscolo il quale la disse « bellissima forse tra tutte le altre» del Parini, e che piacque a Manzoni, giudici d'un certo gusto. Difetti ne ha, s'intende; ma che diremmo allora della monotonissima Canzone dei baci del Marino, riportata intera? Con dodici versi descrittivi del Vespro non si dà Parini, nemmeno riconoscendo d'aver commessa un'« arbitrarietà necessaria ». O perchè poi « necessaria »? In quanto alla Pentecoste manzoniana, il più bello degli Inni sacri, è qui battez¬ zata « oratoria » ; « accordi doratoria », « flusso oratorio » ; e chi sa con quale estetico disprezzo viejne pronunciata questa parola di «oratoria », può intendere quello dei due antologisti. Ma il caso più curioso è quello di Ariosto. Ecco la condanna che lo riguarda, nella quale credo di poter riconoscere lo stille critico del Capasso : « Nessuno gli negherà alcune soluzioni tra bona,rie e ironiche; ma in complesso il tema cavaleresco era, per un pacifico cinquecentista, assai ribelle ( ?') : e, se era difficile risolverlo con totaVità nel piano dell'ironia, era più difficile sollevarlo a liriche altezze ccrn animo limpido. Esitando fra le c'/ue soluzioni, e avendo sempre in capp qualche nostalgia, potè tuttavia l'Ariosto qualche volta conoscere una composta commozione ». E' per questo che, decapitato Ariosto, il cinquecento è .rappresentato dal sonetto al Sonno dello « stilista » Della Cassa, da frammenti di Michelangelo,, 'da un sonetto, oh questo si furentemente sensuale, di Muzzarelli, da qualche odicina del Guarini e da molto Tasso. Ariosto ci figura col pianto di Ofiimpia e d'Isabella ; riprova che « qualche volta » Ludovico potè conoscere una composta commozione. Storture, si capisce, dovute almeno in parte a quella oscillazione di gusto cui l'antologia ubbidisce; oscillazione legata a quella duplicità di criteri a cui Falqui e Capasso non han saputo, e forse potuto rinunciare. 0. TITTA ROSA.

Luoghi citati: Gerusalemme, Italia